Franca Rame scrive al Ministro Parisi

Roma, 28/11/2007
 
 
Egregio Ministro,

mi rivolgo a Lei, nella consapevolezza della Sua grande sensibilità verso le vittime dell’uranio impoverito e inquinamento bellico, dimostrata, non da ultimo, durante la Sua audizione in commissione d’inchiesta.
 Da quando sono venuta a conoscenza del problema ad oggi ho cercato, assieme a molti altri, di percorrere ogni strada affinché questi militari ottenessero il giusto riconoscimento, ma soprattutto ho voluto essere al fianco delle persone, nella condivisione delle sofferenze e degli oneri. Ho conosciuto famiglie paralizzate dalla malattia, che per garantire cure mediche adeguate hanno venduto case, auto e proprietà, avventurandosi in viaggi di fortuna da una parte all’altra dell’Italia.
Molto spesso si tratta di famiglie non facoltose, che si accollano interamente le spese per terapie e farmaci nella speranza di alleviare le pene di una patologia il cui decorso è tragicamente fatale nella maggioranza dei pazienti. Numerosi i casi in cui oltre alla sofferenza per la scomparsa del marito o del figlio ci si trova di fronte alla condizione di non poter provvedere neppure alle spese per la lapide.
Una volta seppellito il proprio caro, il calvario non finisce. Ha inizio infatti una lunga trafila burocratica per vedersi riconosciuti diritti minimi: chi per la reversibilità della pensione, chi per la causa di servizio. Anni di attesa, che spesso finiscono in una risposta negativa. Ma i figli sono da allevare, la vita domestica deve procedere, i debiti contratti per le cure vanno onorati.
 Come può uno Stato definirsi progredito se non è in grado di riconoscere i più deboli e garantire loro la giusta assistenza? Sono certa che questa domanda Le sia più volte affiorata alla mente, venendo a conoscenza di queste vicende. 
  Io con i pochi strumenti che ho a disposizione, ho aperto una sottoscrizione su internet, mettendo personalmente a disposizione una cifra iniziale, servita per l’appunto a venire incontro a necessità primarie (in allegato il dettaglio). Ciò che Le chiedo, caro Ministro, è di comprendere la gravità di quanto scrivo e di intervenire fattivamente, comprendendo che le urgenze primarie hanno bisogno di essere superate, per garantire a queste famiglie la possibilità di essere sollevati da alcune delle sofferenze che la vita gli ha inferto. 
 Sono certa che le mie parole non saranno inascoltate e che vorrà intervenire, anche economicamente, sia come cittadino che in veste di Ministro, per dare un sollievo a queste famiglie.
 
 
 Sen. Franca Rame

Argomento: 

INTERVENTO DI FRANCA RAME SUL DECRETO SICUREZZA

Una donna, Francesca Reggiani, è stata violentata e uccisa a Roma. L’omicida è sicuramente un uomo, forse un rumeno. 
Il giorno precedente, sempre a Roma, una donna rumena è stata  violentata e ridotta in fin di vita da un uomo.
Due vittime con pari dignità?
La stampa internazionale, a sèguito dell’emanazione del decreto SULLA SICUREZZA è uscita con titoli allarmistici:
Liberation: Rumeni cacciati dall’Italia: il decreto di espulsione adottato con urgenza, per calmare le polemiche dopo l’assassinio di Francesca Reggiani. 
Su L’Independent, foto con alcuni Rom cacciati da Roma e un grande titolo: “Espulsi! Banditi!”.  Stiamo entrando in una nuova era di intolleranza in Europa?  Financial times: l’Italia espelle i rumeni.
Le Monde: Romfobia.
Odio e sospetto alimentano giudizi assai facili:
Da stranieri a rumeni, da rumeni a rom, da rom a ladri, assassini o molestatori, il passo è breve.  
Omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi degli ultimi vent’anni, mentre sono in forte crescita i reati commessi in famiglia o per ragioni passionali.
il rapporto Eures-Ansa 2005, L'omicidio volontario in Italia e l’indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa;
sette volte su dieci la vittima è una donna;
più di un terzo delle donne dai 14 anni in su ha subito violenza nel corso della propria vita, e il responsabile, sette volte su dieci è il padre, il marito o il convivente: “la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto”. Come scrive Ida Dominijanni sul manifesto: “l’assassino ha spesso le chiavi di casa”.
L’adesione della Romania all’UE ha suscitato molte inquietudini in Europa occidentale, buona parte dei rumeni emigrati si sono trasferiti in Spagna e in Italia, sono arrivate 537.000 persone delle minoranze Rom, Tzigana e Sinti.
Secondo i leader della comunità rom, un milione e mezzo di persone sono emigrate per fuggire alla discriminazione subita in patria. Certo in Italia si trovano a vivere di espedienti che a volte finiscono per diventare azioni criminose, ed è dunque giusto che il Governo abbia per obiettivo la sicurezza della cittadinanza e per queste è doveroso porre rimedio con il totale rispetto delle norme vigenti.
Ma non dimentichiamo che la colpevolizzazione di un’etnia è stata storicamente il primo passo per giustificare un genocidio, e che  la sicurezza è garantita dalla cultura della legalità e dalla certezza del diritto e della pena, senza però negare accoglienza, solidarietà e tutela dei diritti umani.


Sabina Guzzanti scrive a Petruccioli

Cari Amici,

qualche giorno fa Claudio Petruccioli ha scritto a Sabina Guzzanti una lettera, in risposta alle sue dichiarazioni su Annozero, riguardanti l'editto bulgaro e il ruolo che allora rivestiva quale  presidente della vigilanza RAI.

Mi fa molto piacere pubblicare la risposta della mia bravissima amica Sabina.

 

 Caro Petruccioli,
 
innanzi tutto grazie per avermi scritto, perché dopo tutto quello che è successo questo è il primo segnale che arriva dalla Rai da quel 16 novembre 2003 in cui il mio programma è stato soppresso per ragioni politiche. E’ una strana coincidenza che questa sua lettera arrivi proprio il giorno in cui sono state pubblicate le intercettazioni telefoniche che confermano quello che già sapevamo e di cui si parlava in Raiot. Lo sa che avevo registrato anche una parodia della Bergamini sull’ingerenza di mediaset in rai che ho poi tagliato pensando che potesse essere esagerata? E’ proprio vero che la satira non riesce mai per quanto “cattiva” a rappresentare il livello di perversione di chi è al potere.
 
Per quanto riguarda le sue contestazioni al mio intervento da Santoro, capisco la sua frustrazione nell’essere annoverato tra i corresponsabili delle censure brutali che tutti noi abbiamo subito sotto Berlusconi, ma purtroppo lei era Presidente della vigilanza e qualche responsabilità purtroppo le tocca.
Lei attribuisce il fatto che io l’abbia inclusa nell’elenco dei complici di quelle censure a un inspiegabile fortissima antipatia che avrei nei suoi confronti. Perché dovrei odiarla infatti? Ci siamo mai frequentati? Mi ha mai rovesciato addosso del caffé bollente? E’ mai stato ospite a casa mia e fracassato il servizio di piatti di mia nonna? Mi è mai passato davanti alla fila della posta? Mi ha mai superato a sinistra facendo le corna? Non ci sono né questi, né altri motivi di antipatia possibili che io possa avere per lei. Ci siamo incontrati in una sola occasione: quando lei convocò me e Terenzio, il produttore del programma, per ascoltare le nostre ragioni a seguito della sospensione del programma Raiot. In quell’occasione lei disse che il programma non era di suo gradimento, ma che si trattava di una censura politica e che non avrebbe mai permesso che sotto la sua presidenza si consumasse un simile abuso. Piuttosto avrebbe dato le dimissioni. Poi l’abuso si è consumato e le dimissioni lei non le ha date. Né ha fatto nessun gesto adeguato alle circostanze come portare il caso ai presidenti delle Camere, come suggeriva ad esempio l’on. Giulietti. Ha fatto dei discorsi, sia per il mio caso che per quelli di Biagi, Santoro e gli altri. E questi discorsi me li ha mandati gentilmente insieme alla sua lettera. Ebbene io come tanti altri, non riteniamo che fare dei discorsi sia stato un gesto adeguato alle circostanze. Questo è il motivo del dissenso, non l’antipatia.
 
Lei dice che aveva le mani legate dal momento che è stato sottoscritto un accordo tra la produzione e Cattaneo. Ma l’accordo è stato firmato pochi giorni prima che il contratto scadesse e quando era ormai chiaro che nessuno avrebbe fatto nulla. Le proposte che arrivavano dalla Rai erano assolutamente inaccettabili e implicavano una sottomissione alla censura costante. Registrare, fare visionare, aspettare di sapere SE il mio lavoro poteva andare in onda. Lei questo lo sapeva. Sapeva pure che la produzione se non avesse firmato sarebbe risultata inadempiente nei confronti della Rai e oltre al danno subito avrebbe dovuto pagare probabilmente una penale. Sapeva pure che quell’accordo io non l’ho mai firmato e che quindi non c’era nessun consenso da parte mia a quella soluzione.
 
Quando poi è diventato Presidente della Rai ha forse voluto dare un segnale di cambiamento forte rispetto a quanto era accaduto? Si vanta del fatto che Biagi e Santoro siano tornati, ma Santoro è in tv solo e soltanto grazie alle sentenze dei tribunali e Biagi, che tutti sapevamo in fin di vita, è tornato alle 23.30 su Rai 3, perché non voleva avere a che fare con i suoi persecutori, tutti rimasti impuniti e contenti su Rai1. Luttazzi è sulla 7 e per quanto mi riguarda la lettera che mi ha scritto è l’unico segnale che abbia ricevuto dalla Rai da quattro anni a questa parte, nonostante il tribunale mi abbia dato ragione, nonostante lo scandalo condannato da tutto il mondo. Se come si evince dai suoi interventi in parlamento, lei è nemico della censura, come mai non sono tornata in tv?
 Domanda semplice, probabilmente demagogica, populista, volta a istigare il terrorismo e la violenza negli stadi, domanda antipolitica, qualunquista, prodotta da una mente manichea, che parla solo alla pancia della gente, allo scopo di convogliare lo scontento popolare che non riesce a esprimersi per mancanza di mezzi culturali, se non nel linciaggio pubblico di capri espiatori che vengono presi di mira a casaccio, a capriccio di quei due o tre capipopolo pericolosissimi che con le loro capacità istrioniche si sono conquistati la fiducia delle masse che poi masse non sono perché la maggioranza della gente se ne sta zitta a casa e sono loro quelli che stanno zitti i veri interlocutori della politica, quelli i cui interessi vanno difesi.
Come mai nessuno di quelli che hanno alzato la testa è tornato al suo posto? Nemmeno Daniela Tagliafico, per dire, che dopo avere dato le dimissioni non ha detto una parola, non ha partecipato a una manifestazione, come mai non è tornata al Tg1, ne sa qualcosa lei?
 
In un regime di democrazia non si fanno compromessi con la censura e se si fanno non sono di questa portata e se vengono scoperti si chiede scusa e si pone rimedio.
 
Io credo che lei tenga moltissimo a questo suo incarico che forse coincide con il sogno della sua vita. Un compito che la fa sentire utile e soddisfatto. Credo che lei percepisca le mie parole come parte di un complotto per sottrarle quello che da anni ha faticosamente costruito.
Magari si domanda chi mi manda, per conto di chi agisco.
Probabilmente pensa che fa questo lavoro meglio di quanto non l’abbiano fatto altri e pensa che anche questa idea che i politici debbano smettere di controllare la televisione venga tirata in ballo per fare fuori lei, che tra l’altro questa cosa la dice da tanto tempo. Che lei rischia d’essere uno dei pochi fessi che vengono tirati in ballo, ma che venderà cara la pelle.
Vede che mi so mettere nei suoi panni, che è uno sforzo che riesco a fare. Che ne direbbe di fare un passo successivo, in nome del dialogo e di quello che la politica dovrebbe essere? Non vede ad esempio che questi argomenti che mi sono permessa di attribuirle anche perché in parte sono proprio i suoi, sono gli argomenti di tutti quelli nella sua posizione? Che chiunque venga criticato, inquisito, colto in fallo, si difende in questo modo? Può essere anche una difesa che ha le sue ragioni, ma d’altra parte se nessuno può essere chiamato a rispondere delle sue azioni, come si esce da questo pantano?
 
Quelli come me che non hanno niente da perdere e hanno un po’ di potere sono pochi, pochi. Non credo che si debba sentire minacciato da mezza parola di verità in un mondo in cui la verità proprio non conta.
D’altra parte un posto come il suo è difficile da conservare comunque. Se per caso decidesse di operare nel rispetto dei principi che tutti a chiacchiere condividiamo, le do la mia parola che spenderei tutte le mie parole, per farle i complimenti e celebrarla in ogni occasione. Nessun pregiudizio nessuna antipatia, anzi come ho avuto modo di dire più volte a proposito della sua intervista in Viva Zapatero!, lei nel su genere, mi sembra un uomo molto buffo, anche se vedo bene che possa essere all’occorrenza sleale e cattivo.
 
 
Mi scrive che intende pubblicizzare la sua lettera, se non ha nulla in contrario la pubblicherei intanto sul mio blog.

