"Io, vedova di guerra, in un Paese senza memoria" La Repubblica, CARLO BONINI

Il marito perso in Iraq, una figlia da crescere, le lacrime e i ricordi
ma anche le malignità della gente: vita di una moglie di caduto in missione

 
 
Il tempo di Alessandra Cellini è due volte maledetto. Come può esserlo solo quello delle vedove di guerra in un Paese in pace che non conosceva guerre da mezzo secolo. Maledetto perché ogni bara avvolta nel tricolore che torna su un C-130 impedisce alla ferita di cominciare anche soltanto a cicatrizzarsi. Maledetto perché il lutto, privato, non si fa mai memoria condivisa, collettiva. Resta un terribile fardello da trascinare in solitudine.

Occasione di chiacchiericcio malvagio, perché, oggi, nella provincia italiana di un Paese in guerra solo con se stesso, dove si fatica ad arrivare alla quarta settimana, si può anche invidiare una vedova di guerra, per quel che la guerra le ha tolto (un marito e un padre) e quel che la guerra le ha dato: un vitalizio, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, una casa in cui far crescere un'orfana.

Alessandra aveva 27 anni e una bimba di 10 mesi, Giorgia, quando il 21 gennaio del 2005, suo marito, Simone Cola, 32 anni, maresciallo dell'aviazione dell'esercito, veniva ucciso nei cieli dell'Iraq. Vivevano a Viterbo, allora, non lontani dalla caserma dove era di stanza Simone. Le immagini di quei giorni sono rimaste le prime e le ultime rubate a una giovane famiglia divisa per sempre. Simone Cola il giorno del matrimonio; Simone Cola in mimetica accanto alla fusoliera del suo elicottero; Alessandra con il capo reclinato sulla spalla del capo dello Stato il giorno dei funerali nel Duomo di Ferentino. Poi, più nulla. Il lutto pubblico ha un suo rituale. I suoi tempi. Tre giorni. Alessandra e la sua bimba sono state ricacciate nel buco di anonimato da cui non avrebbero mai voluto uscire.

Oggi Alessandra ha trent'anni e da tre anni prova ogni giorno a ricominciare a vivere. "Dopo la morte di Simone io e Giorgia lasciammo la casa di Viterbo e tornammo qui dove sono cresciuta, a Ferentino. Da sola non ce la facevo. Ho la fortuna di avere un fratello e una sorella e dei genitori ancora giovani. Per un anno tornai a casa, insieme a loro. Poi, una mattina, capii che non era giusto. Non era giusto per me e soprattutto per mia figlia. Io, lei e Simone eravamo stati una famiglia. Io e lei da sole dovevamo tornare ad essere quello che di quella famiglia restava".

Con la somma che le liquida il ministero della Difesa, Alessandra compra un piccolo appartamento in un dignitoso condominio, abitato da altri cinque vicini e lo intesta a Giorgia. Arreda la casa con gli oggetti e i mobili, che, un anno prima, un camion dell'Esercito aveva caricato in un cassone a Viterbo. Il divano è lo stesso. Il letto matrimoniale è lo stesso. La vetrinetta del salone e le cornici con le foto di una coppia felice con la propria bimba sono le stesse. Anche l'armadio è lo stesso, dove continuano ad essere appesi i vestiti di Simone.

"Solo una cosa non ho avuto il coraggio di fare. Aprire le casse che sono tornate indietro dall'Iraq. Credo siano solo gli indumenti di Simone. Credo. Le tengo una sull'altra. In un angolo. E forse non le aprirò mai. L'unica cosa che ho voluto di quel posto me l'hanno data i colleghi di Simone. Un peluche che aveva comprato per Giorgia".

Nel 2005, Francesco Storace, senatore di An, allora governatore del Lazio, trova ad Alessandra un posto alla "Bic Lazio" di Frosinone, azienda di sostegno allo sviluppo delle imprese. Uno stipendio modesto, ma pur sempre uno stipendio, che, con i 1500 euro di vitalizio riconosciuti alle vedove dei caduti, consente di arrivare alla fine del mese senza affanni. Alessandra comincia ad alzarsi alle sei ogni mattina, dal lunedì al venerdì, per poter essere in ufficio per le 8.30. Sveglia Giorgia, le prepara la colazione, la veste per andare all'asilo.

Un istituto di suore, dove ogni pomeriggio, quando torna a prenderla, le raccontano la giornata di quella bimba. Se e quante volte ha chiesto di vedere il padre. Che cosa ha ascoltato dalla voce dei suoi compagni. Capisce presto che Giorgia non può sopportare separazioni troppo lunghe. Alla "Bic" le concedono il part-time, perché alle tre e mezza del pomeriggio lei possa essere di nuovo davanti al cancello dell'asilo.

"Non è vero che a dieci mesi, quanti ne aveva Giorgia quando morì Simone, i bambini non ricordano. I bambini ricordano, ascoltano e aspettano. Per molto tempo ho avuto solo la forza di dirle che "papà era dovuto salire in cielo da Gesù perché Gesù gli aveva chiesto di aiutarlo con i bambini che erano in cielo con lui". E lei, che sapeva che il padre volava sugli elicotteri, per due anni, ogni volta che vedeva un elicottero su per aria diceva che era il padre che stava andando da Gesù".

Poi è arrivato il giorno in cui la verità ha bussato con la voce di un bambino. "Giorgia è tornata da scuola e mi ha chiesto piangendo se era vero quello che le avevano detto i suoi compagni. Che al papà avevano sparato dei signori cattivi. E io le ho detto che, sì, era vero. E che per questo papà era salito da Gesù. Lei non ha più chiesto, ma continua ad aspettarlo. A chiedere perché sono sempre io che vado a prenderla il pomeriggio a scuola e non il papà, come gli altri bambini. Ci vorrà tempo".

Ci vorranno altre parole che non è semplice trovare e che ad Alessandra, una volta ogni due settimane, non suggerisce un assistente sociale, ma una psicologa dell'esercito, che lei va a trovare al ministero della Difesa.

È a lei che racconta le sue giornate, i suoi colloqui con Giorgia, i sogni e gli incubi che popolano le sue notti. "E' un sostegno fondamentale". È un luogo. È un numero di telefono da comporre quando se ne avverte il bisogno. Perché le vedove di guerra non hanno una rete autonoma, una struttura di volontari che aiuti nella condivisione. Vivono il lutto in clandestinità. Si incrociano, se capita, alla consegna di una medaglia al valore ("Simone ha ricevuto la "croce d'onore alla memoria" nel 2005, dall'allora capo di stato maggiore dell'Esercito Cecchi), di una targa commemorativa, in una camera ardente ("A me capitò di essere in quella di altri quattro elicotteristi a Viterbo"). Accolgono un'altra donna con cui condividere lo stesso dolore con un telegramma, raramente con una telefonata.

"Perché ogni volta significa riprecipitare nello stesso baratro". L'unica famiglia, oltre quella di sangue, resta quella che si è portata via un pezzo della loro vita. L'Esercito, l'Aviazione, la Marina, i Carabinieri. I loro veterani. Ufficiali, sottufficiali, che spesso non riescono a perdonarsi di non essere riusciti a riportare indietro tutti.

È un microcosmo che impasta affetti, dolore, sensi di colpa, oltre il quale c'è il buio e il chiacchiericcio malvagio di un Paese che sa essere feroce, perché ha perso il rispetto di se stesso. Alessandra ha cominciato ad avvertirlo presto. Voci che si gonfiano e che la umiliano. All'angolo di una strada, in un supermercato, nei pettegolezzi da bar. "Mò si lamenta. Ma non ce l'hanno mica mandato al marito. Lo ha fatto per i soldi". "Hai visto la casa? Ha pure il posto fisso... È proprio vero: peggio per chi se ne va, meglio per chi resta". "A un certo punto ho deciso che avrei cominciato a rispondere. Perché tacere avrebbe significato offendere la memoria di Simone. Ucciderlo un'altra volta. E così ho fatto. Così continuo a fare. L'ultima volta che mi è capitato di rispondere l'ho gridato: 'Per me, morire in guerra è come morire in fabbrica'. La vita di un operaio vale la vita di un soldato. Simone stava servendo questo Paese, come lo serve ogni mattina chi esce di casa che è ancora notte per andare a lavorare. Ho la fortuna - e so che è una fortuna - di non essere stata abbandonata dallo Stato, ma non voglio, non è giusto che debba vergognarmene o giustificarmi".