Da domani all'asta un dipinto di Dario Fo per Amnesty

dal 14 novembre al 12 dicembre 2007 sul sito www.ebay.it (area beneficenza), avrà luogo la settima edizione di “Desideri all’asta” asta online di oggetti e situazioni particolari che il denaro normalmente non può comprare a favore della campagna “Mai più violenza sulle donne” di Amnesty International.Dal 28 novembre al 5 dicembre sarà in asta questo dipinto di Dario Fo.
 Per maggiori informazioni, visita questa pagina
 
L’obiettivo della settima edizione di “Desideri all’asta” è quello di sostenere laCampagna mondiale di Amnesty InternationalMai più violenza sulle donne”
La campagna affronta le diverse violazioni dei diritti delle donne: dalla violenza domestica alla tratta, dagli stupri durante i conflitti alle mutilazioni genitali. Questa campagna vuole porre fine a tutto questo, denunciando il fenomeno, portando solidarietà e aiuto alle persone che in tutto il mondo difendono i diritti delle donne e delle bambine, ottenendo giustizia su casi concreti di violazioni, promuovendo programmi di educazione ai diritti umani e lanciando iniziative di sensibilizzazione sui diritti delle donne.
Purtroppo in molti Paesi la discriminazione contro le donne comincia già dall’infanzia e si concretizza nell’ineguaglianza rispetto all’accesso all’istruzione. Quest’anno “Desideri all’asta” sarà legata proprio a questo tema e alla nuova iniziativa di Amnesty International, denominata “Safe school for girls!”, che ha come obiettivo quello di garantire a bambine e ragazze un ambiente sicuro e libero da discriminazione nel quale poter studiare e avere l’opportunità di costruire un futuro migliore.

università foggia convegno su comunicazione politica in internet

 
 
Negli anni 90 ero affascinata dal computer… guardavo con grande invidia i miei collaboratori che facevano, a mio avviso, cose miracolose. Quando dicevo loro:
“mi piacerebbe imparare a usare il computer” mi sentivo immancabilmente rispondere:“lascia perdere,non è roba per te.” Ma perché non è roba per me, pensavo, avvilita. So scrivere a macchina. E’ così difficile il computer? Forse sono troppo vecchia…e tiravo un gran sospiro. A natale del 94 mi trovavo da Jacopo, mi sono sfogata con lui sul “non è roba per te”. S’è fatto una gran risata: “non ti conoscono, mamma!”
-è un mio entusiasta estimatore-
Ecco, si fa così…” a poco a poco ho scoperto un sacco di cose. Da sola. Stavo sempre al computer, mi alzavo alle 6 e via che lavoravo.
Preparavo le nostre commedie per Einaudi. Battevo gli articoli di Dario, rispondevo alle e mail.
Ridevo felice dalla mattina alla sera. Ero come pazza! Avevo un Mac a cui ero molto grata. Tanto che quando l’accendevo, avevo registrato la mia voce che gli sussurrava “amore”… Dario mi prendeva in giro, ma sotto sotto, era molto orgoglioso di me, tanto da dedicarmi un monologo “amore al computer!” tutto da ridere che ho recitato più volte. Ricordo che durante l’estate venne ospite da noi Stefano Benni. Mi osservava con l’espressione di uno che non capisce perché stessi al computer per ore… “ma tu Stefano, non usi il computer?” “Sei pazza! Non lo userò mai. Sto bene con la mia lettera 21…” “Sei tu, pazzo. Non sai che ti perdi! Ad esempio, quando correggi o riscrivi un pezzo, con la tua lettera 21, l’originale se è perso. Col computer no: tagli, incolli, correggi senza perdere il primo scritto. Siedi che facciamo una prova.” Da quel giorno ha scoperto e usato sempre il computer. Così, Luca Goldoni, un amico giornalista del Corriere della sera.
1995.
Dopo questo primo approccio mi sono avvicinata a internet.  
“Entusiasta” è dire poco.
Chiedo a un amico professionista: “Cosa mi viene a costare mettere su internet mistero buffo, le varie stesura, foto, articoli, corrispondenza ecc. Fammi un preventivo”
“Ora i costi sono troppo alti, aspetta qualche anno, vedrai che scendono.” mi risponde.
1997
nel 97, all’alba dei 68 anni, decido di iniziare quella che si sarebbe dimostrata un’esperienza davvero interessantissima: tutto il mio archivio cartaceo deve andare su internet!
Ho assunto dodici collaboratori qualificati, ai quali ho illustrato il mio progetto. Mi ascoltavano interessati, ma quando ho mostrato loro le varie stanze con enormi armadi che contenevano la documentazione di tutta la nostra vita, circa 500 faldoni… mi guardavano allibiti e preoccupati “è pazza!”   certamente pensavano.
invece io, mi sentivo tranquilla, determinata. Ce la devo fare.  Ce la farò. ok. sapevo che non sarebbe stato uno scherzo. sin da giovanissima ho sempre conservato tutto… da sposata altrettanto. Archiviavo quello che   riguardava il nostro lavoro: manoscritti di Dario, le varie stesure delle opere teatrali, manifesti,volantini, fotografie, recensioni, corrispondenza. lotte operaie sostenute con l’incasso dei nostri spettacoli, oltre 1.000 Insomma, tutto ciò che via via si   produceva nella nostra vita, un mare di documenti… una pazzia! Ma con tutto scrupolosamente catalogato nel mio archivio cartaceo, il lavoro più importante era fatto. Ora bisognava prepararlo per il volo nel cielo del mondo. Digitalizzarlo. Coraggio!
Come ci si muoveva?
Sceglievo in ordine di data, tutto ciò che sarebbe finito sul sito. Con un database appositamente creato, abbiamo digitalizzati la miriade di documenti con gli scanner, e alla fine del 2001 abbiamo trasferire sulla rete i primi file.
Man mano che si inserivano i vari documenti, avevamo l’impressione di star costruendo una cattedrale con le navate, le spinte e le contro spinte delle arcate! Jacopo e sua moglie, la bellissima e creativa Eleonora mi hanno dato una mano.
Il progetto ha ricevuto molta attenzione al nostro gruppo di lavoro si sono aggiunti stagisti e tesisti italiani e stranieri, interessati alla costruzione del sito e alla sua evoluzione.
Ci sono voluti 5 anni per mettere tutto on line. Negli anni a seguire il sito e’ continuato a crescere, grazie ad una preziosissima amica collaboratrice   di quei primi tempi, Silvia Varale, che ogni giorno, fotografa, digitalizza, premi, nuovi testi, ecc. Le sono molto grata di aver creduto fosse possibile quella follia.
Se ne e’ occupata anche la stampa italiana e straniera, definendolo uno dei più grandi archivi gratuiti, disponibili in rete.
Dopo il sito, diventata senatrice ho aperto il blog. Un’esperienza fantastica!
La comunicazione dei media tradizionali è unidirezionale, mentre il blog dà la possibilità di interagìre: nei due anni trascorsi, attorno al blog francarame.it si è creato un nucleo di persone “attive”.
Non solo leggono i contenuti, ma commentano, postano le loro osservazioni, danno consigli, fanno denunce. La sera si collegano con skype, discutono sugli avvenimenti della giornata… e nasce l’amicizia.
In occasione di manifestazioni politiche importanti come quella di Vicenza, o più recentemente il 20 ottobre a Roma in appoggio ai precari, questo gruppo ha deciso, autonomamente, di parteciparvi, lasciando la “veste virtuale”. Quando me li sono trovati davanti la prima volta, mi sono emozionata, ho sentito l’amicizia… anzi la fratellanza.     
il fatto va evidenziato per mostrare la potenzialità di un “luogo virtuale” che diventa fonte di aggregazione come sarebbe stata un tempo un’associazione o una sede di un partito. il paragone non è privo di fondamento, credetemi. Pensate un po’ alle manifestazioni che riesce ad organizzare Beppe Grillo col suo blog.
In concomitanza di momenti politici tesi, ad esempio il rifinanziamento delle missioni all’estero, il blog è diventato un vero “termometro politico” per me.
Fin da ragazzi, Dario ed io, siamo sempre stati contro tutte le guerre. (vietnam) Quando mi sono trovata, da senatrice, a dover votare per il mantenimento delle missioni “DI PACE” ALL’ESTERO, ho vissuto momenti di grande sconforto e angoscia.
Mi venivano davanti agli occhi le migliaia di ragazzi, che salvo eccezioni, non si arruolavano per sete di avventura ma in quanto, “il militare” rappresentava un lavoro che permetteva loro di metter su casa e famiglia… e subito il mio pensiero veniva squassato dalle migliai di soldati americani morti in Iraq e Afghanistan, alle stragi di cittadini innocenti.
Giorno e notte la domanda era la stessa: voto si o voto no? Mi astengo? Accordo o meno la fiducia a un governo così distante dalle mie scelte politiche? Con quali conseguenze? Mi dimetto? Ho quindi deciso di porre queste stesse domande sul blog, con un vero e proprio sondaggio.
Dopo un mese di consultazioni, oltre 3000 blogger mi chiedevano di restare: “Che sogno stai facendo? Ti abbiamo mandato noi in senato. Cosa vuoi, far cadere il governo?”.
Solo un centinaio mi incitavano ad andarmene. Si è trattato di un momento di vera partecipazione… fantastico!
Durante la finanziaria, l’indulto, nel 2006 ho notato l’aumento del numero di presenze e commenti, anche di chiaro dissenso con insulti anche pesanti, minacce palesemente proveniente da destra, tanto da dover fare più di una denuncia alla magistratura.
il mio blog, credo come quello di molti altri, è diventato ricettore delle molte perplessità e dubbi dei cittadini, nei confronti di questo governo.
Anche recentemente, nei dieci giorni di discussione della finanziaria, le visite e i commenti sono aumentati: chi in sostegno delle mie scelte, chi criticandole. Ho risposto, nel limite del possibile a tutti perché ho ritenuto fondamentale, sia per rendere conto del mio operato in una fase così delicata, sia per fornire un’immagine di quanto accade dentro l’aula, anche pubblicando porzioni di resoconti stenografici, cioè insistendo su quanto sfugge ai media tradizionali.
Mi affascina la comunicazione diretta: il blog è un nuovo straordinario spazio di contatto. Quante volte tornando a casa la sera, non sempre felice, mi siedo al computer e parlo con i miei amici. mi si alza il morale. Mi sento intorno una grande famiglia.
E’ anche accaduto che le segnalazioni fatte da cittadini diventassero atti di sindacato ispettivo, come nel caso di Taranto e le grandi quantità di diossina immesse dall’ilva, tanto da causare in molti bambini la sindrome del fumatore incallito. O ancora il caso di giuseppe, un bimbo di Firenze ingiustamente allontanato dalla famiglia.
La gente legge, commenta, copia e incolla e fa circolare idee, i dubbi, le storie belle e le situazioni tragiche.
In una societa’ tendente alla disinformazione e al vuoto di conoscenza, il computer e’ davvero una macchina insostituibile di pronto soccorso.
il mio blog non contiene solo l’attività politica, ma raccoglie anche mie riflessioni più personali, stati d’animo, il diario del mio primo anno in senato… (tra poco arriverà anche il secondo).
La campagna in difesa delle vittime dell’uranio impoverito. Abbiamo anche aperto una sottoscrizionee aiutato molte famiglie in difficoltà, completamente abbandonate dallo stato. Articoli di giornale che segnalo o riporto integralmente, articoli e brani teatrali di Dario e miei, lettere ricevute, appelli… sprattutto c’è spazio per i temi politici degli altri!
Qual è la necessità che mi spinge quotidianamente a relazionarmi con i bloggers?
Il desiderio di trasparenza, nei confronti degli elettori che mi hanno chiamata a rappresentarli. In questo senso, il blog è una finestra aperta per l’esercizio del controllo democratico, che i media convenzionali non ti consentono.
Non avendo io un partito di riferimento, né un ufficio di collegio in Piemonte, tenere le orecchie tese non è sufficiente per cogliere le molte osservazioni, proposte, ecc. quindi mi servo del blog.
   il blog che sto gestendo è senz’altro “artigianale” nella forma: non è stato affidato ad esperti di comunicazione per renderlo più appetibile.
   Al contrario, direi che è un po’ ostico nella ricerca dei contenuti! Questo produce una sorta di selezione: gli utenti che resistono al disordine e che sono disposti a più di due click per raggiungere un contenuto, rimangono affezionati e fedeli più a lungo!
il computer è la più grande invenzione degli ultimi secoli che ha capovolto completamente il concetto di comunicazione e il modo di inquadrare la memoria.
Anzi è una memoria aggiunta al nostro cervello, oggi indispensabile, come una specie di protesi.
Il computer, come tutte le grandi invenzioni va usato con cosciente controllo, altrimenti succede come a quei ragazzini che si perdono in una strana estasi paradossale dentro la macchina… che di fatto diventa la loro padrona… meglio, la padrona del loro cervello e della loro volontà.