Alessandra non sa se "la cattiveria" (la chiama così) sia figlia del ripudio per una guerra lontana che nessuno ha dichiarato e che la politica continua a chiamare con un altro nome. O della feroce solitudine di chi è vivo, ma per lo Stato resta un invisibile: disoccupato, flessibile o pensionato che sia. Sa una cosa sola. "Che presto inaugurerò un'associazione di volontari che porterà il nome di Simone e comincerà a dare una mano a chi ha bisogno qui, a casa nostra, tra la nostra gente".

Alessandra avrà un motivo in più per ricordare, per rendere riconoscibile pubblicamente il suo lutto. Per provare a dare un senso al tricolore che aveva avvolto la bara di Simone nel suo ultimo viaggio e che lei, qualche settimana fa, ha restituito alla terra. Nel terzo anniversario della morte, Alessandra ha seppellito nuovamente Simone, trasferendolo nella cappella di famiglia che mai aveva immaginato dovesse far costruire. "C'è stata una cerimonia al cimitero. Ho preso la bandiera e ho coperto di nuovo mio marito. Con me, c'era chi mi vuole bene".

(20 febbraio 2008)
 


Kosovo indipendente, e poi?

 articolo tratto da http://www.osservatoriobalcani.org/

 
In mancanza d'opzioni migliori e senza aver trovato una soluzione originale alla lancinante questione dello statuto del Kosovo la comunità internazionale si è decisa a sostenere la nascita di un nuovo Stato. Un commento

Di Christophe Solioz*

Il 2 luglio 1990 i deputati albanesi del Kosovo proclamarono l'indipendenza e poi, nel settembre 1991, promossero un referendum clandestino. Infine, il 24 maggio del 1992, Ibrahim Rugova venne eletto alla testa della “Repubblica del Kosovo”. A parte l'Albania, nessun altro Stato riconobbe il Kosovo. La comunità internazionale finse d'ignorare la gravità della situazione, s'accontentò di mezze misure e, soprattutto, marginalizzò le tavole rotonde attorno alle quali si riunivano i protagonisti del difficile dialogo serbo-albanese.
Come si ricorda in modo appropriato in un libro di Pierre Dufour, con il quale allora eravamo impegnati nella promozione di un'opzione pacifica: in Kosovo “si è marciato sulla pace”. Una ventina d'anni dopo, dopo un doloroso cammino, con la Jugoslavia che non esiste più, è in una situazione geopolitica del tutto differente che il parlamento del Kosovo, il 17 febbraio 2008, proclama l'indipendenza del Kosovo amministrato dal 10 giugno 1999 dall'Onu, secondo quanto previsto dalla Risoluzione 1244.

Tanto il fallimento delle negoziazioni sul futuro del Kosovo - condotte inizialmente da Martti Ahtisaari e poi dalla troika Ue, Usa e Russia - da un parte, quanto l'assenza di una nuova risoluzione dell'Onu, illustrano non solo le sempre presenti divisioni tra serbi e albanesi in merito al Kosovo ma anche le molteplici divergenze in seno alla comunità internazionale. Malgrado gli sforzi della Slovenia che presiede questo semestre dell'Unione europea e il bisogno di Bruxelles di affermarsi quale attore rilevante sulla scena internazionale, l'Ue non è riuscita a parlare con una sola voce.

Per mancanza di opzioni migliori e per non essere riusciti a trovare una soluzione originale alla lancinante questione dello statuto del Kosovo la comunità internazionale, stanca di guerre, si è decisa a sostenere – chi a denti stretti, chi con un pò più di coinvolgimento – la nascita di questo nuovo Stato.

Il Kosovo indipendente dimostra forse il successo della comunità internazionale, la fine del protettorato, la realizzazione di una democratizzazione consolidata, di un'economia sostenibile e di uno stato sovrano? Niente di tutto ciò.

Dietro ai discorsi degli internazionali presenti in Kosovo, ripresi in parte con servilismo dalla nuova classe politica kosovara, vi è un Kosovo che non è multietnico non essendolo mai stato, ma piuttosto profondamente diviso. In effetti, come prima del 1999, la società kosovara rimane strutturata attorno alla divisione tra serbi e albanesi ed è caratterizzata dall'apartheid. E questo significa il fallimento della comunità internazionale. Mitrovica ne è il simbolo: i serbi vivono in Kosovo in ghetti e le altre comunità minoritarie non-albanesi non sono più privilegiate.

Sovranità? Proprio no: al protettorato Onu seguirà un'indipendenza fortemente supervisionata dall'Unione europea e il territorio rimane fortemente controllato dalle forze della Nato; dopo gli standard della missione delle Nazioni Unite (UNMIK) spetterà al “potere normativo” dell'Unione europea di imporre le sue logiche economiche, istituzionali e di sicurezza.

Domanda: la condizionalità europea sarà più efficace che i dispositivi messi in campo dall'UNMIK? Quest'ultima ha messo in campo una struttura imponente i cui risultati sono discutibili; come potrà fare meglio l'Unione europea con meno mezzi? Nel quadro della missione Onu l'Ue è già in carico del processo di privatizzazione; con risultati altalenanti. Bruxelles si impegna quindi in una missione ad alto rischio con una credibilità fortemente limitata.

E allora, quale la buona notizia? Davanti ad una crisi rilevante, la Serbia ha reagito in modo contenuto; è la fine degli anni di Milosevic e si è avviata una transizione (purtroppo a malo modo) per superare la logica del protettorato che ha mostrato i suoi limiti. Rimane che una volta divenuto realtà il sogno dell'indipendenza il risveglio rischia d'essere brusco per chi vuol fare del Kosovo un vero stato, e , per di più, che possa un giorno divenire membro dell'Unione europea. Ma dopotutto, perché no ... il Kosovo rimane uno stato virtuale del quale l'unica prospettiva di futuro è l'integrazione europea.

*Christophe Solioz è segretario generale del CEIS. Sta per pubblicare la prossima estate assieme a Wolfgang Petritsch, Dimitrij Rupel e Andrej Vrcon :"The Western Balkans in Europe: A Regional Membership Manifesto" (Nomos, 2008).
 


ROMA, MANIFESTAZIONE PER LA 194: SIAMO TUTTE SILVANA

Dopo quanto accaduto all’ospedale di Napoli sono in molte a non poter più accettare di stare a guardare. Si percepiscono stupore, rabbia e indignazione da parte di donne di tutte le età: le prime rievocano le battaglie condotte per la 194, le seconde, che l’hanno vissuta come dato acquisito, non intendono arretrare nella difesa dei propri diritti.

Tutte in piazza allora!
Venerdì 14 febbraio, ore 18.00. Dopo un mirabolante viaggio in taxi, raggiungiamo il corteo: ci infiliamo, e da subito si sente chiamare “Franca! Franca! Ciao! Che bello trovarti qui!” - “ Franca! Guarda! Questo cartello ce l’ho dagli anni ’70!” Femministe d’annata e ragazze giovani, mamme con bambini, mimose, e canti animano un corteo pacifico, che attraversa Roma chiedendo giustizia per la donna napoletana tratta alla stregua di una terrorista, e contro gli attacchi di questi giorni alla 194.
 
Sembra incredibile ma solo con un veloce tam tam di email ed sms sono arrivate un migliaio di donna per la questura, il doppio per gli organizzatori, per difendere con le unghie e i denti un diritto che in troppi vorrebbero restringere.
 
“La 194 non si tocca! La difenderemo con la lotta!” - “Tremate, le streghe son tornate” Slogan di battaglia conducono il corteo fino a largo Argentina, dove ad attendere le festose fattucchiere ci sono polizia e carabinieri in assetto da guerra: bardati come mazinga zeta bloccano la strada, non ci faranno arrivare al Campidoglio… “ Tutte sotto casa di Giuliano Ferraraaaa!!!!” urlano da un angolo. L’ilarità non appartiene alle forze dell’ordine, che senza andare per il sottile, caricano, agguantano due donne a caso dalla testa del corteo e le portano al commissariato. Franca, di fronte a questa scena parte, lancia in resta, verso gli uomini con i caschi calati. L’ho persa di vista, spintonata via dall’agguato. Da un lato, la osservo faccia a faccia con l’omone bardato mentre con risolutezza discute per far calmare gli animi. Non molla, è ferma, continua a contrattare. La raggiungono altri senatori, Brutti, De Petris, Pisa. La calma pare ristabilita, ma non si riesce a capire se le due saranno rilasciate a breve, così il corteo decide di trasformarsi in sit-in…
Giro tra i gruppetti, ascolto i commenti “Ma dove siamo finiti? Retate in corsia, fermi di polizia… Ma chi comanda in Italia?” Dopo un intenso lavoro diplomatico le due ragazze vengono rilasciate, e Franca suggella l’evento con due bei baci dell’’Ispettore-capo, e inizia a dirigere il deflusso delle manifestanti: “ Ragazzeee!!! Fate passare le auto, sul marciapiede! Forzaaaa, ubbidire alla polizia!!!” Sono in molte a guardarla con affetto e ammirazione, la aspettano al lato della strada “Grazie Franca, grazie!”

Si avvicina anche un agente di polizia, che lontano dai colleghi le dice “Senatrice, la ammiro da sempre!”

Le manifestanti si allontanano cantando e salutando la polizia: "ciao amore, ciao amoreeee ciao amore ciaoooo.....!!!!" ... Buon San Valentino!

Manifestazione finita, tutte a casa. Nell’allontanarsi le manifestanti- Silvane  tornano ad essere madri, lavoratrici, studenti: “Ho scongelato stamattina il ragù, un sughetto leggero leggero…” – “E domani cosa dico alla prof. Di storia se mi interroga?”

Attorno a Franca s’è fatto un gruppetto di donne, lei chiacchiera serena: “Negli anni Settanta si diceva che le donne avessero l’invidia del pene… Oggi invece, quelli che sono contro l’aborto sembra che abbiano l’invidia dell’utero… In testa a tutti Giuliano Ferrara. Ha l’invidia dell’utero.. Vorrebbe restare incinta e non abortire!” Risate felici. Manifestazione riuscita.

Dal sit-in agli scontri. Caos nella Capitale (Il Tempo)

A Roma il sit-in diventa corteo, tensione con la polizia (L'Unità)

In piazza 4 mila donne: "La legge 194 non si tocca (Repubblica)

Donne in piazza: "La 194 non si tocca" (La Sicilia)

Aborto, le donne difendono la 194 (La Stampa)


Dario Fo: che Vescovi orrendi ha la Curia di Bologna


L'aborto - da Sesso tanto per gradire di Franca Rame

L'aborto Dicevo, sono rimasta incinta... Vi chiederete come mai vi parli di un fatto così intimo. Dico subito che mi è molto difficile farlo... tutte le sere affronto questo argomento col cuore che mi batte, ma i tempi, come tutti ben sapete, sono brutti. In Italia, stanno per rimettere in discussione la legge che ha legalizzato l'aborto e credo che un esempio di vita vissuta sia più importante di mille discorsi ideologici. Quando ho scoperto di essere un'ignorantona incinta, sono andata via di testa. Non me l'aspettavo proprio. Ero spaventata. Non voglio dilungarmi qui, a raccontare le difficoltà in cui ci siamo trovati io e Dario... ma più io... perché ero io ad essere incinta. Immaturi, impreparati in tutti i sensi. Insomma, non certamente in grado di mettere al mondo un figlio. Se avessi avuto un bel rapporto di confidenza con mia madre - e qui dico: mamme, attenzione! - cosa avrei fatto? Sarei andata da lei: "Mamma, ho questo problema.". E sicuramente mia madre lo avrebbe risolto nel modo migliore. Invece ho avuto paura! È tremendo, lo so… ho avuto paura di parlare con mia madre! Perché in tante abbiamo, non più bambine, paura della mamma, del papà? E sì che lei mi amava... Ho avuto paura. Paura della reazione... del dolore troppo grande che le avrei dato... La vergogna, il disonore... lo scandalo... Incredibile, no? E non era, cento anni fa. Il tragico è che ancora oggi è così, per fortuna non per tutte, ma per molte. Inutile spendere parole. Ho abortito. Trauma e paura di quel giorno mi sono rimasti addosso per mesi. A quei tempi per l'aborto si finiva in carcere. E la fatica per mettere insieme le trentamila lire... Una cifra! Ricordo tutto come fosse oggi. È sera: ambulatorio squallido, al quinto piano di un caseggiato in periferia... senza ascensore... Un'infermiera e il medico. Le 30 mila lire le hanno volute prima. "Si spogli... si stenda... metta una gamba qui e l'altra qui... non gridi e non pianga se no la mando via!" "Non gridi." Perché "non gridi" pensavo col cuore che mi usciva. Poi ho capito: eravamo d'accordo che me lo avrebbe fatto con l'anestesia totale, era compresa nel prezzo... invece niente. Non ho osato aprire bocca. Troppo spesso noi donne non osiamo. Mentre mi operava, pensavo a mia madre. Mi sentivo così colpevole d'essere certa che non avrei più osato guardarla negli occhi. Quanto è durato? Un'eternità. Il dolore che provavo sentivo di meritarmelo tutto. Anche questo "accettare" senza fiatare faceva parte della mia ignoranza... il peccato mortale da espiare. "Ho finito. Può andare. Buonanotte." Scendendo i cinque piani ero certa che sarei caduta a terra e che sarei morta lì, sulle scale. Non sapevo cosa mi avesse fatto più male, se l'intervento o l'umiliazione per come ero stata trattata... come fossi una prostituta. Questo è il ricordo più brutto della mia vita. È chiaro che in una situazione simile è difficile vivere la sessualità con gioia. Gli uomini, e lo dico senza arroganza, devono smetterla di discutere, dissertare, sentenziare sugli aborti. L'aborto è un'esperienza tragica, dolorosa per chiunque. Uomini, amate le vostre donne. Non ingravidatele per distrazione, inesperienza, ubriachezza ecc... E soprattutto non pensate, come tante volte si sente dire, che per noi donne abortire sia come farsi una "messimpiega..." Nossignori! È un momento terribile. Se invece di litigare sul vietarlo o meno, ci si preoccupasse di una vera, profonda educazione sessuale, prevenzione, contraccettivi, forse l'aborto cesserebbe di esistere... e non ci sarebbero più i neonati abbandonati o sbattuti nei cassonetti dell’immondizia a morire. Noi donne tutte, siamo contro l'aborto. Vogliamo avere i nostri bambini quando è il giusto momento. L'aborto è un'esperienza tragica, dolorosa... per tutte. Il Papa non lo sa, ma noi donne sì.


Giù le mani dalla 194!

Uno dei primi temi di questa campagna elettorale è l’interruzione di gravidanza, descritta con toni allarmanti: richiami alla sacralità della vita, minestre riscaldate sui peccati mortali e, “novità”, moratorie anti-aborto.
La donna dipinta dai politici “fans d’Oltretevere” è trattata alla stregua di un’assassina, per mezzo dell’infelice paragone tra pena di morte e aborto.  E’ stato addirittura scomodato un consesso di ginecologi per la produzione di un documento che paragona la 194 a Erode: la legge non consentirebbe le cure dei nati prematuri vivi. Falso. Come ampiamente spiegato dall’ex ministro Veronesi. “non capisco di cosa si voglia discutere. Si sostiene che quando un bambino nasce prematuro bisogna rianimarlo: ma lo sappiamo benissimo! E’ ovvio che un medico debba soccorrere un neonato prematuro. Se sta morendo lo aiuterà a morire, se ce la fa a sopravvivere lo deve aiutare a vivere. Mi sembra implicito. Piuttosto quello che mi sconcerta è l’accostamento che si fa con l’aborto. L’aborto è altra cosa. Aborto significa un’interruzione di gravidanza in cui la madre decide che non vuole far crescere il feto. Nell’aborto il bambino nasce morto. Vogliono rianimare un aborto?»