 
amore al computer
di Dario fo
 
sto delle ore davanti al computer, mi distendo, mi diverto da morire, ci parlo, ci litigo. sono arrivato a prenderlo a male parole... perfino a calci. anche perché ogni tanto mi fa degli scherzi, mi ritrovo registrate frasi, parole che non ho affatto scritto...
e' autonomo, prepotente e bugiardo... non ammette mai di aver barato, manomesso.
ed é pure permaloso... se non mi rivolgo a lui con sufficiente cortesia, se brutalmente gli ordino di correggermi certe parole o di indicarmi l'espressione corretta... spesso mi riferisce varianti appositamente sbagliate... inesistenti!
Dario mi sfotte: "sei una fanatica! con quell'aggeggio vai via di testa. ho il sospetto che col computer tu ci faccia anche l'amore.
in verità il fanatico fissato, credo sia lui... lo odia. sì, odia il mio computer, é geloso. già ha sempre avuto una specie di idiosincrasia per tutto quello che é meccanico, figurati per l'elettronica.
temo che me lo voglia rompere. ad ogni buon conto ho nascosto tutti i martelli, il pestacotolette e anche la mezzaluna.
spaccarmi il mio computer... assassino
accende il computer.
ma cosa ti ha fatto di male. creatura indifesa. e' così simpatico, (schiaccia alcuni tasti) generoso, disponibile. d'accordo, ha qualche difetto, ma nessuno é perfetto!
ecco per esempio, adesso non mi vuol passere gli appunti di ieri. eh, non fare scherzi, il codice é giusto, la data é esatta... cosa mi dici "inesistente" dai i numeri? ripeto: appunti su sequenza dialogo immaginativo con mia madre...
madre - inesistente - "no mater!" - non c'é la madre? non ho avuto madre io? ma tu non l'hai mai avuta? figlio di una calcolatrice automatica e d'un frigo! dai, non farmi scherzi, tirala fuori, dove hai nascosto mia madre?
e' uscita? 
spiritoso... dai sbrigati
voglio le coccole?
cos'é questo? che capitolo é... non l'ho mai scritto. non é roba mia.
e' tua? ma come ti permetti di inserire i tuoi discorsi... di programmare... come? ripeti? sei tu che vuoi le coccole? da chi? da me?
a questa é bella! e va bene eccoti una carezza... vuoi anche un gemito? batte ripetutamente su un tasto "aaahhh!" ti fa solletico? (squittisce) basta! d'accordo. adesso torniamo seri. dammi mia madre. "amore?" comincia così il pezzo? no? sei tu che dici "amore"?
ehi dico, vacci piano... non ti pare di esagerare. "vuoi fare l'amore? e con chi? con me? (batte di continuo sulla tastiera)
no ti prego adesso basta. non é che sto andando fuori di testa?
avanti ritorna a fare la macchina giudiziosa e corretta (ribatte perentoria).
eh no eh? ora stai andando sul pesante. ma come ti permetti, guarda che chiamo mio marito. (ad alta voce) aiuto! per favore non c'é nessuno! il computer mi fa delle avances... ah, adesso chiedi scusa..!!
giura che non lo fai più! promesso? cosa? lo rifai? ma sei d'uno sfacciato. chi ti ha programmato a te. un ingegnere sozzone? sì, ti sei fatto da solo! buona questa.
ad ogni modo a 'sto punto piantala se no ti spengo... stacco la spina. (squittii e gemiti). ma no scherzavo... guarda che schermo pallido ti é venuto.
d'accordo... ti lascio acceso... facciamo la pace. (suoni strani).
a questa poi, ma sono una signora. sì, d'accordo mi sei simpatico... diciamo che ho anche dell'affetto per te... ma arrivare al punto... ma cosa vuol dire ti amo? amo un computer? ma cerca di ragionare... no! ho detto!! su certi discorsi non ci sto. ma che razza di dischetto hai dentro...
penetrare? vuoi... penetrare chi? me?! eh no! adesso ti spengo davvero... (schiaccia il tasto) non si spegne? che succede? guarda strappo la spina... (ha una reazione tra il tragico e il grottesco. un tremore). dio! che c'é? la scossa? mi vuoi fulminare. ehi, chiamalo fremito passionale. ma tu sei fuori di testa. no, eh, (batte i tasti lentamente con scatti improvvisi) ti prego... ma che figura mi fai fare? se entra qualcuno... e ci sente e ci vede dialogare in questo modo... a me mi portano al neurodeliri... a te ti sfasciano... anzi con i tempi che corrono... ci mettono tutti e due su una catasta di legno e la pivetti ci da fuoco.
ehi, cosa mi succede alle dita? accidenti son come incollata ai tasti...
lasciami andare le dita o ti prendo a calci! sì, il fluido! "tel chi il fluido!" oddio! no! ma che fai... é proprio un fluido... basta... smettila o grido. aiuto!! 'sto bastardo... mi sta facendo... si sta approfittando... no! ho detto non mi va... ti prego... fino adesso si stava scherzando... ma...
ehi! dico?! cos'é 'sto senso di umido al collo? mi baci?! sul collo?!
sì; sì, non dico é piacevole. ma come é possibile. oddio sto impazzendo! sii ragionevole... ma sono una signora sposata... per bene... non ho l'età per certe cose... se pure con un computer...
oh, santa madonna cosa mi succede?! no é! non permetterti... giù i relée!! i clips!! i micro-system!
sì, sì... è bellissimo.. no, no non andartene.. mamma! (che c'entra la mamma?) e' troppo! santo cielo... se arriva qualcuno finisco davvere davanti al tribunale di comunione e liberazione...
e' impossibile... ma che programma ci han messo dentro?! che soft... splendido!
oh, sì... e' troppo... troppo poco! ancora! ah!! dio che sballo ma che hardware é?
aihuaioa... lasciami! lasciami andare!
ohah... (prende un gran respiro, libera le dita dalla tastiera, si porta le mani al viso) ma cosa é successo? canaglia! adesso chissà cosa penserai di me!
 


LIBERAZIONE: Emergenza-crimini? È un imbroglio, lo dice il Viminale

 Piero Sansonetti (Liberazione, 3 novembre 2007)
 
   E' la stessa politica che utilizzarono i nazisti per dare il via alle persecuzioni e al genocidio: falsificare i dati, creare allarme, identificare nemici pubblici, paventare crimini, chiamare la "nazione" a raccolta, capovolgere i termini del problema, trasformando l'emergenza-povertà in emergenza-crimine. Lo dimostrano i dati del Viminale. 
    
Ecco i dati ufficiali: dimostrano che è una campagna basata sulla menzogna e la xenofobia. Li ha resi noti il quotidiano “Liberazione”, unico giornale a pubblicarli. Di seguito riprendiamo la nota di Piero Sansonetti e le due tabelle a cura del Ministero dell’interno, dalle quali si ricava che in Italia dal 1993 ad oggi gli omicidi, i furti e le rapine si sono dimezzati. Secondo il Viminale, «Per trovare un tasso di omicidi pari a quello del 2005-2006 dovremmo tornare indietro almeno fino all’inizio degli anni Settanta. Siamo cioè ai livelli più bassi degli ultimi trent’anni». Sono in netto aumento i delitti nelle famiglie: «Le violenze fisiche sono state commesse dal partner nel 62,4 per cento dei casi. Le violenze sessuali nel 68, 3 per cento. Gli stupri nel 69,7 per cento. 1.400.000 donne hanno subito violenza prima dei 16 anni» (dal “Rapporto sulla criminalità” del Ministero dell’interno). I dati su Pavia confermano quelli nazionali. Qualcuno ha associato ai migranti l’inesistente recrudescenza della criminalità. Nessuno ci dirà perché.

E' la stessa politica che utilizzarono i nazisti per dare il via alle persecuzioni e al genocidio: falsificare i dati, creare allarme, identificare nemici pubblici, paventare crimini, chiamare la "nazione" a raccolta, capovolgere i termini del problema, trasformando l'emergenza-povertà in emergenza-crimine.

Volete sapere in che cosa consiste, esattamente, l' escalation criminalità denunciata in questi giorni, in modo appassionato e drammatico, dalle autorità politiche, dai leader del partito democratico, da Veltroni, da quasi tutti i giornali? Ve lo diciamo noi con tre dati, che ci sono stati forniti in forma ufficiale dal ministero dell'Interno. Primo dato : numero di omicidi nel corso del 2006 in Italia: 621. Nel 1993 erano 1.065. Praticamente dimezzati. Secondo dato : furti in appartamento nel corso del 2006 in Italia: 445 (ogni 100.000 abitanti). Nel 1993 erano 634, dunque sono diminuiti, più o meno, del 40-45 per cento. Terzo dato : scippi. Nel 1993 erano, in Italia, 200 (ogni 100.000 abitanti). Nel 2006 sono crollati a 80, molto più che dimezzati. Voi sapete che omicidi, furti in casa e scippi sono i reati che più di tutti gli altri (insieme agli stupri e alla violenza sulle donne) creano allarme sociale. Per quel che riguarda omicidi, furti e scippi l'allarme è impossibile. La fabbrica criminale, su quel terreno, è in crisi nera, rischia il fallimento. Le cifre che vi abbiamo dato, se paragonate a quelle di altri paesi europei e soprattutto a quelle degli Stati Uniti, sono assolutamente irrisorie.
Prima di esaminare la questione della violenza sessuale, analizziamo un momento ancora il problema omicidi, che comunque è di gran lunga il più grande, e quello che recentemente ha ispirato al governo le leggi speciali xenofobe (che sospendono, speriamo momentaneamente, lo stato di diritto). Effettivamente gli omicidi, che dal 1993 al 2005 erano calati costantemente, di anno in anno, in modo regolare, scendendo da 1065 a 601, nel corso del 2006 sono leggermente aumentati arrivando a 621. Una oscillazione di 21 unità forse è statisticamente irrilevante. È interessante però vedere da cosa è determinata: non dagli omicidi per furto-rapina- aggressione, che restano, in tutto l'anno, 53 (come nel 2005). Non dagli omicidi per rissa, che scendono da 77 a 69. Neppure dalla criminalità organizzata che nel 2005 aveva ucciso 139 volte e nel 2006 solo 121 volte. E da cosa allora? Dagli omicidi in famiglia (soprattutto quelli dei mariti a danno delle mogli o amanti o fidanzate) che salgono da 157 a 192, cioè aumentano di 35 unità, pari a circa il 20 per cento.
È ancora più interessante misurare il calo degli omicidi dal 1993 al 2006 dividendoli categoria per categoria. Gli omicidi di mafia e camorra diminuiscono, ma non molto: da 158 a 121. Gli omicidi per furto o rapina si dimezzano: da 102 a 53. E così si dimezzano quelli per rissa: da 140 a 69. Ridotti moltissimo anche gli omicidi imprecisati (il ministero li definisce per “altri motivi”) che erano 559 e sono scesi a 186. Quelli che invece nel 1993 erano in fondo alla classifica, e cioè gli omicidi in famiglia (erano appena 102), sono raddoppiati, e oggi, con la cifra di 192, sono di gran lunga al primo posto tra i vari tipi di omicidio.
Tra i reati violenti, oltre all'omicidio in famiglia, l'unico ad impennarsi è la violenza sulle donne. Che raggiunge vette davvero impressionanti. Nel 2006, un milione e 150 mila donne hanno subito violenza. Chi sono gli autori di questi reati? Scrive il rapporto del ministero: «Le violenze fisiche sono state commesse dal partner nel 62,4 per cento dei casi, le violenze sessuali nel 68,3 per cento dei casi, gli stupri nel 69,7 per cento dei casi».
Capite bene che in qualunque modo si vogliano leggere queste cifre, se parliamo di reati che creano allarme sociale - cioè quelli che riguardano la politica - non c'è nessuna possibilità di sfuggire alla realtà: l'emergenza immigrati, o la presunta emergenza romena, sono - dal punto di vista statistico - assolutamente inesistenti di fronte all'unica vera emergenza che è quella che riguarda la violenza in famiglia. Il governo dovrebbe affrontare questo problema. Forse Veltroni potrebbe pensare a nominare dei "poliziotti di famiglia" che vigilino su mariti e fidanzati assassini. Oppure decidere l'espulsione di massa (verso la Romania) degli elementi maschili di tutte le coppie.


Mordi e fuggi - la tarantola a cura di Mimmo Grasso

Mimmo Grasso propone di tenere una rubrica periodica dedicata alle attività ed eventi culturali, aperta al contributo di tutti i lettori. I testi potrebbero essere inviati via e-mail a [email protected].  Per le recensioni di libri, occorre che l’autore o l’editore inviino una copia del volume a Mimmo Grasso, via Scialoia 23, 80070 Monte di Procida – Napoli.
 
Iniziamo con la recensione di un bella antologia di racconti di autori giovani ,noti e non, curata da una casa editrice del sud,  Piero Manni. Il tema , il morso della  tarantola e le   antiche tecniche di “guarigione”,   ci riguarda da vicino se pensiamo che, in fondo, il nostro “corpus” sociale e politico è da anni fortemente agitato e non riesce a rimodularsi in nuovi orizzonti di vissuto,  a trovare un antidoto o un rimedio per il malessere proprio e per quello della gente.
 
 
L’ancestre “tarantola” è ricostruibile riannodando le percezioni fondamentali dell’universo simbolico umano e dunque comportamentale. 10.000 anni di storia documentata sono una cosa molto modesta ( appena 100 persone di 100 anni) e  posso dunque  sostenere  che le mie modalità connettive non sono diverse da quelle del mio antenato del neolitico. Per ricostruire dunque i percorsi significanti di “tarantola” basta mettersi di fronte a questo  segno e seguire il flusso che la visione genera facendo salire a galla nel liquido oculare immagini e in quello salivare parole che “tarantola”  evoca dal labirinto cognitivo ed esperienziale. Si tratta di  immagini  e parole che trovano  riscontro nel nostro modo di pensare e parlare (quante volte, ad esempio, paragoniamo le persone ad animali?)  oltre che  nel corredo simbolico ad esse sottostanti,  analizzato con vari approcci. Se faccio allora  la carta mentale di “ragno”, osservo che (e la priorità delle definizioni è un ottimo indicatore di gerarchie di senso):
 
 
somiglia all’organo genitale femminile
dunque il ragno è elemento femminile.
 
irretisce la propria preda e la divora tenendola il più a lungo possibile in vita perché il sangue sia sempre fresco fino allo svuotamento e alla  carcassa.
dunque il sesso femminile irretisce il maschio, lo divora e ne succhia il sangue.
 
ha dimora nel sottosuolo
dunque la femmina è il sottosuolo, il suo organo  genitale è la “tana
 
costruisce tele ottagonali perfette e l’insetto che vi rimane imprigionato non riesce a uscirne
dunque la tarantola è accampata al centro del labirinto (labor-intus)
 
costruisce la tela come prodotto del proprio corpo
dunque la trappola  è qualcosa che viene dall’interno
 
inietta veleno
dunque il contatto con la femmina è velenoso
 
Si può continuare con altri sillogismi. Inserire  un “come” nelle deduzioni, che sono un fatto puramente formale e non danno mai nuove informazioni,  è un’operazione già molto evoluta rispetto alla  semplice deduzione. Ma la mia carta mentale mi dice che il sesso femminile nasconde  un terrore arcaico. Terrore da “terra”. Questo terrore riguarda la dinamica vita-morte. Il sesso femminile è individuato come matrice di vita e di morte, come causa del “perdersi”. L’apposizione di un simbolo labirintico sul sesso delle statuette di Cnosso documenta le mie “spontanee” analogie
 
La breve catena di significati lineari (miei ma condivisibili, riconoscibili) si ripete  nell’universo percettivo femminile. Infatti, chi è posseduto da tarantismo non viene punto solo da un ragno ma anche da una formica o da un serpente (lo “scorzone”),  simbolo maschile.
 
Siamo, dunque, in presenza di un’elaborazione culturale identica sia al maschile che al femminile e che riguarda la trasformazione, il passaggio da uno stato all’altro mediante rituali agitatori, sibillini.
 
L’essere (animale)  che morde ha sempre punte (chele, pungiglione, denti, zanne, ecc.) ed è appena il caso di ricordare, qui, che la forza erotica è rappresentata da un essere che dardeggia con frecce appuntite.
 
Il “ragno” ( da ARK-Ys, rete, a sua volta derivato da ARK, ” o da Hurna-Nabas, sanscrito, “lana nell’ombelico”, “che ha il filo nello stomaco”) ,  costruisce una tela “labirintica” o si muove appeso al filo della propria saliva. Da ARK trae origine anche  “archetipo”. Non sarà dunque inutile vedere come in questo libro si tessono i fili di questo importante “tipo”.
 
Quello che sto esponendo è una procedura, logica quanto alle modalità di connessione dei dati, e analogica quanto ai dati che vengono connessi. Vale a dire che occorre distinguere tra la congerie di cose  che vengono collegate ( perfettamente sostituibili con altre, omologhe o semanticamente ed esperienzialmente affini – e questo è terreno d’analogia) e le modalità del loro collegamento
(che è spazio della logica)  riconducibili a un'unica tecnica d’assemblaggio, la stessa che presiede  le forme d’arte e il  metodo scientifico. In tal senso ogni processo, soddisfatto il postulato di contiguità semantica tra i dati da assemblare, è sempre  coerente perché i dati sono in un rapporto di equivalenza e di simultaneità temporale e vengono ispezionati  e “processati” tutti insieme, senza gerarchia, sì che potremmo fare il percorso inverso (dall’analogia alla logica) senza che risulti alterato il “significato dei significati”, il metasignificato.
 
Il fatto, tuttavia, che il sistema simbolico si dimostri, alla mia indagine, come coerente, non significa che esso sia anche vero e reale. Anzi, non v’è alcuna relazione concreta tra i dati a meno che non cominci a ragionare per classi e “tipi logici”, il che non mi lascia esente da altri problemi.
 
Quando vogliamo comprendere qualcosa, procediamo a paragonare questo qualcosa con altre cose. E’ un procedimento alquanto bizzarro e che consiste nello spiegare una cosa con una cosa che le somiglia. Solo matematica e logica formale fanno se stesse oggetto di analisi e conoscenza attraverso se stesse, il che ha consentito a qualcuno di avere intuizioni importanti in ordine anche all’essere di dio - contraddicendosi, comunque, formalmente col  mettere sullo steso piano “essere” e “dio”, e cioè parametrando anche in questo caso una cosa con un’altra, analogicamente. Per tutte le  attività di conoscenza siamo abituati a paragonare i processi naturali con quelli della mente, il che pone l’altro famoso problema di physis (natura) e nomos (legge, legamenti) : la mia mente, cioè, rispecchia i processi della natura o ne è indipendente?
 
La sequela di deduzioni in ordine a “ragno” è abbastanza pedissequo e fa riferimento a “loci” della natura. L ’ho fatto forse  apposta trattandosi qui di  parlare di un libro scritto coi piedi: quelli della danza, il piede metrico. Questa sequela, altresì, obbedisce a una forza armonica d’attrazione, vale a dire il collegare cose molto lontane tra loro. Forma armonica d’attrazione e distanza delle cose da connettere sono direttamente proporzionali, vale a dire: maggiore è la distanza tra le cose da connettere, più intensa è la forza armonica d’attrazione, che possiamo individuare con il saper sentire ovvero, nel nostro caso, con la grande energia che trabocca dalla trance dei tarantati sulla base delle connessioni tra simboli, derivanti a loro volta da condizioni di vita e rapporti di socializzazione abissali. Il “saper sentire” , a sua volta, introdurrebbe la questione dei “memi”, il comportamento memetico. Il “meme” funziona come il gene e si riferisce alla trasmissione di informazioni genetiche insieme con  comportamenti culturali identificabili con un “modo di pensare”. La “taranta”, in quanto comportamento, rito trasmesso alla comunità e mito, ha tutte le caratteristiche che contraddistinguono un “meme” e lo è soprattutto per la sua appartenenza all’universo simbolico prodotto in noi dalla natura. Anche la memetica trae origine dall’osservazione di fatti naturali, come se gli atomi di Democrito piovessero su ogni generazione di umani con lo stesso angolo d’urto,  come se il prodotto dei clinamina fosse identico per tutte le società.
I sottoinsiemi di “tarantola” : la danza, la musica, i colori, la socializzazione, la possessione (che prevede l’ingresso di un ente in un altro ed  è anche il “possedere” dell’atto erotico)  traggono spunto da altri collegamenti coerenti con il mondo fisico: la danza, pertanto, ripeterà il moto circolare della ragnatela e il labirinto dei pianeti. La musica, che ha molte valenze astrali (“astrazione”) sarà di tipo compulsivo e affidata a strumenti-simbolo: le corde d’argento del violino  rinviano al filo della ragnatela; il tamburo imita il battere del piede che a sua volta ripete il ritmo vitale del cuore; la fisarmonica ripete il respiro, lo pneuma. Dunque i tre strumenti rappresentano la voce (il grido del violino), il movimento (il piede pirrico), il respiro (fisarmonica, i polmoni), vale a dire gli organi che immediatamente entrano in gioco neuromotorio, e che manifestano maggiormente col loro agitarsi la presenza del “dio”. Non è per caso, allora, che in un racconto di Cilento, di cui parleremo più avanti, gli organi di senso e di moto che entrano subito in gioco per un gioco del nervo vago, siano proprio , e proprio in questo ordine, il piede, il respiro, la voce, elementi, altresì, tenuti in alta considerazione dalla biodanza contemporanea.
Ma entriamo nel merito di Mordi e fuggi.
E’ un  libro di una muta , i narratori, che eseguono   una danza circolare. La scrittura qui sostituisce gli strumenti della pizzica.; ha , cioè, la stessa funzione “incantatoria-liberatoria- esorcistica” . Ma il tarantismo appartiene all’ oralità mentre la scrittura è la tecnologia analitica del pensare. Gli scrittori hanno dunque portato a sintesi due apparati cognitivi (oralità-scrittura)  il che è già un’operazione tarantica. I racconti seguono, ognuno con il proprio stile, storie e storie di storie. L’oralità si nasconde nei  simboli sottostanti i personaggi ed è evidente nei loro allegati percettivi. Ripetono (né potrebbe essere altrimenti)  la sequela analogica prima descritta a proposito di “ragno”. Le motivazioni degli scrittori che si sono riuniti per i loro riti in questa antologia, sono certamente identiche a quelle delle tarantate. La scrittura (intesa ora come “azione”) è la risposta a un insieme di stimoli (e lo stimulus è un attrezzo appuntito, morde) generati dalla dissonanza che produce la scrittura come momento di ricognizione per riportare in coerenza il proprio sistema.
Senonchè in questi autori   il veleno viene “rimediato”  col più potente dei veleni (il silenzio della pagina, che morde e fugge generando uno strano rapporto salvatore-vittima.carnefice dell’autore col proprio prodotto salivare, la scrittura).  Queste sono storie di interstizi che vengono esplorati con la speranza di vedere veramente la tarantola, vale a dire di recuperare unità di visione-azione-comportamento, anche se in delirio. E’ facile vedere i personaggi di tutti i racconti formare un’unica  paranza danzante, scambiarsi i ruoli e il numero di pagina, trasmigrare, spiarsi. Si comportano, cioè, come la catena polimerica del simbolo., praticano una metamorfosi. Dopo il “morso”, fuggono nelle storie degli altri. La metamorfosi  è così  riuscita. Infatti, leggendo, con l’antidoto sulla scrivania, i sedici racconti ( non ho ancora capito perché 16 e non 12 o 24: ma faccio notare che 16 è la somma degli occhi e delle zampe del ragno e che la tela è un ottagono, a parte il “sedici” che è, qabbalisticamente, il doppio di otto) sono omogenei perché narrano appunto fatti interstiziali, non plateali, chiedono al lettore di andare a trovare la sua straordinaria taranta  in fatti ordinari, quotidiani perché, come si sa, “la normalità è uno stato di emergenza”.
Ogni racconto ha il suo totem: uno scorzone, uno scorpione, una farfalla,uno scarafaggio... Questi totem non si sono dati la voce, vale a dire che gli autori non si sono riuniti preventivamente in redazione per elaborare un progetto comune con indicatori simili.  La similarità dei racconti li rende ancora più interessanti dimostrando un analogo (e storico) “saper sentire”, un identico approccio sulle cui cause non indaghiamo, per ora, qui dove invece su tre racconti esemplari (ma sono tutti bellissimi) ai fini della verifica degli assunti precedentemente dichiarati.
 
 
Portavo una testa di morto
(Carlo  Lucarelli)
 
La storia è questa: siamo sul finire della seconda guerra mondiale, nel Salento. Il narratore è un soldato che ricorda un orribile episodio, in “preda al rimorso” .Un gruppo di miliziani delle SS , tra cui un mongolo, si ferma a un casolare e, dopo aver saccheggiato , imbottiti di vino, costringono la famiglia che l’abitava a suonare Si intona una pizzica che il  soldato, componente della squadraccia,   riconosce. Esige che una ragazza, giovanissima, danzi. Alla fine della danza il mongolo sgozza la fanciulla. La casa viene bruciata. Il narratore portava sul cappello di SS l’emblema di un teschio.
 
Questo racconto è il più breve della raccolta ma anche il più lungo. E’ breve in ordine alla sinteticità e asetticità dei fatti narrati; è lungo in ordine alle cose implicite.
Lo spazio dove si svolge il racconto   è una terra i cui abitanti hanno radici culturali greche. Il tempo degli avvenimenti è quello della  seconda guerra mondiale. Le SS bevono molto vino dopo essersi sedute sotto un albero di ulivo. Si prepara in questo modo la scena del delitto. Dal punto di vista simbolico, l’inserimento della catena grecità-guerra (intesa come orgia di distruzione)-vino-ulivo  prepara,invece , la scena del sacrificio. Quasi di soppiatto appaiono anche altri elementi rituali: il pane, il coltello che il mongolo usava per scannare gli agnelli. Va annotato che il mongolo è l’unico del gruppo a non avere sul berretto il fregio di un teschio ed è l’ uomo che materialmente compie il delitto-sacrificio. Va altresì evidenziato che il soldato che ricorda  è una persona molto colta: già era stato nel Salento anni prima per approfondire studi di storia dell’arte. Dunque, quello che accadrà appartiene a una dimensione al di là della cultura, ancestrale, da periodo paleolitico, quando gli uomini avevano i tratti somatici mongoli, quando a Delfi si sacrificavano persone poi sostituite, come nel dionisismo, da una persona con malformazioni (il fàrmakon) e, dopo ancora,  da un animale. Non è, ovviamente, che si sia proceduto a sostituire la persona normale con quella deforme e poi con l’animale per motivi pietistici o etici. Il processo è avvenuto perché ci si è resi conto, sulla base di nuove analogie, che il modo più coerente di sacrificio a deità terribili era quello dell’animale a sua volta rappresentativo dell’ antenato teriomorfo.
Le relazioni coltello-per-gli-agnelli e  sgozzare-la-fanciulla-come-un agnello, il vino, la musica, sono precisamente gli ingredienti del rito arcaico.
Mi sono chiesto a lungo perché Lucarelli avesse inserito un mongolo nel suo racconto e perché questo mongolo uccide materialmente la fanciulla. Ho pensato, ovviamente, al mongolo come a qualcosa di lontano, abissale sia geograficamente che inconsciamente. Ma questo non spiega il perché sia proprio lui il boia. Ho supposto che l’uccisione, lo sporcarsi le mani sia stato delegato a un essere ritenuto inferiore dal nazismo. Ma neanche regge se penso a quello che hanno fatto i nazisti. L’unico a non portare sul berretto il teschio –mi sono detto- è lui  perché è sufficiente, per rappresentare la morte, la sua testa (l’iconografia ci presenta i mongoli calvi,ossuti) ma anche questa ipotesi mi sembrava debole.  La soluzione me l’ha fatta vedere Antonio Vitolo parlando dell’etimo di “tarantola”, che deriva da Taras, fondatore di Taranto e che “taras” significa  “sconosciuto”.  Da qui a Taras Bul ba di Gogol’ il passo è molto breve. Sarei comunque molto interessato a sapere dalla testimonianza diretta di Lucarelli la funzione di questo mongolo nel suo racconto.
La fanciulla è terrorizzata dal fregio sulla bustina del militare. Anche gli altri tre tedeschi lo portano ma è di quello del narratore che la fanciulla ha terrore   perché è stato il primo che ha visto quando i soldati hanno fatto irruzione nella casa dove dormiva ( portando fiaccole come nei riti arcaici). Si tratta, anche qui, di un’apparizione infernale e demoniaca, come se la ragazza avesse visto materializzarsi l’incubo delle proprie origini, dei racconti intorno al fuoco, come se la tarantola avesse assunto sembianze umane, confermando clamorosamente le dicerie sottovoce delle anziane del paese.
 
 
 
E’ chiaro che la fanciulla che danza è Proserpina e il soldato è Ade.
Lucarelli propone, dunque, una storia narrata come un resoconto di cronaca e lo stile molto distaccato del narratore finisce per essere inquietante.
La vittima sembra consapevole di partecipare a un rito forse anche atteso. Dimentica, nel ricordo del narratore, la situazione, la musica, la sua uccisione e, per questo, sopravvive. O, davanti alla visione della morte, sa che per cacciarla via occorre danzare, eseguire l’esorcismo musicale e coreutico, ed è forse sicura che ciò che vede non esiste, che è in uno stato di sonno, che si risveglierà come si risveglia la terra.
Lucarelli non ci dice se dopo la morte della fanciulla la terra abbia continuato a produrre frutti.
Da dove traiamo questi elementi di lettura? Non è che ci stiamo inventando tutto? Il soldato “porta” una testa di morte. Che si tratti di un’icona cucita sul berretto lo apprendiamo durante la narrazione. Astutamente, Lucarelli , scegliendo questo titolo, ci dà a intendere, all’inizio, che c’è qualcuno che cammina con una testa di morto sotto il braccio, una specie di Amleto. Durante la narrazione l’ambiguità del titolo viene svelata e, paradossalmente, ci accorgiamo che veramente il soldato porta una testa di morto. Solo che ce l’ha sul  collo ed è la sua, quella di migliaia di anni fa, perché
nell’evento salentino rimosso per decenni e ora riemerso si catapultano tutte insieme le dinamiche di attrazione-repulsione per il sangue che provava la muta di cacciatori poi diventati soldati.
 “Testa di morto” è anche il nome di una farfalla ( è lui l’insetto del racconto) e si sa che la farfalla rinvia alla metempsicosi sia pitagorica che eleusina (Eleusi era sacra a Demetra, madre di Persefone).Questa farfalla si chiama così perché sul dorso ha disegni che ricordano alla nostra percezione un teschio. I suoi predatori vedono probabilmente un ragno e su questo doppio simbolismo (farfalla-ragno) c’è da interrogarsi trasferendolo ai personaggi che in tal modo interpretano un ruolo ineluttabile o, addirittura, indecidibile. Questo insetto appartiene alla famiglia delle Sphingidae e il  suo nome scientifico è Acherontia Atropos. Dunque non c’è solo la lontananza simbolica della Mongolia ma anche quella dell’Egitto e la vicinissima Grecia dionisiaca, c’è l’Acheronte e il flusso musicale è precisamente l’acqua che il soldato-Caronte fa attraversare alla fanciulla-Euridice. Non è allora un “insetto” (in-secare: gli strati del racconto sono di Lucarelli sono “intersecati”) che viene da lontano: ci è laterale, ci è vicinissimo, a meno di un palmo ma non possiamo toccarlo: è la nostra psiche.
Va infine annotato che “Testa di morto” in lingua tedesca è totenkopf ,  nome della più bestiale divisione delle waffen SS., il cui segno, lo svastica o croce uncinata, ha radici altrettanto arcaiche quanto la sfinge.
La fanciulla danza davanti alla morte una  danza macabra, una di quelle danze, cioè, in cui nel medioevo si raffiguravano tutti i ceti sociali danzanti con scheletri, specialmente dopo la peste del 1348. Sarebbe molto stimolante immaginare la storia dal punto di vista della vittima più che del carnefice. Scopriremmo forse che la falena che danza è la fanciulla, attratta dalla luce della morte.
 