Anche la televisione, in questa campagna di informazione, ha già preso la sua posizione: Porta a Porta su Lourdes ore 21.00, telegiornali infarciti di notizie sui parti prematuri, e ampio spazio ai richiami papali.

Con tutte le difficoltà di questo Paese, davvero la questione dell’aborto è l’unico problema da risolvere? Aumentano vertiginosamente le violenze contro le donne, i problemi sociali vengono risolti da esercito e polizia; criminalità e droga si diffondono tra i minorenni, ma le trombe del Vaticano insistono: no all’aborto che cancella una vita; come se i reati che accadono tutti i giorni fossero meno gravi o lesivi della vita umana! 

Dopo vent’anni di lotte abbiamo ottenuto la legge 194, che funziona nel suo intento fondamentale: dal 1982, il ricorso all'aborto in Italia è diminuito del 45 per cento. In Italia si praticano annualmente 9,9 aborti ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni, grazie ad questa legge che pone al centro il diritto alla vita e alla salute della donna.
L’aborto clandestino, grazie alla 194, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, si è ridotto oramai a 20/25 mila casi l’anno e questi avvengono per lo più tra donne immigrate o residenti nel Sud, proprio dove si concentrano i casi di obiezione di coscienza. Esistono infatti intere zone della Penisola dove abortire è una vera e propria impresa. In Italia il 57,8% dei ginecologi, il 45,7% degli anestesisti e il 38,1% del personale non medico pratica l’obiezione di coscienza (dati 2003), fino ad arrivare alla paradossale “obiezione di struttura”: interi reparti rifiutano di eseguire aborti per questioni etiche, negando così il diritto di un cittadino che chiede ad una struttura pubblica l'applicazione di una legge vigente.

Sono molte le donne costrette a girare da un ospedale all’altro,da Sud a Nord, da regioni di centro-destra a regione di centro-sinistra, con la loro angoscia, per trovare un medico non obiettore che garantisca un diritto sancito da una legge dello Stato.

Questo, la tv non lo dice.

L’aborto non è come fare una “messimpiega”, è paura, incertezza, sofferenza, una cicatrice che rimane nel cuore tutta la vita. Ma dev’essere un diritto garantito per consentire maternità consapevoli e vite dignitose di bambini indesiderati, che ancora troppo spesso finiscono abbandonati nei cassonetti dell’immondizia.

Chi abortisce è soprattutto giovane, immigrata, spesso minorenne, casalinga, poco istruita e povera. Sarebbe indispensabile garantire alle donne la giusta informazione, metodi anticoncezionali ed  il ricorso a strutture sanitarie pubbliche.
Cari politici in campagna elettorale, abbiate il coraggio di ripartire da qui.

Giù le mani dalla 194!
 


Andare da soli... Di Pancho Pardi

Andare da soli è ormai il massimo della modernità. Basta con le ammucchiate, con le coalizioni bolse e impotenti, avanti con i gruppi asciutti e incisivi.
C’è per la verità un’implicita contraddizione, perché in nome dell’andare da soli poi si vorrebbe arrivare a una riduzione estrema dei partiti se non addirittura a un quasi bipartitismo. Se ne deduce un’alternativa secca: o l’annichilimento dei troppo piccoli, scorie da eliminare nella democrazia moderna, o il loro scioglimento dentro alcuni, pochi, corpi più grandi. Nel primo caso il destino è l’estinzione forzosa, nel secondo l’ipocrita dissimulazione di nuove ammucchiate non più dentro le coalizioni ma dentro i nuovi partiti aggreganti. E lasciamo qui da parte un conto che in caso di sconfitta del centrosinistra andrà pure fatto: quanto costerà al PD l’assenza dei voti radicali e socialisti? Senza quelli di uno solo dei due gruppi l’ultima volta si sarebbe perso.
Ma smettiamo di fare i difficili e accettiamo il gioco. Sospendiamo il giudizio sull’esito e andiamo a vedere che cosa il nuovo partito che va da solo si ripromette di rappresentare.
Può essere interessante considerare non tanto ciò che il PD dice si sé stesso ma quel che un autorevole sostenitore indipendente si aspetta da quel partito. Nell’ultimo articolo domenicale, Scalfari mette nell’ordine: primato dell’economia con liberalizzazioni e redistribuzione sociale; necessità di collaborazione tra maggioranza e opposizione per le riforme istituzionali (legge elettorale, regolamenti parlamentari, finanziamento pubblico, ordinamento giudiziario); temi eticamente sensibili su cui far prevalere il punto di vista laico.
Dato e non concesso che il PD sappia e voglia mantenere la parola sui tre punti (sulla laicità ci sono gravi dubbi) si deve registrare soprattutto ciò che vi manca. Non è la prima volta che nelle sintesi programmatiche di Scalfari è assente qualsiasi riferimento a tutti i provvedimenti necessari per cancellare l’anomalia italiana: conflitto d’interessi, sistema televisivo, leggi ad personam. Come intendere la mancanza: rinuncia e rassegnazione? O semplice realismo? Basato sulla considerazione implicita: se le due parti si dovranno accordare su legge elettorale e riforme istituzionali è pensabile che una delle due voglia e possa eliminare l’anomalia rappresentata dal capo dell’altra?
Ma se è così, la politica italiana oggi è sospesa tra due straordinarie alternative che illustrano alla perfezione la sua asimmetria. Se vince il centrodestra Berlusconi governerà per cinque anni rafforzato nella sua anomalia ormai definitivamente intoccabile, e nel corso della legislatura, se Napolitano dovesse per malaugurato caso non portare a termine il settennato, potrà anche farsi eleggere alla presidenza della repubblica. Se invece vince il centrosinistra il vincitore offrirà al perdente la consolazione di un accordo su legge elettorale e riforme istituzionali e per convincerlo a questo passo così doloroso eviterà di toccare la sua anomalia, lasciando intatte tutte le sue prerogative illegittime.
Su questo snodo Veltroni interviene da tempo con un insistente schema retorico: è ora di smettere con l’odio reciproco. Qui la falsificazione è profonda: non è necessario odiare per riconoscere il rilievo ingombrante dell’anomalia italiana; né volerla eliminare significa odiare chi ne è il soggetto. Veltroni riduce una condizione oggettiva al rango di fatto morale. Peggio ancora: chi vuole una normale legge sul conflitto d’interessi è additato, in quanto portatore di odio, come soggetto degno di riprovazione morale. Se ne ricava una conclusione anch’essa asimmetrica: il berlusconismo risulta intoccabile ed eterno, l’antiberlusconismo deve invece finire subito. Dalla “fine dell’odio” il centrodestra ci guadagna tutto, il centrosinistra niente. Salvo la patente di bontà.
La situazione del centrosinistra è resa più critica dal fatto che anche la Cosa Rossa ha manifestato sempre e manifesta ancora oggi scarso interesse per la risoluzione dell’anomalia italiana. Mentre il PD andrà da solo per essere libero di gestire una politica moderata, neocentrista e poco laica (oltre all’intesa col centrodestra sulle riforme istituzionali), la Cosa Rossa andrà da sola per gestire una politica di sinistra in stretto rapporto con gli interessi del lavoro dipendente. Benissimo. Ma a questo punto sono obbligate due considerazioni. La prima: sia il PD che la Cosa Rossa si autoeleggono secondo lo schema coatto delle liste bloccate, si riproducono insomma come perfetta oligarchia. Di più: sulla base del loro potere oligarchico escludono gli indesiderati dalla competizione elettorale. La seconda: chi vuole una politica diversa dalle due appena dette è condannato al silenzio. Ma a questo punto i cittadini che vogliono la trasparenza del potere, la distanza tra politica e affari, la separazione tra interesse pubblico e vantaggi privati, l’incompatibilità tra cariche elettive e incarichi pubblici, l’autentica libertà d’informazione, la vera autonomia della magistratura, la fine della politica come mestiere privilegiato a vita, hanno anch’essi il diritto di andare da soli. Non è detto che gli riesca al primo colpo ma d’ora in poi se tenteranno la via di una rappresentanza politica indipendente non potranno essere più bloccati dal ricatto classico: voi fate perdere voti e quindi condannate la coalizione alla sconfitta. Ai saccenti che faranno questa predica si potrà sempre rispondere: siete voi che avete annichilito la coalizione e i nostri voti li avete già persi da tempo.


FRANCA RAME: MI UNISCO AD APPELLO ASSOCIAZIONE PORTABORSE A CANDIDARI PREMIER: BASTA COLLABORATORI IN NERO

 Cogliendo spunto dalla lettera che l’associazione portaborse ha inviato ai due candidati premier Veltroni e Berlusconi per chiedere che tra principi di candidabilità nelle liste elettorali vi sia anche l’obbligo di non avere collaboratori in nero, la Senatrice Franca Rame ha voluto formulare la sua richiesta ai due leader: “Nella mia esperienza da Senatrice ho visto un sopruso tra i  più vergognosi: parlamentari, di entrambi gli schieramenti, che in Aula difendono i diritti dei lavoratori e condannano il lavoro sommerso, hanno loro stessi negli uffici collaboratori che intascano una miseria e non hanno alcun tipo di contratto né garanzia. E’ abominevole che questo accada, mi aggiungo quindi all’appello dei collaboratori parlamentari, affinché questo malcostume abbia fine.”

La senatrice Rame, già firmataria di un disegno di legge per l’emersione del nero nelle Istituzioni, così conclude: “ Ho presentato qualche tempo fa un disegno di legge per mettere fine a questa pratica. Ma non è di per sé sconvolgente? Serve una legge per mettere in riga in i parlamentari? Non dovrebbe essere il buonsenso a spingere i rappresentati dei cittadini a non avere collaboratori in nero?”
 
Ecco le due lettere, che l'Associazione Portaborse ha voluto inviare ai due candidati Premier:
 
Gentilissimo Onorevole Berlusconi,
la nostra Associazione è per sua natura apartitica,  pertanto questo nostro appello è stato rivolto anche all’On. Veltroni.
La posizione dei collaboratori parlamentari non ha ancora trovato una soluzione.
Chiediamo che ci venga riconosciuta la natura dipendente del rapporto di lavoro, unica tipologia di contratto in grado di garantire i diritti essenziali per  chi svolge questo particolare lavoro quale sua unica ed esclusiva occupazione, già pesantemente penalizzato dalla precarietà legata alla durata delle Legislature .
Sappiamo che state lavorando alla determinazione dei criteri per l’accettazione delle candidature. Appurato che a livello istituzionale abbiamo ricevuto un chiaro segnale di
indifferenza (nonostante la presentazione del DDL sulla regolamentazione del rapporto, che peraltro non ci tutela affatto!) siamo a chiederLe a viva voce di voler valutare l’ipotesi di imporre ai futuri eletti l’utilizzo del rimborso forfetario per spese di segreteria, percepito mensilmente (€ 4190 per la Camera e € 4.678,36 per il
Senato), esclusivamente per pagare i propri collaboratori con un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, gestito dal Gruppo di appartenenza.
Darebbe lavoro a più persone, con l’emersione definitiva del sommerso dalle Istituzioni, a tutt’oggi ancora presente, ci riconoscerebbe la dignità di lavoratori al
pari di tutte le altre categorie!!
Avrebbe l’opportunità di dare un segnale importante agli elettori, di lealtà, di coerenza e di risposta alla forte richiesta da parte dell’opinione pubblica di rispetto di un codice di etica politica. Potrebbe così garantire la trasparenza nell’utilizzo di somme rilevanti, sulle quali  non è mai stato chiesto a nessun parlamentare di renderne conto e la cui destinazione, eventualmente diversa dalla retribuzione del collaboratore, non trova alcuna giustificazione se non negli interessi strettamente personali e non istituzionali o politici. Crediamo che l’indennità e i vari rimborsi a cui hanno diritto siano più che sufficienti a garantire lo svolgimento del mandato, e noi la realtà la conosciamo bene!
Ringraziando per l’attenzione e fiduciosi di un Suo riscontro, salutiamo con cordialità,
Associazione Collaboratori Parlamentari
Gentilissimo on. Veltroni,

la nostra associazione si batte da anni per il rispetto dei diritti dei collaboratori parlamentari. Per una maggiore efficacia della nostra azione abbiamo scelto di non far riferimento a nessun partito. Negli ultimi mesi, grazie anche ad inchieste televisive come quella di Report, si è parlato molto della natura non solo precaria ma del tutto
illegale dell’attività svolta dagli addetti alle segreterie di deputati e senatori. Al grande clamore sui media però non è seguita nessuna decisione concreta.

Sappiamo che nel Partito Democratico state lavorando alla realizzazione delle liste elettorali per le elezioni del 13 aprile, liste che saranno compilate con criteri innovativi:
tra gli attuali deputati saranno candidati solo coloro che hanno raggiunto un limitato numero di legislature, sarà dato spazio a rappresentanti del mondo del lavoro e della
cultura così come sarà garantita l’alternanza uomo-donna. Le chiediamo che tra questi “criteri di candidabilità” ne venisse aggiunto uno: il candidato nelle liste del Pd si deve impegnare formalmente a spendere, una volta eletto, il rimborso mensile forfetario per il rapporto tra eletto e elettore (pari a 4190 € per la Camera e a 4.678,36 € per il Senato) esclusivamente per pagare i propri collaboratori con un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, gestito dal Gruppo di appartenenza. Una
scelta del genere darebbe una forte caratterizzazione etica al nascente Pd, permetterebbe l’emersione del lavoro sommerso nelle Istituzioni e riconoscerebbe ai collaboratori parlamentari la dignità di lavoratori al pari di tutte le altre categorie. Dareste anche un segnale importante agli elettori di lealtà, di coerenza e di risposta alla forte richiesta da parte dell’opinione pubblica di rispetto di un codice di etica politica. Verrebbe garantita la trasparenza nell’utilizzo di somme rilevanti, sulle quali
non è mai stato chiesto a nessun parlamentare di renderne conto e la cui destinazione, eventualmente diversa dalla retribuzione del collaboratore, non trova alcuna giustificazione.

Ringraziando per l’attenzione e fiduciosi di un suo riscontro, salutiamo con cordialità
   Associazione Collaboratori  Parlamentari