Morsi da  Lucarelli, fuggiamo dai suoi enigma e  ripariamo tra le righe di un racconto il cui titolo sembra promettere serenità:
 
Incantatori
(Giovanna Bandini)
 
Una fotografa salentina si trova a Valencia per un reportage sulla festa di Las Fallas, il giorno di San Giuseppe. La festa consiste in una interminabile e suntuosissima processione. La città è ornata con Fallas, scene di cartapesta, che finiranno ritualmente bruciate. La fotografa nota una bambina, vestita in modo diverso dalle altre figuranti e vede il proprio sé infantile nella processione. I colori e il clima della festa valenciana la riportano ai colori e al clima delle feste del suo paese salentino, così come il flamenco degli zingari è associato analogicamente (ma anche storicamente) alla pizzica del suo paese. Alla plaza de toros assiste alla corrida. Le sembra che il torero mormori
 
 
 
 
 
qualcosa e scatta una foto. Impulsivamente torna nel Salento dove viene accolta dalla madre e, soprattutto, dalla nonna che aveva sostituito suo padre morto da giovane. La ragazza mostra alla matriarca le foto scattate a Valencia. La nonna individua subito la bambina della processione e ne sottolinea  la somiglianza fisica e comportamentale con la nipote prima dell’adolescenza. L’ava conferma altresì alla nipote che il torero stava parlando e per lei è ovvio che stesse  parlando col toro, chiamandolo per nome. Stanca per il viaggio la protagonista  va a dormire ma non vi riesce. Si alza, esce fuori. Ascolta qualcuno parlare sottovoce: è la nonna che si rivolge a un serpente invitandolo ad andar via. Lo chiama “Paolo”. Nel chiedere spiegazioni, la nonna  minimizza l’accaduto, anzi lo nega e fa notare alla ragazza che lei ha sognato tutto. La ragazza si convince. Infatti stava dormendo. Riprende le foto, per ingannare il tempo. Scopre che la bambina valenciana è scomparsa dalla foto.
 
Alla magia nera, alla nigredo di Lucarelli fa riscontro la magia bianca di Bandini. Anche con lei siamo in un ambiente di fatturazioni: la processione valenciana inizia in Primavera, Las Fallas sono incantesimi di carta, apparenze di apparizioni. La maga che opera i prodigi è la nonna, descritta con l’ elemento maschile della folta peluria sul mento. Ricordiamo che la donna con la barba è icona rinvenuta presso varie tombe pre e protostoriche e che unisce gli elementi maschili e femminili. E’ una delle prime icone del Mediterraneo. Ulteriori elementi della magia e dell’illusione  sono gli zingari (notoriamente incantatori), il flamenco “fiammeggiante” che  anticipa la danza del fuoco, i grandi falò  in cui finiranno le costruzioni-apparizioni di cartapesta col loro corredo di luminarie. Il racconto si incentra su una terna di donne-streghe che vivono isolate, sena presenza maschile. L’unico maschio, il padre della protagonista, è premorto e se ne avverte talvolta il respiro nelle stanze della memoria.  E’ intuitivo che, ricordo ancestrale di quando la donna era raccoglitrice sviluppando culture diverse dal maschio, compaia lo strumento principale degli incantesimi, le erbe,  e in particolare il rosmarino, simbolo dell’amore, del ricordo, della morte e chiamata anche “pianta dell’incenso”. E’ infatti una pianta di rosmarino che protegge la ragazza dalla visione dell’incontro tra la nonna e il serpente, episodio che, su altri versanti di lettura, ci porta a inferire una “protezione” di carattere sessuale (la nonna è molto legata al ricordo della preadolescenza della nipote) da parte di una centenaria che sa molte cose su sesso-vita-morte e che
conosce le forze del mondo, e forse le condivide e domina. Tra l’altro, chiama il serpente ”Paolo”, che può essere sia il S. Paolo esorcista sotto la scorza del serpente  che il semplice nome di un fidanzato (chè, si sa, le streghe se la fanno con Belzebù sotto varie forme). La magia del racconto riguarda il rito del ritorno, gira nell’ombra di un sufi. Incantesimi è il racconto  più leggero e barocco della collezione antologica. La protagonista è fotografa, dunque è una che ripropone tecnicamente la realtà con l’obiettivo, la “documenta”, obiettivamente. Nel racconto è diverso: la fotografa scopre qualcosa che vive negli interstizi della realtà. Il suo “scattare” foto diventa l’impulso a ritornare e l’impulso è, appunto, uno “scatto”, un essere rimorsi e fuggire verso dove si ebbe il primo morso, al ceppone della prima esperienza sessuale vissuta anch’essa come rituale, tradizione. Il fatto che la bambina della foto scompaia è particolarmente interessante, quasi un prezzo, anch’esso sacrificale: l’infanzia è una Falla, dominata da esseri strani, e chi vorrà leggere il libro può meditare su molti rinvii intratestuali. Un esempio: la prima scena è a Valencia. La bambina della foto scompare. Valencia nasconde “vale””, “addio”. Anche Falla è parola molto intrigante.  Ho detto che qui  il tarantismo è una faccenda di interstizi, è  psiche che guarda eros mentre dorme (ma è più probabile che,come la protagonista del racconto,  psiche dorma e  sogni di guardare eros). Bandini gioca con apparenza e apparizione, l’una anestetizza l’altra e, considerato che è archeologa, non le è forse estranea una frequentazione con Apuleio, il berbero (non l’apulo) autore del De Magia perché questo racconto è bello come una favola milesia. 
 
 
 
L’incantesimo racchiude vaghezza, il vagare,  come l’ultimo racconto scelto:
 
Vago
(Antonella Cilento)
 
Sono scorci di vita di una ragazza con problemi di panico. Non c’è una trama quanto un rincorrersi di situazioni, lo sfogliare a caso le pagine di un manoscritto segreto, quasi un  diario, delle ragazze. Si narrano situazioni , immagini e intrecci di relazioni tra persone e tra queste e le cose che hanno lasciato il segno nella mente della protagonista, osservate ora come allora. L’ esame di realtà genera connessioni mentali inedite, anche neuronali. La protagonista frequenta, tra l’altro, corsi di biodanza, vaga col dolore che le dà il suo nervo vago in cerca di un rimedio, di un antidoto a una malattia che si sta trasformando in anoressia. Solo nella musica degli zingari, incontrati durante una passeggiata a Punta Campanella, guardata e guidata dagli occhi di una vecchia che mastica erbe amare, trova quiete e il nervo vago , se non può vagare, almeno si attorciglia su se stesso in un recinto sacro e musicato.
 
Il titolo del racconto indica anche un’azione: “Io vago”. Antonella Cilento si tiene sul vago, letteralmente,  in un ambiente naturalistico, archeologico e antropologico molto denso. Ieranto possiede una baia splendidissima, testimonianze archeologiche di prim’ordine e non notissime, archeologia industriale, case col tetto di lapillo, muretti a secco: un pezzo di Salento sulla penisola sorrentina. Questa stratificazione umana  viene  metabolizzati dall’autrice che si insegue  in uno scenario dove la nostra immaginazione collocò le sirene gli esseri mitici  metàquesto-metàquello. Qui l’anima, metàspirito-metàcorpo,  trema,  pronta a staccarsi dalla terra. Il nervo fa male alla protagonista, Lallina, per queste tensioni e trazioni. Il suo tarantismo (a parte la bellezza da delirio dei luoghi) è questo: un sussultare, l’attesa di qualcuno che spinga la sua anima in un precipizio. In “Vago”  la taranta che punge è l’anima più che lo scarafaggio visto  su un muro d’ospedale. E Lallina vuole cadere in un precipizio  per vedere se sa veramente volare, per  dare scacco al panico lasciandolo da solo col filo del nervo vago in mano, senza aquilone. La danza girovaga della Cilento   parte dal sobbalzo  dei piedi, giunge al cuore, produce dissonanze, crea agitazione (ma fredda), fa aumentare il ritmo del respiro, ritorna ai piedi sotto forma di danza. Ieranto è, ovviamente, un paesaggio lunare, “femmineo”. Il cammino della protagonista è neuronale essendo la strada da percorrere quasi la mappa del sistema nervoso, quasi una   radiografia del proprio pensare e malessere. A Ieranto l’anima scopre il fossile più antico dell’ animus,  simile a una medusa: un cervello con un grande lungo tentacolo, il nervo vago. Ci viene proposta anche l’ombra di questo fossile attraverso  vaghi d’ambra che somigliano alle vertebre. Nella trasparenza dell’ambra , in queste lastre radiografiche del tempo, nella loro forma sbriciolata  nei frammenti della percezione, Lallina riconosce una legge e un codice, si sente particola dell’evoluzione : la struttura molecolare dell’ ambra, davanti alla quale Lallina rimane rapita come se riconoscesse qualcosa, forse la resina con la quale fu impastata, ripete l’archeologia dell’esserci nel mondo. L’ambra e l’ombra come sostanze  organiche, materiale di risulta di un processo di trasudorazione vegetale.
Dal cuore il sussulto arriva al cervello e da lì giunge allo stomaco provocando altri sussulti, conati di vomito, nausea. Un fulmine freddo produce attriti di selce.
La protagonista di “Vago” registra gli stessi sintomi ansiosi e impulsivi della protagonista di “Incantatori”. E’ interessante che due scrittrici abbiano diagnosticato  il proprio io tarantato tramite gli stessi sintomi. C’ ’è, in Lallina, un accenno di schizofrenia, di allucinazioni. Il morso del suo ragno è antichissimo, risale al tempo in cui viveva sulle rive della baia di Ieranto (radice Ieròs, sacro) milioni di anni fa, prima ancora che la luna diventasse fredda come freddo e cristallizzato è ornai il veleno del morso.  
 
 
 
Il nervo vago sa essere molto preciso, se vuole” e questa precisione , lui che è un residuo arcaico del nostro cervello di serpente, la mostra soprattutto esegue un lavoro mestico di quando riconosce ciò che gli apparteneva, i momenti della sua evoluzione nascosti in cose minimali:  le cose: le colonne smontate delle sepolture (costruiscono) percorsi illeggibili., come sono illeggibili le costellazioni, perché, aggiungiamo, è chiaro che anche a Dio fa male il suo essere Vago. Come in natura, anche nella mente ci sono impronte fossili, ricordi che toccano il nervo e fratturano l’osso. Quella della Cilento è una scrittura vertebrale. Per questo Lallina è sempre curva, obbediente alle inclinazioni delle immagini. Lallina è una che crede di sbagliare sempre. “Dov’è l’errore?”, si chiede. L’errore è nell’errare del vago, è lì il morso, l’inganno del serpente biblico nel paradiso di Ieranto, che si ripensa nei  fermagli d’ambra delle teche. I  fermagli delle  trecce di Lallina lo evocano come fanno i monili d’oro che vogliono ricordare al sole che anche chi li porta è un essere di luce. Come Eliade, morsa dal sole sotto forma di serpente e poi divenuto bracciale, Lallina è innocente, non sa nulla di tarante. Segue corsi di biodanza  e quando va in discoteca precipita trance attaccata dal panico. Trasuda un umore atrabiliare che o induce all’ingurgito o al rigurgito.
Anche in questo racconto c’è una punta ed è quella estrema  di   un viaggio metà fisico metà iniziatico, Punta Campanella, dove si presentano gli zingari sciamani.. E zingaro significa violino. E violino significa tarantismo. Tra questi zingari c’è una vecchia, forse la stessa del racconto di bandini, accovacciata sulla propria storia, mentre mastica erbe. Forse è il residuo di sposa del vago Dioniso. Forse è Aracne. O forse ancora è la  vecchia che nel nostro presepe salta addosso a pulcinella.  Questa vecchia, qui, non ha la barba ma fa anche lei  un’azione tipicamente maschile: fuma la pipa. E la fuma  con la bocca pelosa di ragno-totem che sovrintende alla cerimonia in suo onore. Io ho visto saliva densa come una sartìa scenderle dagli angoli della bocca. E’ in questo cerchio di danzatori che Lallina fa finalmente movimenti che, come dichiara,  non si possono  calcolare, e dunque incalcolabili, pretemporali e prespaziali,  accompaganata dal suo doppio mitico, Eliade, che, come in sogno, riemerge dalle acque che  il padre Tirreno sbatte sulla Terra con onde alte come colline ai piedi della danza , sui licheni della montagna . I licheni fanno da pendanti al nervo vago. Sono infatti  tra i più diffusi organismi della terra, sono la simbiosi tra un fungo e un'alga (le due personae del racconto:Eliade, acquatica; Lallina, terrestre) e sono la forma di vita più resistente ed elementare: dai ghiacci del polo alle rocce delle più alte montagne, in condizioni di vita difficilissime, dai freddi più intensi all'insolazione delle rocce. Sono dunque il simbolo degli ultimi terreni selvaggi, dell'esplorazione e dell'avventura, della perseveranza verso un obiettivo. Ma sono anche il simbolo della complessità , da intendere come il raggiungimento di un'armonia con la natura.
 