A Franca da Luigi- TELEFONARE ALLA RAI

Cara Franca. ho segnalato la Tua lettera ed ho detto che è "questo il genere di notizie" che vogliamo sentire dai TG della televisione pubblica. Ed ho sottolineato che avremmo volute sentire parlare anche della lettera delle Tue dimissioni. Scusa il ritardo nella risposta ma ho installato una nuova versione del browser che purtroppo ha qualche problema e si inceppa continuamente. PS: Ma fino a quando dovremmo subire questa situazione ?. Tu hai scritto una lettera di dimissioni che deve se non altro far riflettere, far pensare. Innescare un paragone con gli altri parlamenti europei. Chi ne ha parlato ?. Che mi risulta solo Corrado Augias e per poco tempo (dicendo anche che forse Tu non sai adeguarti alla politica). Hai visto ieri sera ad Anno Zero: un ex ministro s’è permessa di fare "I BOCCHEGGI" ad un senatore - a Furio Colombo - mentre parlava. Ridendo come una cretina. Ma possiamo permettere questo ? E oggi qualcuno ne ha parlato ? Forse il Manifesto. Sicuramente NON la RAI. Per che cosa ?. Per non fare uno sfavore al futuro padrone o per non "rovinare il clima della campagna elettorale" ? O perché in RAI oggi chi vorrebbe dire non ne ha il potere ? Ma i cittadini non devono essere informati ?: non devono essere Loro a dare un giudizio ? Qs sono i nr di telefono dei Tg RAI: RAI1: 06/3317 3744 oppure 06 3317 6184 RAI2: 06/3317 3617 RAI3: 06/3317 6362 Telefoniamo: lo suggerisce anche la pubblicità per pagare il canone. IO HO DETTO QUESTA FRASE, che SE VOLETE POTETE RPETERE: "Io sono un abbonato e seguendo il vostro consiglio che possiamo chiedere anche noi i nostri programmi volevo segnalare una lettera molto importante che Franca Rame ha scritto per Prodi che è sul suo sito. Vorremmo che fosse dato ascolto a questa lettera, e magari che fosse anche letta, come del resto bisognava dare anche notizia delle Sue dimissioni, cosa che non ci risulta che sia stata data." PS: ho telefonato al TG1, al nr indicato precedentemente. Ho trovato una persona squisita. Mi ha dato un diverso nr che ho indicato. Telefonate, perché c'è gente in RAI che sta aspettando queste telefonate. E PERCHE' LO DOBBIAMO A FRANCA PER QUELLO CHE HA FATTO! PS: per chi che non abbia visto la trasmissione e vuole "deliziarsi": http://www.annozero.rai.it/R2_HPprogramma/0,,1067115,00.html dal tempo 41:00 a 41:50, attenzione alle sequenze al tempo 41:45. NB: Il presente post è ottenuto come collage di una serie di post riportati in modo cronologico su questo blog, rivisto per facilitarne e velocizzarne la consultazione.


AL PRESIDENTE PRODI DA FRANCA RAME

 guarda qui la manchette di Repubblica!8 FEBBRAIO ROMA Gentile presidente Prodi, mi scusi se la disturbo, ma non posso farne a meno: ho una domanda da porLe che riguarda un grosso problema morale a cui La prego cortesemente di rispondere. Sono giorni che con grande malessere e malinconia, mi ritrovo a ragionare da sola sul susseguirsi degli avvenimenti, cercando di ricostruire come si sia arrivati a questa catastrofica situazione. Per capirci qualcosa dobbiamo partire dall’inizio della storia, rivederci i passi salienti della XV legislatura. Ricordo in quanti siamo andati alle urne sentendo il dovere di allontanare il rischio di un nuovo governo Berlusconi, e con lui tutte le sue leggi vergogna e il rosario di sciagure che ci ha imposto a proprio vantaggio. RitenendoLa persona onesta leale e capace, gli elettori confidavano nella realizzazione di almeno una buona parte delle 280 pagine del programma dell’Unione, dove già a pagina 18 si parla di conflitto d’interessi. Questa non era una vaga promessa ma un impegno sacrosanto che si assumeva coi Suoi elettori. Un impegno ribadito con forza subito dopo la vittoria elettorale, e prima di vestire la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne è passato del tempo, quasi due anni, ma di questo programma solo una parte ha visto la luce. Oltretutto, sui problemi più scottanti non si è neppure iniziato un dibattito, anzi si sono accantonati come si fa con i quesiti fastidiosi. Come mai? Da cosa è stato causato questo “accantonamento” dei molti problemi? Io mi rifiuto assolutamente di ritenerLa un giocoliere da Porta a Porta, che fa contratti con gli italiani e poi se la ride alle loro spalle. Temo piuttosto che Lei non abbia potuto tener fede al Suo programma perché a qualcuno della coalizione di sinistra o, meglio, sinistra-centrodestra non andava bene. Il Suo torto Presidente, mi permetta l’ardire e mi scusi, è stato quello di non denunciare subito, pubblicamente, le difficoltà in cui si veniva a trovare, a costo di recarsi in televisione e, a reti unificate, svelare la situazione, con un discorso tipo questo: “Mi rivolgo a voi, cittadini democratici che mi avete eletto vostro Presidente certi che avrei mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale. Promesse che era mia profonda intenzione attuare, ma purtroppo mi è stato impedito. Sto a Palazzo Chigi, sì, ma in una condizione che ben si potrebbe definire di “libertà limitata”. I miei custodi sono coloro che non gradiscono cambiamenti sostanziali. Essi anelano piuttosto a poltrone, privilegi e affari. Ecco i nomi: …..” e doveva fare veramente i nomi, caro Presidente! Credo che Lei, Presidente, più di una volta abbia pensato veramente di dar fiato a questa denuncia, ma il senso di responsabilità e il timore per un futuro negativo per il Paese glieLo hanno impedito. Però a questo punto, Lei non se ne può andare con un indice di gradimento che non si merita, come non merita che si provino sfiducia e senso d’ironia verso la Sua persona. Quante volte è stato insultato, disprezzato e profondamente offeso? No, non può andarsene così, tra i lazzi di tanti rozzi-cafoni che ahimè ci accompagneranno negli anni futuri. La rispetto troppo per accettarlo. Caro Presidente, lei ha il dovere, l’obbligo di riacquistare la credibilità e la considerazione che si merita. C’è una sola strada da percorrere, anche se faticosa. Ma lo deve al Paese: fuori i nomi di chi Le ha impedito di portare a termine gli obiettivi prefissati e soprattutto le subdole scantonate ricattatorie con le quali è stato indotto ad affossare le parti essenziali del programma. E’ indispensabile che i Suoi elettori siano consci d’ogni pressione alla quale ha dovuto adattarsi e cedere. Dobbiamo sapere quali sono gli onorevoli che, sia in Parlamento che al Governo hanno materialmente fatto opposizione alla realizzazione di misure fondamentali per il cambiamento del nostro Paese. È un diritto che ci spetta. E Lei, professor Prodi, questo atto ce lo deve. Non solo per onorare la nostra lealtà ma anche la Sua. Il suo silenzio è sicuramente un gesto di fairplay nei confronti dei suoi avversari, ma in questo modo ci lascia nelle loro mani! Chi Le ha imposto quel numero spropositato di sottosegretari, ministri con portafoglio e senza portafoglio? Chi si è opposto all’abbattimento dei costi della politica? Chi ha bloccato, nei fatti, la più severa applicazione della riforma in materia di sicurezza sul lavoro? Chi sono le persone che hanno vanificato la realizzazione dei DICO? Chi ha voluto la vergogna dell’indulto di tre anni? Chi le ha tirato la giacchetta per tentare di portare a termine una legge-bavaglio sulle intercettazioni? Chi ha voluto il commissario De Gennaro a Napoli, il super-poliziotto di buona memoria alcuna in materia di gestione dei rifiuti? Chi si è messo di traverso per bloccare la tassazione delle rendite finanziarie? Chi ha impedito un serio confronto sulle missioni all’estero? E sulla base di Vicenza? Chi Le ha fatto ingoiare l’accettazione di quel impegno capestro? Tutte scelte soltanto Sue? Ma chi ci può credere?! Come diceva Socrate: “Solo rovesciando la tunica lisa si può leggere con chiarezza la storia di chi l’indossava.” Quindi sarebbe davvero utile che Lei spiegasse pubblicamente a tutti i cittadini italiani le vere ragioni che hanno portato prima al giornaliero logoramento e poi alla caduta del Governo da Lei presieduto. Non può tacere i motivi veri della crisi, altrimenti permetterebbe che coloro che hanno deliberatamente affossato il Suo Esecutivo, possano tranquillamente continuare ad abbattere qualsiasi tentativo serio di modificare la situazione di grave deterioramento, politico, economico e sociale, del nostro Paese. E non mi riferisco soltanto a responsabilità dell’opposizione ben organizzata (questo è il mestiere del polo conservatore!) ma piuttosto al tradimento messo in atto da elementi di governo in combutta con ambigui faccendieri. Se non si assume, una volta per tutte, il coraggio politico di fare chiarezza, ci troveremo come sempre a roteare nel cerchio dell’ignavia, dal quale non si uscirà mai. Le avvisaglie di questo torbido clima, che alla fine ci ha portato alla débâcle, ci erano apparse palesi fin dall’inizio di questa Legislatura: dal primo giorno in Senato, quando dovevamo eleggerne il Presidente. Si ricorda le tre votazioni andate a vuoto? Tre votazioni! Per tre volte i Suoi senatori, sbagliavano il nome o il cognome: Franco Marini (il prescelto) con Francesco Marini o Giulio Marini o Ignazio Marino, con l’aggiunta di schede bianche. Insomma, i numeri non c’erano. La seduta è finita a tarda notte senza nulla di fatto. Quando “novella senatrice” chiedevo: “Ma che sta succedendo? Come può accadere che sbaglino? Non è difficile!” mi si rispondeva: “Qualcuno della nostra coalizione manda messaggi: richieste rivolte al Presidente del Consiglio. Vogliono qualcosa, stanno bussando e attendono risposta come a tre sette! Finché non l’avranno ottenuta, niente Presidente!” “Ho capito! – ho esclamato – E’ un gioco al ricatto! Mio Dio, ma dove sono capitata?! E’ questa la politica?” Se tanto mi dà tanto mi domandavo: quante telefonate in codice avrà ricevuto, Presidente, e pressioni, e messaggi: “Io do, tu mi dai… noi ti appoggiamo, tu ci favorisci. Quanti sottosegretari sei disposto a sistemarci? Quanti ministeri? Quali favori?” Insomma, la solita danza da pochade con porte, portoni e portali che si aprono e chiudono in tempo e contrattempo. Temo che tutto quanto è successo sotto i miei occhi da neofita stupita, in questi 23 mesi si sia ripetuto a tormentone: “O mi favorisci o mi astengo e tu inciampi e vai giù piatto a terra”. La partita è chiusa, d’accordo… E che facciamo? Ce ne andiamo mesti per non aver reagito con solerzia all’andazzo del prender tempo nella speranza d’arrangiare ogni situazione? Io non credo si possa rimontare da sotterrati. So che è duro, ma questo è il tempo di non accettare supinamente, senza un moto di orgoglio, d’esser gettati nella discarica dei refuses politici e soprattutto è ora di denunciare le responsabilità di chi all’interno della coalizione ha remato contro, trascinando il Paese a questa rovina, evitando di incolpare la malasorte che sghignazza sempre nell’angolo basso della storia. Ora è “solo” Presidente. E’ il Suo momento. Lei deve finalmente parlare. Deve dare una risposta decisa alla domanda che in tanti Le poniamo: “Perché non ha reagito alle imposizioni ricattatorie da subito… perché non si è impegnato con tutte le sue forze e sul conflitto d’interessi e sulle leggi vergogna?” Attendiamo in TANTI una risposta. Con stima Franca Rame
 


Contraddizioni in seno ai teodem

 
di Ida Dominijanni - Il Manifesto

Era solo pochi mesi fa, quando il coro transatlantico teodem predicava che la civiltà di un popolo si misura dal rapporto con le donne: si trattava di combattere l'Islam fingendosi femministissimi paladini delle donne velate. Non ci avevamo creduto, e a buon vedere. Oggi, Ratzinger intona e il coro teodem esegue: «La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita». Anche contro o a prescindere dalle donne? Sì, perché le donne sono, in atto o in potenza, delle assassine. Era solo pochi mesi fa, e anche pochi giorni, quando papa Ratzinger, all'università di Ratisbona come nel discorso mancato alla Sapienza di Roma, accusava la ragione illuminista moderna di avere perso la luce della fede, e di avere spalancato le porte all'irrazionalismo relativista postmoderno, abitato, fra gli altri, dalle femministe che distinguono la sessualità dalla procreazione e talvolta perfino dal genere. Oggi il refrain cambia, e pur di riunificare sesso, procreazione e matrimonio il coro teodem (si veda l'intervista del Foglio di domenica al cardinal Caffarra) invoca la ragione illuminista moderna contro il «collasso ontologico» postmoderno che ha spalancato le porte alla cultura abortista. E agita il diritto individualista moderno, che dovrebbe riconoscere al feto lo stesso statuto di un individuo adulto, contro l'etica relazionale femminista che vede nella gestazione un rapporto inscindibile fra il feto e la madre e lascia a quest'ultima la parola decisiva sulla sua prosecuzione.
Era solo pochi anni fa, quando il coro vaticano, teocon e teodem passò come un carrarmato sui desideri procreativi femminili e maschili, picchettandoli di divieti nel nome della salvaguardia della vita dell'embrione e alla faccia della salvaguardia della salute della donna: c'è vita e vita evidentemente, e quando a gerarchizzarla è il Vaticano non si rischia alcun collasso ontologico. Si rischia in compenso il collasso giuridico, com'è chiaro dalle ultime sparate congiunte di alcuni ginecologi romani e di papa Ratzinger, volte a fare rumorosamente nebbia dove la 194 faceva sobriamente luce (si veda l'articolo di Carlo Flamigni che pubblichiamo oggi), pur di continuare a battere dove il dente duole: la parola decisiva della madre (nonché del padre) sulla vita in potenza del feto.
Potremmo continuare con le contraddizioni in seno ai teodem. Ci fermiamo. C'è in questa loro campagna di appropriazione violenta della parola sulla procreazione e delle norme di classificazione della vita qualcosa di osceno e di macabro, che più che l'ingaggio della risposta colpo su colpo domanda l'intervallo silenzioso della presa di distanza. Qui la contraddizione è dei media (si veda il Corsera di ieri), che ogni volta cascano nella trappola e aggiungono al danno la beffa, prendendosela con le donne che oggi non parlano mentre negli anni Settanta sì che si facevano sentire. Come se altra parola femminile non potesse essere conosciuta e riconosciuta, se non quella che ai tempi del dibattito sulla 194 si esprimeva in cortei, manifestazioni, rivendicazioni.
Anche allora non c'era solo quella: dietro c'era il lavoro dell'autocoscienza, che seppe fare dell'esperienza una fonte di sapere, del personale una questione politica, del rapporto sessuale un continente da esplorare, delle verità scientifiche un campo da interrogare, di un primato naturale - quello sulla maternità e la messa al mondo della vita - un oggetto di ragione, di una relazione primaria - quella fra madre e feto - una base di diritto. Fra critica della ragione moderna e critica dei collassi postmoderni, quella parola femminile è stata seminale, ha fatto cultura, governa la vita con maggiore saggezza della governance biopolitica che semina dappertutto guerra e distruzione. E' contro la sua pacifica forza, non contro la sua debolezza, contro il suo dire, non contro il suo tacere, che il coro teodem si accanisce e si dibatte, a costo di stonature che sfiorano il ridicolo dietro i paludamenti sacri e profani che ostentano.
La campagna elettorale che si apre, anzi s'è già aperta o non s'è mai chiusa, non farà che aumentare i decibel: è quando la politica ha poco o niente da dire che la parola passa ai proclami etici improvvisati, ai catechismi morali comandati, alle verità scientifiche usate come clave. Sta alla politica decidere se è in queste parole, o nella parola femminile, che vuole trovare una risorsa di senso.


Roberto Saviano e "L'anima perduta nella monnezza di Napoli"

Un'analisi disperata della situazione campana. Da "La Repubblica" del 4 febbraio 2008
 
- 04/02/2008
 
Analisi disperata della situazione campana: eppure Napoli siamo noi e a noi tutti spetta liberarci dalla monnezza fisica e metaforica che ci ammorba il corpo e l’anima. Da la Repubblica, 4 febbraio 2008 ("L'anima perduta nella monnezza di Napoli" articolo di Roberto Saviano, ripreso dal sito Eddyburg Data di pubblicazione: 04.02.2008 ).
 