 
 
                                                                                  mimmo grasso

Argomento: 

Us Army, più suicidi che caduti in Iraq

Seimila reduci si sono tolti la vita soltanto nel 2005
SARA BERUTTO - LA STAMPA

Per molti soldati americani che hanno combattuto in Iraq e in Afghanistan la guerra più sanguinosa comincia con il ritorno a casa: il numero dei suicidi tra i veterani supera quello dei militari uccisi dall’inizio del conflitto. I dati, raccolti in un’inchiesta durata cinque mesi dal network Cbs, sono impietosi: soltanto nel 2005 sono stati 6256 gli ex soldati che hanno deciso di togliersi la vita una volta tornati dalle loro famiglie. Una media di 17 suicidi al giorno, più del doppio del resto della popolazione statunitense.

Il tasso di suicidi negli Stati Uniti è di 8,9 casi su 100 mila persone, ma tra i veterani la cifra sale a 18,7. I numeri si fanno ancora più preoccupanti se messi a confronto con quelli dei soldati caduti in combattimento in Iraq dal 2003. Per il sito internet iCasualties, fondato dall’ingegnere elettronico Michael White per monitorare le vittime del conflitto in Iraq, sono 3863 i soldati americani uccisi in servizio dal 2003 a oggi, una media di 2,4 al giorno.

I militari più a rischio sono i reduci giovani, che hanno tra i 20 e i 24 anni: 22,9 su 100 mila decidono di togliersi la vita, un numero quattro volte superiore ai coetanei che non hanno prestato servizio militare in zone di guerra. Come il riservista della Marina Jeff Lucey, 23 anni, che ha deciso di farla finita usando la pompa per innaffiare il giardino per impiccarsi nella cantina dei suoi genitori. O come Tim Bowman, riservista, spedito in missione in una delle zone più pericolose di tutta Baghdad, conosciuta come «Airport Road». Otto mesi dopo il suo ritorno a casa, il Giorno del Ringraziamento, si è sparato. Anche Tim aveva 23 anni. «Quando è tornato i suoi occhi erano semplicemente morti. La luce non c’era più», ha detto alla tv Cbs la madre del ragazzo, Kim Bowman. Derek Enderson, invece, era già tornato dall’Iraq due volte, ma la terza è stata fatale: si è gettato da un ponte a 27 anni.

«Siamo di fronte a una crisi gravissima - ha dichiarato Kevin Lucey, padre di Jeff Lucey - e troppe persone hanno deciso di voltare la testa e guardare da un’altra parte». Lucey si riferisce alle autorità militari e federali che, secondo i parenti delle vittime, non stanno facendo abbastanza per arginare il problema. Tanto che, sebbene molti studi siano stati condotti in merito a questa tendenza, non esiste un rapporto ufficiale che stabilisca il numero totale dei casi di suicidio tra i veterani. Anche per questo motivo la tv Cbs ha dovuto lavorare oltre cinque mesi per raccogliere i dati e le testimonianze. Daniel Akaka, presidente della commissione Veterani del Senato, ha definito la situazione descritta nell’inchiesta «inaccettabile»: «Sono particolarmente preoccupato per il fatto che così tanti giovani soldati decidano di togliersi la vita. Per troppi reduci tornare a casa non significa finire di combattere. Non c’è alcun dubbio che qualche provvedimento vada preso».

Negli Stati Uniti gli ex soldati sono oltre 25 milioni, 1,6 dei quali ha servito in Iraq o in Afghanistan. Secondo il «National Center for Post Traumatic Stress Disorder» lo stress e i traumi a cui i soldati sono sottoposti al fronte non fanno che aumentare il rischio emarginazione sociale e suicidio, così come l’abuso di droghe o farmaci e le difficoltà relazionali ed economiche che spesso affliggono chi ritorna in patria.

L’alto tasso di suicidi non è l’unico problema a preoccupare il Dipartimento dei Veterani. Uno studio pubblicato la scorsa settimana ha rivelato che un senzatetto su quattro in America ha prestato servizio nell’esercito, nonostante gli ex militari rappresentino solo l’11 per cento della popolazione totale. E questi non sono gli unici scandali che hanno coinvolto i veterani: le rivelazioni dei giornali sul «Walter Reed Army Medical Centre», ospedale militare di Washington dalle strutture fatiscenti, ha danneggiato l’immagine dell’esercito anche perché alcuni chirurghi dell’esercito, tra cui il generale Kevin Kiley, sono stati congedati per i cattivi servizi prestati ai reduci di Iraq e Afghanistan. Nel complesso quanto la Cbs descrive assomiglia allo scenario del post-Vietnam, anche se allora il numero dei reduci era assai maggiore.


E’ POSSIBILE NON PROTEGGERE I BAMBINI? comunicato stampa del CISMAI

                        
Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso all'Infanzia

 www.cismai.org
16 novembre 2007  

In questi giorni a Napoli le strutture che accolgono i bambini e gli adolescenti allontanati dalle loro famiglie hanno annunciato  le dimissioni dei minori: a partire da 1 dicembre

La situazione è determinata dal fatto che da 18 mesi non pervengono i pagamenti da parte del Comune che a sua volta non riceve i dovuti trasferimenti dal Governo da 11 mesi.
 

Appare come se a nessun livello la tutela dei minori venisse considerata una priorità strategica.
 
La situazione è divenuta allarmante e vogliamo sottoporre all'opinione pubblica e soprattutto al Governo l'urgenza di intervenire sulla questione per la tutela dei bambini e delle bambine vittime di violenza.
Parliamo di quei bambini per i quali è stato necessario l’inserimento in comunità per proteggerli da condizioni di gravissimo maltrattamento ed abusi sessuali subiti all'interno dei nuclei familiari, così grave da rendere difficile anche la possibilità di un affido familiare.
In queste settimane ci sono diversi bambini ed adolescenti che non trovano accoglimento in comunità pur vivendo in situazioni di grave pericolo: chi li protegge?
La imminente dimissione precoce di 1000 bambini senza una rete di protezione ed accompagnamento rappresenta - in prospettiva - un danno irreparabile per la loro evoluzione, davvero imperdonabile: chi li protegge? La violenza all'infanzia e' un crimine contro l'umanità.
La chiusura delle comunità rappresenta il fallimento  della protezione attivata:
- rigetta i bambini e gli adolescenti  in bocca al lupo, facendoli rientrare in situazioni ancora pericolose per l’integrità fisica e mentale, senza garanzie ed accompagnamento, in quanto anche i servizi educativi territoriali e domiciliari(gestiti sempre dal Terzo settore) stanno sospendendo la loro offerta, a causa dei gravi ritardi nei pagamenti;
- produce una nuova vittimizzazione: la dimissione diventa un tradimento da parte di coloro di cui i piccoli si sono fidati:molte ragazze e ragazzi chiedono in questi giorni agli educatori “Che fine farò?”. Sappiamo che ciò oltre a configurarsi come maltrattamento istituzionale rappresenta un danno grave alla possibilità di sviluppare fiducia ed attaccamento;
- vanifica il lavoro di cura psicologica, sociale, educativa , sanitaria portato avanti per ciascuno di loro, a partire dalla costruzione di un contesto sicuro.
Come operatori impegnati nella tutela e nella cura dei bambini segnaliamo l'estrema gravità di questa situazione ed il fallimento di tutti gli interventi attivati
Chiediamo pertanto un tempestivo intervento sul Governo, per rimediare non solo all’urgente situazione verificatasi ma a costruire soluzioni che ripristino stabilità: la gravita' del danno per la chiusura delle comunità e' paragonabile ad una catastrofe. La protezione dei bambini e delle bambine dalla violenza una priorità ineludibile in un Paese civile


lo stupro e la diffamazione - storie di ordinaria violenza

A settembre dell’anno scorso una ragazza, dopo aver denunciato la violenza subita, mandava al TG1 una lettera in cui esortava tutte le donne a ribellarsi allo stupro, ma anche all’omertà e al pregiudizio.
Nei quattordici mesi seguiti alla denuncia, la coraggiosa ragazza è stata fatta oggetto di una persecutoria campagna di diffamazione su internet: “zoccola di merda”, “puttana”, “psicopatica”, “squilibrata”, “bestia sanguinaria” “cretina” “stronza” sono soltanto alcuni degli epiteti che le hanno rivolto gli amici degli imputati, entrambi trattenuti dal GIP agli arresti domiciliari per i gravissimi indizi a carico.
 
Infine, i bloggisti sono giunti persino a mettere in linea il nome della madre della ragazza, in spregio alla legge che garantisce l’anonimato alla vittima proprio per salvaguardarne l’incolumità.
 
Il messaggio è chiaro: la donna che trova il coraggio di denunciare, che si ribella al sopruso, che rivendica i suoi diritti va offesa, ingiuriata, colpita, calunniata, spaventata e intimidita. Per nessuna ragione il suo esempio deve far scuola!  
 
Alla vittima stanno pervenendo espressioni di solidarietà da tutta Italia. Alle 9 di mattina del 27 di novembre, alla Procura di Bologna, in Via Trento Trieste 3, si svolgerà il processo col rito abbreviato. Vari presidi di cittadini e cittadine attenderanno in silenzio la sospirata sentenza a Bologna, a Cagliari e in altre città. 
 
La lettera della ragazza letta l’anno scorso al TG1
In questi giorni avrei voluto disperatamente seppellire quello che mi è successo.
Invece sono uscita alla luce del sole appena mi reggevo in piedi, portando a spesso il mio naso gonfio e gli occhi pesti, senza occhiali, senza trucco per nascondere i lividi. Ho sopportato di leggere sui giornali che, a dispetto dei pugni, ero “consenziente”. Ho deciso di combattere perché non dobbiamo nasconderci, vergognarci e sentirci in colpa. L’ho fatto perché non si ripetesse quello che ho subito. L’ho fatto perché non si parli solo di aggressioni di sconosciuti e stranieri quando moltissime volte sono connazionali, conoscenti e “amici” di cui ci fidiamo ad approfittare di noi e in questi casi è ancora più difficile trovare il coraggio di sporgere denuncia. Anch’io ho avuto paura e ne ho ancora tanta, ma ho reagito. Ribellatevi, non soltanto agli stupratori, ma anche ai pregiudizi, alle molestie, alle violenze, alle sopraffazioni, lottate con le unghie e con i denti, con tutta la vostra forza fisica e morale.
Ringrazio la polizia, i medici e gli infermieri per la loro sensibilità e delicatezza, il centro delle donne e i magnifici amici che mi sostengo con affetto e amore. Chiedo gentilmente a tutti: non offritemi la vostra pietà, concedetemi la vostra stima.
 
 
Perché abbiano fine storie come questa, riproponiamo un testo  coinvolgente e  sconvolgente di Franca Rame.
 
Lo stupro 
Il    Al centro dello spazio scenico vuoto, una sedia.
    prologo
 
FRANCA: Ancora oggi, proprio per l’imbecille mentalità corrente, una donna convince veramente di aver subito violenza carnale contro la sua volontà, se ha la “fortuna” di presentarsi alle autorità competenti pestata e sanguinante, se si presenta morta è meglio! Un cadavere con segni di stupro e sevizie dà più garanzie. Nell’ultima settimana sono arrivate al tribunale di Roma sette denunce di violenza carnale.
     Studentesse aggredite mentre andavano a scuola, un’ammalata aggredita in ospedale, mogli separate sopraffatte dai mariti, certi dei loro buoni diritti. Ma il fatto più osceno è il rito terroristico a cui poliziotti, medici, giudici, avvocati di parte avversa sottopongono una donna, vittima di stupro, quando questa si presenta nei luoghi competenti per chiedere giustizia, con l’illusione di poterla ottenere. Questa che vi leggo è la trascrizione del verbale di un interrogatorio durante un processo per stupro, è tutto un lurido e sghignazzante rito di dileggio.
MEDICO: Dica, signorina, o signora, durante l’aggressione lei ha provato solo disgusto o anche un certo piacere... una inconscia soddisfazione?
POLIZIOTTO: Non s’è sentita lusingata che tanti uomini, quattro mi pare, tutti insieme, la desiderassero tanto, con così dura passione?
GIUDICE: È rimasta sempre passiva o ad un certo punto ha partecipato?
MEDICO: Si è sentita eccitata? Coinvolta?
AVVOCATO DIFENSORE DEGLI STUPRATORI: Si è sentita umida?
GIUDICE: Non ha pensato che i suoi gemiti, dovuti certo alla sofferenza, potessero essere fraintesi come espressioni di godimento?
POLIZIOTTO: Lei ha goduto?
MEDICO: Ha raggiunto l’orgasmo?
AVVOCATO: Se sì, quante volte?
 
     Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente.
 
     Si siede sull’unica sedia posta nel centro del palcoscenico.
 
FRANCA: C’è una radio che suona... ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore... amore...
     Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena... come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra... con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.
     Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.
     Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce... la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza... Dio che confusione! Come sono salìta su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?
     Non lo so.
     È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare... è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.
     Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena... s’è seduto comodo... e mi tiene tra le sue gambe... fortemente... dal di dietro... come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.
     L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.
     Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce... né gran spazio... forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.
     Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?
     Sta per succedere qualche cosa, lo sento... Respiro a fondo... due, tre volte. Non, non mi snebbio... Ho solo paura...
     Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.
     Sono vicinissimi.
     Sì, sta per succedere qualche cosa... lo sento.
     Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli... li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe... in ginocchio... divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.
     Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!
     Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo... un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.
     Una punta di bruciore. Le sigarette... sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.
     Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere... Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.
     Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.
     Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo... mi tagliano anche il reggiseno... mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature...
     Ora... mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.
     Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.
     Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.
     Devo stare calma, calma.
     “Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola... non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.
     “Muoviti puttana fammi godere”.
     Sono di pietra.
     Ora è il turno del secondo... i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.
     “Muoviti puttana fammi godere”.
     La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.
     “Muoviti, puttana. Fammi godere”.
     Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.
     È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.
     “Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.
     Ci credono, non ci credono, si litigano.
     “Facciamola scendere. No... sì...” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.
     Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore... pardon... l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere... e se ne va.
     Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male... nel senso che mi sento svenire... non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo... per l’umiliazione... per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello... per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero... mi fanno male anche i capelli... me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia... è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.
     Cammino... cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.
     Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora... Sento le loro domande. Vedo le loro facce... i loro mezzi sorrisi... Penso e ci ripenso... Poi mi decido...
     Torno a casa... torno a casa... Li denuncerò domani.
 
    Buio.
 
(Questo brano è stato scritto nel 1975 e rappresentato nel 1979 in Tutta casa, letto e chiesa).
 
 

Serve un veto assoluto contro l'uso di proiettili all'uranio di DARIO FO, FRANCA RAME, JACOPO FO

 

Di seguito due articoli, del 1999 e del 2002 sul tema dell'uranio impoverito

CORRIERE DELLA SERA, lunedì 31 maggio 1999 

«Nel Golfo causarono migliaia di vittime, aborti, bimbi deformi».«Spargere del materiale radioattivo è un crimine di guerra». 

Caro direttore, 

il 17 aprile il portavoce Nato, generale Giuseppe Marani, ha dichiarato che «proiettili anticarro con uranio impoverito sono stati usati dai piloti alleati contro le forze serbe in Kosovo» e ha aggiunto che questi proiettili «non comportano alcun rischio» perché hanno un livello di radioattività «non superiore a quello di un orologio» (da il manifesto 20 aprile '99).

 
Permetteteci di dubitare del buon senso di questa affermazione. L'uranio impoverito, ci dicono i libri di fisica, ha una radioattività pari al 60% di quello naturale ed è un prodotto di scarto delle centrali nucleari. Fino a ieri veniva immagazzinato con mille precauzioni a costi altissimi.
Poi si è scoperto che poteva essere usato per ricoprire i proiettili anticarro. Al momento dell'esplosione si incendia sviluppando una temperatura altissima e buca l'acciaio come fosse burro. Bruciando si trasforma in una polvere sottilissima che si sparge nell'aria.
 
Molti studiosi hanno sollevato gravi dubbi sul fatto che sia innocuo. Già nel '79 un rapporto del «U.S. Army Mobility Equipement Research & Development Command» sosteneva che l'uso di questi proiettili metteva in pericolo «non solo le persone nelle immediate vicinanze ma anche quelle che si trovano a distanza sotto vento... le particelle... si depositano rapidamente nei tessuti polmonari esponendo l'ospite a una crescente dose tossica di radiazioni alfa, capace di provocare cancro e altre malattie mortali».
 
Un altro studio commissionato dall'esercito americano (Science Applications International Corp., luglio 1990) afferma: «L'uranio impoverito provoca il cancro quando penetra nell'organismo e la sua tossicità chimica causa danni ai reni». Nonostante questi avvertimenti i proiettili ricoperti di uranio impoverito furono usati nella guerra del Golfo. Subito dopo, nel novembre 1991, il quotidiano londinese The Independent pubblicò uno studio segreto dell'Ente atomico britannico (Ukaea) sui potenziali pericoli costituiti dalla radioattività presente nelle zone dei combattimenti in Iraq e Kuwait a causa di questi proiettili.
 
In questo momento il Pentagono si trova in grande imbarazzo perché dopo la guerra del Golfo più di 80.000 veterani si sono ammalati della cosiddetta Sindrome del Golfo; più di 4500 sono morti, centinaia sono i figli dei reduci nati deformi. Il 5 luglio 1998 il Washington Post ha pubblicato un articolo che avalla la tesi sostenuta da molti ricercatori: una delle cause principali di questa sindrome sono i proiettili all'uranio. La Rai ha commissionato su questo argomento un documentario al regista Alberto D'Onofrio e poi lo ha censurato.
 
Evidentemente però anche il Pentagono qualche dubbio lo deve avere: il San Francisco Examiner del 17 agosto '97 riporta il testo di un manuale di addestramento militare Usa che raccomanda di usare sempre guanti speciali toccando i proiettili e di indossare una maschera speciale mentre questi vengono sparati, concludendo: «Ricordate di stare sempre lontani, se possibile, dagli equipaggiamenti e il terreno contaminati».
 
Ma pare che la situazione in Iraq sia gravissima. Gli elicotteri Apache e gli aerei A10 sono dotati di un cannoncino a 7 canne in grado di sparare 4200 proiettili al minuto. Ogni proiettile è ricoperto da circa 300 grammi di uranio. Le stime più prudenti parlano di più di 300 tonnellate di uranio impoverito scaricate su Iraq e Kuwait. Decine di migliaia sarebbero i morti, gli aborti e le nascite deformi, centinaia di migliaia i malati.
 
Il professor Siegwart-Horst Gunther, presidente della Croce Gialla, ha condotto uno studio impressionante sulle malattie contratte da bambini che si erano trovati a giocare con i bossoli esplosi di questi proiettili e sulle nascite deformi di bimbi e animali nelle zone dei combattimenti.
L'esperienza di questo medico tedesco offre anche una prova indiretta della radioattività di questi proiettili. Egli riportò in Germania un bossolo esploso per poterlo fare analizzare e fu per questo condannato per violazione delle «leggi nucleari».
 
Le organizzazioni pacifiste americane hanno raccolto un dossier enorme sugli effetti di questi proiettili non solo in Iraq, ma anche in Bosnia dove si è riscontrato un notevole aumento di casi di leucemia nelle aree dove hanno operato gli A10 e in una zona del Costarica dove i proiettili all'uranio impoverito sono stati usati in una esercitazione.
 
Ce n'è abbastanza per non sentirsi tranquilli davanti all'ammissione dell'uso di queste armi in Kosovo. E certo non ci saranno molto grati i kosovari, visto che questo uranio è radioattivo per secoli, almeno 4000 anni, secondo le stime più prudenti.
 
Alle interpellanze parlamentari di Semenzato e Paissan, il governo ha risposto che l'Italia non usa queste armi e che si adopererà perché non si usino ma che non si sa nulla di preciso perché c'è il segreto militare.
Non è una risposta esauriente.
In una situazione così pericolosa non ci si può limitare a sperare che i pessimisti abbiano torto. Anche la nostra più viva speranza è che l'uranio impoverito sia innocuo, anzi preghiamo che si scopra che è un ottimo ricostituente, fa venire i denti più bianchi e ridà la voglia di far l'amore agli amanti stanchi. Ma se non è così?
 
Spargere materiale radioattivo è un gesto da tribunale per i crimini di guerra. E il fatto ci riguarda molto da vicino perché la polvere di uranio può essere trasportata dal vento anche per centinaia di chilometri.
 
Forse sarebbe il caso che non si continuasse a far finta di niente e l'Italia ponesse un veto assoluto all'uso di queste armi chiedendo l'apertura di un'indagine internazionale. Se poi si stabilirà con certezza che fanno bene alla salute saremo lieti di acquistare un centinaio di proiettili da tenere in giardino.
 
Speriamo che D'Alema non voglia rischiare di essere ricordato come un fiancheggiatore degli autori di un genocidio. Uno che quando gli chiedono: «Ma lei non sapeva niente?» risponde: «La Nato mi aveva assicurato...».
 
Per concludere vorremmo ricordare che la situazione è particolarmente insidiosa perché i proiettili all'uranio sono un affare colossale, permettono di trasformare le scorie nucleari (che è costosissimo conservare in modo sicuro) in una materia prima preziosa.
 
Le azioni delle imprese che producono questi ordigni stanno aumentando il loro valore rapidamente. Per fortuna, volendo, si potrebbero ripulire l'Iraq e gli altri territori contaminati, ma il costo di una simile impresa è stato stimato intorno ai 50-100 milioni di miliardi di lire. Forse poi una stangatina fiscale non sarà sufficiente a pagare il conto. Da Dario Fo & Franca Rame News
"Il C@C@O della domenica"
 
20 ottobre 2002
 
Massimo D'Alema ha fatto una dichiarazione per molti versi sconcertante.
Se n'e' uscito ventilando la possibilita' di modificare l'articolo 11 della Costituzione, nel quale si dichiara che l'Italia ripudia la guerra e che si impegna a usare le armi solo in caso di un'aggressione diretta.
Questa dichiarazione di D'Alema ci ha lasciati di stucco in quanto sottintende la piena accettazione della logica del conflitto preventivo.
D'Alema sostanzialmente si rende conto che la partecipazione dell'Italia alla guerra contro l'Afghanistan o l'Iraq o e' incostituzionale ma, invece di essere portato a riflettere sull'enormita' che si e' compiuta e si sta compiendo, e' talmente convinto che questa guerra contro gli stati canaglia sia giusta, da trovare ovvio che sia in errore la costituzione italiana e che quindi vada modificata.
E' in questo e' perfettamente in regola con la tendenza dominante. C'e' in giro un tale che ogni volta che lo accusano di un reato lo depenalizza.
Ora non vorremmo tediarvi ripetendo le motivazioni che ci spingono a pensare che questa guerra sia combattuta soprattutto per sporchi interessi petroliferi (non sapremmo come definirli altrimenti), ne vorremmo dilungarci sul particolare costituito dai miliardi di dollari spesi nel passato dagli Usa per finanziare i Talebani, Bin Laden e Saddam...Accenneremo soltanto ai decennali rapporti di amicizia e affari tra la famiglia Bush e Bin Laden e le enormi speculazioni in borsa che scommettevano sugli attentati prima dell'11 settembre. Ne' vorremmo essere prolissi sproloquiando sull'indiscutibile evidenza della sopravvivenza in vita di Bin Laden, il "mullah Omar" e tutta la direzione di Al Queida. I nostri gentili lettori sono di certo informati poi dei campi di concentramento, dei massacri, delle torture, dei proiettili all'uranio impoverito e dei bombardamenti un po' troppo frequenti che, per errore, hanno colpito matrimoni, convogli di profughi, scuole e centri del volontariato in Afghanistan e anche in Iraq dove da un decennio gli Usa bombardano quasi quotidianamente (anche se i mass media non ne parlano).
Insomma diamo per scontato di parlare a persone che hanno la sensazione che la guerra oggi sia il peggiore dei mali. Gia' ora assistiamo a un crescendo drammatico del terrorismo ma una guerra contro l'Iraq significherebbe il rischio di un'esplosione della tensione internazionale con conseguenze che neppure si possono immaginare.
E sinceramente ci stupisce oltremodo che un leader della sinistra si permetta di proporre la modifica dell'articolo 11 della Costituzione Italiana (che come si diceva una volta "e' costata tanti morti") senza aprire prima un dibattito all'interno del proprio partito e dell'Olivo. E ci pare ancor piu' incredibile che alle parole di D'Alema non sia seguita una insurrezione da parte dei militanti DS, che hanno intascato le dichiarazioni dell'Imperatore Massimo senza batter ciglio e senza aprir bocca.
Sconfortante.
E anche di cattivo gusto da parte di D'Alema verso il povero Fassino che ci fa la figura totale del Segretario Generale Fantoccio. Ce lo immaginiamo mentre nella notte telefona al suo Capo con i Baffi e lamentoso domanda:"Ma io cosa ci sto a fare?".
E, proprio un bel periodo per i progressisti in Italia.
Come diceva Moretti?

Morte accidentale di un anarchico - di Dario Fo

Il giornalista Pierluigi Battista sul Corriere di qualche giorno fa, mi sferra un attacco a spaccagambe e lo fa in una specie di recensione a un mio testo satirico, Morte accidentale di un anarchico, appena andato in scena per la quarta volta consecutiva negli ultimi cinque anni qui in Italia, con debutto a Milano.

Gli attori, a detta della maggioranza dei critici, sono eccellenti; i registi Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, sono riconosciuti direttori scenici di notevole talento. Visto il numero straordinario di repliche effettuate in tutta la penisola da anni, è comprensibile il continuo ripetersi degli allestimenti.

Ma l’autore della stroncatura non se n’è accorto: crede che le continue repliche siano dovute a una mia ostinazione ideologica, non al successo e al gradimento del pubblico.

A dimostrare la tendenziosità esplicita dell’articolo in questione, dove mi si presenta come difensore di un’infamia perpetratasi più di trent’anni fa e autore mancante di pietas, viene subito all’occhio un particolare davvero sconcertante: il Battista non prende in considerazione né la chiave né il tema della commedia, e tanto meno il luogo fisico dove si svolge l’azione.

Nessun recensore di qualità al mondo sarebbe incorso in un simile pacchiano errore. Ma in verità non si tratta di errore. Piuttosto si tratta di una furbizia da Brighella, giacché con questo escamotage, si evita di portare in primo piano la questione fondamentale dell’opera, cioè la tragedia di Pinelli e la morte dell’anarchico dopo un volo dal quarto piano della questura di Milano.

Il Battista, da non confondere col santo del Battesimo a Gesù, non si chiede nemmeno se l’anarchico sia precipitato ancora vivo o già privo di vita, cioè se si sia trattato di un suicidio o di un omicidio. Va da sé che il “povero” Pinelli, come lo chiama il sensibile Battista, si sarebbe dato da sé la morte prendendo una considerevole rincorsa e superando a volo d’angelo la balaustra di 90 centimetri e, in seguito a una parabola adeguata alla forza di slancio, abbia raggiunto il suolo schiantandovisi.

Il Battista mi accusa inoltre di aver cucito la pièce “con materiali inquinati dal pregiudizio e dal fanatismo politico”.
Ora, quali sarebbero i materiali inquinati di cui mi sarei servito? Eccoli: niente meno che gli atti processuali del dibattito svoltosi in aula nel Tribunale di Milano appena qualche anno dopo la strage di Piazza Fontana e la più che sospetta defenestrazione di Pinelli, accompagnati dalla documentazione e dagli atti della revisione dell’inchiesta condotta dai giudici di Milano, in particolare da D’Ambrosio.

Ogni dialogo o dichiarazione nella commedia è tratto quindi da documenti assolutamente autentici e soprattutto sconvolgenti. Come diceva Molière: “la realtà è sempre più impossibile della fantasticheria scenica”.

Tanto per cominciare, in Morte accidentale di un anarchico, già nel primo atto viene riproposta la dichiarazione del questore di Milano, Marcello Guida, che, intervistato dal telegiornale Rai, il 15 dicembre 1969, solo qualche ora dopo l’avvenuta morte di Pinelli, racconta come si sia svolto il suicidio dell’anarchico in questione. Il dottor Marcello Guida, capo superiore della Polizia, davanti alle telecamere recita la propria entrata in scena nell’ufficio dove era “trattenuto” il “povero” Pinelli, invitato amichevolmente in Questura per semplici accertamenti.

Il Guida gli si rivolge perentorio dicendo: “Il suo compagno Valpreda, or ora interrogato, ha ammesso di essere l’autore della strage della Banca dell’Agricoltura di Milano: è lui che ha messo la bomba”. Al che il Pinelli, sbiancando in viso si sarebbe levato in piedi gridando: “E’ la fine dell’anarchia!” e, montando nella disperazione, si sarebbe gettato dalla finestra.

Ora urge condurre una breve analisi. Sappiamo che Valpreda finì in carcere e subì più di un processo; dopo tre anni di detenzione i giudici lo riconobbero assolutamente innocente. Quindi il questore Guida nella sua sparata verso Pinelli aveva spudoratamente mentito: Valpreda non solo non aveva compiuto l’atto criminale, ma fin dall’inizio si era dichiarato completamente estraneo ai fatti, per ciò nella commedia si sottolinea che il questore di Milano si è servito di un’infamia per indurre il Pinelli a una crisi e fargli ammettere d’aver partecipato alla messa in atto della strage.
Non si tratta quindi solo di un espediente poliziesco ma di un vero e proprio crimine.

E ancora, quando fa esplodere l’espressione disperata in Pinelli “E’ la fine dell’anarchia!”, il signor questore lo descrive nell’atto di gettarsi immediatamente dalla finestra, dimenticandosi di due sostanziali dettagli.
Quella notte la temperatura esterna, a Milano, era sotto lo zero, solo un pazzo poteva tenere le finestre spalancate con un gelo simile. Quindi dobbiamo arguire che la finestra fosse chiusa e se la sarebbe aperta da sé solo il Pinelli; ancora, retrocedendo, l’anarchico avrebbe preso una buona rincorsa e prodotto il tuffo letale. Oppure, qualche amabile poliziotto, che casualmente si trovava presso la finestra, lo avrebbe aiutato esclamando: “Prego s’accomodi!”.

Durante il dibattito processuale il giudice chiedeva come mai nessuno dei poliziotti presenti, che per loro ammissione si ritrovavano nei pressi della finestra, non fosse intervenuto cercando di bloccare il gesto suicida del Pinelli. Due dei poliziotti, imbarazzati, non sapevano cosa rispondere, ma un terzo, il brigadiere Vito Panessa, dichiarava: “In verità io personalmente mi sono preoccupato, tant’è che ho afferrato l’anarchico quasi al volo per un piede, ma mi è sfuggito egualmente, lasciandomi però in mano la sua scarpa...”. Il giudice, dopo una veloce inchiesta, scopriva che il Pinelli sfracellato al suolo portava ai piedi ancora tutte e due le scarpe. Quindi bisognava decidere: o Pinelli era tripede o i poliziotti a loro volta mentivano.

A ‘sto punto chi di noi due, Dario Fo e Pierluigi Battista, possiede il “demone ideologico”? Io che racconto i fatti traendoli dai verbali e dagli atti processuali o il Battista che li ignora, e demonizza chi la pensa in modo diverso da quello ufficiale, che poi è il suo? E a quale altro linciaggio vado incontro se mi permetto di ricordare, che dalle immagini del servizio televisivo, a fianco del grande bugiardo statale, il Guida, si notava proprio il commissario Calabresi che ad ogni dichiarazione del suo superiore, il questore, assentiva col capo e con adeguate espressioni per niente imbarazzato!?

Di questo particolare da niente, che sottintende un’operazione volta a deviare le indagini su un massacro organizzato da forze dell’estrema destra, oggi abbiamo idee più chiare.
E questo, grazie all’inchiesta del giudice Salvini che ha indagato sui corpi dello Stato, occulti e palesi, raccogliendo una straordinaria documentazione che ci svela come il centro operativo, situato nella caserma Pastrengo di Milano, fosse in possesso perfino di aerei privati coi quali trasportare, secondo l’occorrenza, di volta in volta dalla Spagna e ritorno, la manodopera criminale con tanto di passaporto, stipendio e copertura. Manodopera che, giunta nei luoghi preordinati, metteva in atto azioni terroristiche.

Il Battista non fa alcun cenno a questa situazione da fantascienza criminale e taccia me, autore della commedia, che invece ne parlo, di mancanza di pietas. Non è che qualche volta la pietas viene confusa con l’hypocrites?

Ma il Battista, strada facendo si eccita e va giù sempre più pesante. A proposito dell’omicidio Calabresi e dal particolare che, secondo il mio modo di vedere, e non soltanto mio, gli autori del crimine siano da ricercare in tutt’altra direzione, per esempio fra le varie organizzazioni di polizia segreta di cui abbiamo accennato, così vivaci ed efficienti nel nostro Paese, il giornalista mi accusa di disegnare “con furore incomprensibile una dietrologia di seconda mano”.
Ma che vuol dire dietrologia di seconda mano? Forse si allude a un’altra di prima mano più attendibile?

Come vado sostenendo ormai da anni, il delitto Calabresi ha inizio dal momento in cui al commissario tolgono la scorta di protezione: solo dopo tre giorni mettono a punto l’omicidio. Calabresi era conscio che qualcuno si sarebbe giovato del saperlo indifeso e abbandonato, tanto che commentò: “Se qualcuno vuol colpirmi, questo è il momento giusto!”.

E chi poteva essere al corrente di quell’isolamento, se non le polizie segrete e deviate, preoccupate di mantenere il silenzio?!
E tu guarda è proprio a ‘sto punto che il Battista scodella l’accusa di dietrologia fanatica e insensata. Forse gli sfugge il numero impressionante di poliziotti, sottufficiali e ufficiali superiori che troppo sapevano e che nell’ultimo mezzo secolo sono scomparsi attraverso strani suicidi, brutali incidenti o palesemente assassinati, basta ricordarsi l’elenco dei testimoni della strage di Ustica, uomini di coraggio a cui s’è tolta la parola, ultimo addirittura un generale accoltellato a Bruxelles. * Tutti dietrologi ossessionati?

Quindi, al contrario di Battista, io personalmente sono più che convinto che Sofri e i suoi compagni condannati per quel delitto siano assolutamente innocenti e che Leonardo Marino, l’accusatore, unico testimone in forza alla polizia, sia stato letteralmente plagiato, o meglio ammaestrato, dal gruppo speciale di Carabinieri che l’ha tenuto a lezione per più di un mese. Particolare questo che è venuto alla luce soltanto dopo un anno dall’inizio del processo, grazie alla testimonianza, imprevista e imprevedibile, di un sacerdote al corrente dell’operazione di imboccamento di Marino da parte della Benemerita.

Così ecco che al processo Marino testimonia di tutta l’operazione che doveva portare all’assassinio di Calabresi. Soltanto che, ahimé, riferisce particolari che risultano spesso errati o addirittura falsi.
Per esempio il testimone si auto-accusa di due rapine realizzate con l’appoggio di tre suoi compagni di Lotta Continua che vengono prontamente arrestati. Ma i compagni, incriminati per chiamata di correo, di lì a qualche mese vengono assolti per non aver commesso il fatto, invece Marino resta dentro.

Gola profonda Marino testimonia, anzi giura, che una delle ragazze del commando sta preparando nelle valli del Canavese un poligono di tiro: ma nello stesso giorno indicato, si scopre che la ragazza si trovava ricoverata in un ospedale di Torino, intenta a partorire il suo primo bambino.
Inoltre, il testimone descrive con precisione la macchina che personalmente guidava nell’attentato: “Era beige”, assicura. Ma in verità appresso si scoprirà che era blu.

Ma dove ha rubato questa macchina? “Nei pressi delle carceri di San Vittore, lato sinistro del viale” dichiara. Errore: la macchina si trovava sul lato destro della strada. “La portiera che ho forzato – dice ancora – era a destra”. Errore: la portiera forzata era quella di sinistra.

Afferma che in macchina non c’era nulla, vuota. E invece i poliziotti ritroveranno la vettura abbandonata qualche ora dopo ingombra di oggetti, i più disparati: palle da tennis in quantità, un paio d’occhiali, un ombrello, una pipa, un cappello, una lampada a pila, delle riviste, carte geografiche di aree orientali, una radio ricetrasmittente truccata in grado di ascoltare le frequenze della polizia (aggiustamento che può essere in grado di realizzare solo un tecnico d’alta professionalità, probabilmente legato a organizzazioni militari), una scatola di fiammiferi, un impermeabile, uno specchietto retrovisore - optional - e sul tetto della macchina, ben evidente, si scopre una lunghissima antenna radio, inarcata, lunga un paio di metri, ma lui non l’ha vista. Non ha visto nemmeno tutta la mercanzia di cui era ingromba la macchina…
Ma come mai questo svarione?

È semplice, poliziotti della PS che hanno ritrovato la macchina del delitto, hanno tenuto celata la presenza di oggetti nell’interno del reperto, quindi non essendone a conoscenza i Carabinieri, come potevano essi procurare l’informazione a Marino?
Ecco il perché della scena muta davanti al giudice.

Ad ogni modo, per concludere questo frammento d’indagine, è chiaro che Marino in quella vettura non c’è mai stato, non ha mai guidato quella macchina. L’unica cosa certa è che gli assassini con quell’auto hanno compiuto il delitto Calabresi. Ma senza di lui. Lui non c’era. Lui è completamente innocente. Un innocente venduto!

Proseguendo, la macchina, secondo gli inquirenti della PS, è stata ritrovata intieramente pulita, e quindi priva di impronte. Inoltre, il proprietario della macchina, al momento di ritirare la vettura a lui rubata, si è reso conto, che le due ruote anteriori erano state sostituite con pneumatici nuovi di zecca. Roba da specialisti del crimine! Ma a queste notizie Marino cade dalle nuvole.

Il tragitto ricostruito dalla polizia in seguito alle testimonianze dei passanti sulle varie strade percorse dalla macchina in fuga dopo l’attentato, non ha niente a che vedere con quello disegnato dal Marino. Anzi, è completamente diverso. Ma gli inquirenti badano bene di non contestare l’evidente diversità… Per carità, se si cominciano ad analizzare tutti gli errori commessi e le frottole raccontate da Marino non la finiamo più!
Altro particolare interessante: grazie a varie testimonianze, alla guida della macchina, c’era una donna, bionda, e dall’aria elegante.
Non c’è traccia di lei.

Quindi, sedici anni dopo l’efferato delitto, appare Marino e gli inquirenti esclamano: “Eccolo! È lui la signora bionda, elegante!” Di certo, ne è una prova la folta capigliatura fortemente arricciata di foggia negroide che gli decora il capo!
Altro grosso particolare, meglio dire grossolano, è il fatto che Marino, scelto come autista della macchina dell’attentato, non conosce Milano, ci è stato poche volte; egli vive a Torino, sua città d’origine. Ma non importa. Importanti sono l’istinto e l’ideale!
Durante l’interrogatorio, il giudice chiede al testimone il nome e le sembianze del personaggio determinante, cioè il basista, ovvero colui che avrebbe dovuto dirigere l’intiera operazione. Marino non ricorda né nome né figura, ma qualcuno gli offre una dritta: si chiama Luigi. “Adesso mi viene in mente! – esclama il Marino – Si tratta di Luigi Bobbio!” Ma, bumpete!, non può essere lui: ha un alibi perfetto. Poi annaspa su altri nomi ma sono tutti inattendibili. Finalmente s’imbatte nell’uomo giusto: Noia, Luigi Noia. I Carabinieri accompagnano il Marino, meglio lo portano nella casa che lui dovrebbe conoscere bene, ma non se la ricorda. Il Noia viene comunque incriminato.

Gli inquirenti esultano: “Finalmente abbiamo il basista!”. Secondo la testimonianza del Marino, al tempo dei fatti, il Noia era privo di baffi e barba, sempre ben rasato. Ma il fratello del Noia, fotografo dilettante, aveva scattato una foto, esattamente nei giorni del delitto, in cui appariva il presunto basista con baffi e barba fluenti, intento a leggere un giornale. Il giornale è il “Corriere della Sera”.

Il fratello si reca allora all’archivio del Corriere; analizzando i titoli che appaiono nella foto e alcune immagini scopre che la data di quel quotidiano è esattamente il 18 maggio 1972, il giorno dopo dell’omicidio Calabresi. Quindi doveva possedere quella barba fluente anche il giorno prima, una barba del genere non ricresce in una notte, ergo non è lui. Gli inquirenti devono forzatamente riconoscere la sua innocenza. Il Noia non è il basista.
Qualcuno si è inventato tutto. Ma senza quella foto oggi il Noia sarebbe stato condannato a vent’anni di carcere con i suoi compagni di Lotta Continua. E ci starebbe ancora, forse, in carcere.

Questo ci dice della serietà di tutto quel processo, dove il perno dell’accusa ruota intorno alla figura di
Marino un personaggio che i giudici di Torino avevano dichiarato testimone assolutamente inattendibile.
In seguito a tutte queste lacune e incongruenze che mal occultano un vero e proprio complotto, nel processo d’Appello del 1993 i giudici popolari, all’unanimità si rifiutano di ritenere colpevoli del delitto i tre imputati di Lotta Continua e il loro voto è determinante per la sentenza finale: Sofri, Pietrostefani e Bompressi sono da ritenersi innocenti, quindi da liberare.

Ma qui, entra in campo l’orrenda trappola: pur di ribaltare il verdetto, i giudici della Cassazione decidono di mettere in atto la cosiddetta sentenza suicida, cioè a dire, il giudice estensore espone, nel documento finale, la cronaca del processo e le motivazioni della sentenza in modo caotico e confuso, così da rendere tutto inattendibile. A questo punto il giudice superiore è tenuto ad annullare non solo il processo, ma anche la sentenza, quindi tutto da capo e i tre di Lotta Continua tornano sul banco degli imputati. Una truffa giuridica maestrale!

Che ne dice il Battista? Si tratta o no di una sindrome di ostinazione machiavellica, anzi demoniaca, quasi criminale vissuta dentro una stagione politica tetra e asfissiante?

Ma il botto finale del censore, pardon del recensore, è la messa in campo, nel suo articolo pubblicato sul Corriere, di un personaggio davvero terrorizzante.
Renato Farina, che suggerisce l’intervento censorio del Governo nei riguardi di questa mia pièce. Ma chi è Renato Farina, che il Battista usa come ariete da sfondamento nei nostri riguardi?

È un giornalista arruolato nei servizi segreti, il SISMI, nome in codice Betulla; è stato indagato insieme a Niccolò Pollari, alto ufficiale, direttore del SISMI, per il rapimento di Abu Omar, trasportato dall’Italia in Egitto a disposizione della Cia che l’avrebbe addirittura torturato. Per questo la Procura della Repubblica, qualche mese fa, ha radiato Renato Farina dall’albo dei giornalisti! Ma lui continua a collaborare con Libero, come opinionista, Feltri lo protegge.
Bene, caro Battista, ognuno ha le conoscenze che merita!