Niente è cambiato. Si è tentato – tardi, tardissimo – ma non si è risolto nulla. L’esercito, i volontari, la pazienza e le proteste. Ma tutto versa nello stesso stato di prima. O quasi. Il centro e le piazze vengono salvati, si cerca di non farli soffocare dai sacchetti. E nella scelta dei luoghi in cui raccoglierli emerge la differenza fra le zone e le città. Zone dove conviene pulire per evitare che turisti e telecamere arrivino facilmente, strade dove vivono professionisti e assessori. E invece altre dove la spazzatura può continuare ad accumularsi. Tanto lì la monnezza non va in prima pagina. I paesi divengono discariche di fatto. Tutta la provincia è un’ininterrotta distesa di sacchetti. E la rabbia aumenta. Spazzatura ai lati delle strade, o che si gonfia in collinette multicolori fuori dai portoni, dove sono apparse scritte come "non depositare qui sennò non si riesce più a bussare". Niente è cambiato se non l’attenzione. Dalla prima pagina alle cronache locali.
Lentamente tutto questo rischia di divenire abituale, ordinario: la solita monnezza, parte del folklore napoletano, quotidiana come lo scippo, il lungomare e la nostalgia per Maradona. E invece qui è tragedia. Spazzatura ovunque, discariche satolle, gonfie, marce. Camion stracolmi, in fila. Proteste. E poi dibattiti, indagini, dimissioni, e colpevoli, ecologisti, camorristi, politici, esperti. Maggioranze e opposizioni e cadute di governo. Ma la monnezza resiste a tutto. E continua ad aumentare. La spostano dal centro alla periferia, la spediscono fuori città, qualcosa fuori regione. Però non basta mai, perché quella si riforma, si accumula di nuovo. Tutti pronti a parlare, in un’orchestra che emette suoni talmente confusi da divenire indecifrabili come il silenzio.
Certo risulta difficile credere che se Roma, Firenze, Milano o Venezia si fossero trovate in una situazione simile avrebbero continuato a far marcire i sacchetti nelle loro piazze, a tenersi strade bordate di pannolini e bucce di banana, a lasciar invadere l’aria dall’odore putrescente degli scarti di pesce. Difficile immaginare che in una di queste città la notte girino camion che gettano calce sopra ai cumuli per evitare che le infezioni dilaghino e soprattutto che vengano incendiati.
 
Il rinascimento napoletano finisce così, coperto di calce. Si sbandierava la rivincita della cultura, ma sotto il tappeto delle mostre, dei convegni e delle parole illuminate le contraddizioni erano pronte a esplodere. Non c’erano solo stuoli di progetti culturali e promozionali per il turismo. Negli ultimi cinque anni sono spuntati in un’area di meno di 15 km enormi centri commerciali. Prima il più grande del Sud Italia nel casertano, poi il più grande di tutt´Italia, poi il più grande d’Europa e da poco uno tra i più grandi al mondo: un’area complessiva di 200.000 mq, con 80 negozi di brand nazionali e internazionali, un ipermercato, 25 ristoranti e bar, una multisala cinematografica con 11 schermi e 2500 posti a sedere. Ultimo arrivato, a Nola, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano che ha tratto spunto dall’icona napoletana per antonomasia: il Vesuvio. Una collina artificiale, un’escrescenza del suolo che segue le uniche e sinuose forme del vulcano. Alta 40 metri e con un diametro di oltre 170, un complesso di 150 mila metri quadri coperti e 450 mila in tutto. Si costruiscono centri commerciali come unico modo di far girare soldi. Quali soldi? Le stime dell’Istat segnalano che la Campania cresce meno del resto d’Italia. La regione è mortificata nei settori dell’agricoltura e dell’industria e incapace di compiere il salto di qualità nel comparto dei servizi. E per quanto riguarda il valore aggiunto pro capite, se la media nazionale s’attesta a 21.806 euro per abitante, al Sud non supera quota 14.528. Keynes diceva che quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose non vadano bene. Riguardo il nostro paese bisognerebbe sostituire al termine casinò la parola centro commerciale. Così rimangono, tra queste cattedrali di luci e cemento, gli interrogativi di sempre. Perché a Napoli c’è tutta questa spazzatura? Come è possibile quando cose del genere non accadono a Città del Messico e nemmeno a Calcutta o a Giakarta? È incomprensibile. Bisogna quindi essere didascalici. Perché le discariche napoletane sono piene? Semplice. Sono state usate male, malissimo. Sversandoci dentro di tutto, senza controllo. Chi gestiva le discariche non rispettava i limiti, né le regole riguardo alle tipologie. Somiglianti più a buche fatte male che a strutture per lo sversamento, le discariche si riempivano di percolato divenendo laghi ricolmi di un frullato di schifezze, fogne a cielo a aperto. E così si sono riempite presto, e non solo di rifiuti urbani. Scavare crateri enormi, portare giù il camion e poi, uscito il conducente, saldare le porte del tir e sotterrare: era un classico. Un modo per non toccare i rifiuti nemmeno con un dito. Il tutto dava un guadagno talmente alto da poter sacrificare, intombandoli, interi tir. A Pianura, racconta la gente, c’è persino una carcassa di balena, e a Parete pacchi e pacchi di vecchie lire.
Ma perché i cittadini si ribellano alla riapertura delle discariche? Perché sembrano così folli da preferire i sacchetti che da circa due mesi hanno davanti a casa? Perché temono che insieme a quelli che dovrebbero essere solo rifiuti solidi urbani invece arrivino anche i veleni. Eppure ricevono le massime garanzie che la loro situazione non peggiorerà. Ma da chi le ricevono? Da coloro di cui non si fidano più. Da coloro che hanno sempre appaltato lo smaltimento a ditte colluse, a uomini imposti dai clan di camorra. E chi deciderà quindi davvero la sorte dei rifiuti? Come sempre i clan. A loro non ci si può ribellare. Ma siccome allo Stato invece sì, spesso contando su una buona dose di pazienza dei reparti antisommossa, si fa ostruzione alle sue decisioni perché non accada poi che si inneschino i consueti accordi. Si preferisce rinunciare persino agli aiuti economici destinati a chi vive nei pressi della discarica, piuttosto che correre il rischio di finire marci di cancro per qualche sostanza intombata di nascosto. Certo, tra i manifestanti ci sono anche i ragazzotti dei clan pagati 100 euro al giorno per far chiasso, bloccare strade, saper lanciare porfido e caricare. Ma loro rendono soltanto esasperate paure che invece sobbollono in tutti. E le rendono isteriche perché più spazzatura ci sarà, meno controlli ci saranno per le ditte pagate per raccoglierla e più l’uso dei macchinari in mano ai clan sarà abbondante.
 
E più le discariche saranno bloccate, meglio si potranno infiltrare camion colmi di rifiuti speciali da nascondere mentre quelli bloccati fuori fanno da copertura. E i consorzi e la politica? I consorzi che gestivano i rifiuti lo facevano per conto di imprenditori e boss, mentre la responsabilità della politica locale e nazionale stava nella solita logica di non affidare posti a chi aveva competenze tecniche, bensì ai soliti personaggi con il solo requisito di essere in quota ai partiti. Quanti posti di lavoro distribuiti in periodi preelettorali, in strutture dove la raccolta dei rifiuti o la differenziata rappresentavano puramente un alibi. Perché non si è fatto nulla? Perché l’emergenza fa arrivare soldi a tutti. E quindi di emergenza si vive. Finita l’emergenza, finiti i soldi. Bisognava forse ribellarsi anche nei giorni in cui i clan prendevano terre. E il termovalorizzatore di Acerra su cui tanto si discute, che per anni non è stato costruito e ora lentamente sta per realizzarsi? Quel genere di impianto non è dannoso, dichiarano gli oncologi, al centro di Vienna uno simile è persino divenuto un palazzo prestigioso. Certo. Ma in un territorio dove l’indice di mortalità per cancro svetta al 38.4%, chi rassicura la gente che negli impianti verrà bruciato solo quel che si deve? Quale politica saprà mantenere la promessa di massimo controllo in una terra che è stata definita la Cernobyl d’Italia? Il centrosinistra ha creduto di essere immune dalle infiltrazioni camorristiche perché la questione camorra riguardava l’altra parte. Ma non era così. Le porte dei circoli della sinistra si sono aperte ai clan mai come in questi ultimi anni.
E il crimine è stato percepito come un male naturale, fisiologico. La politica ha continuato a presentarsi sempre più come qualcosa di indistinto con l’affare e il crimine. Destra e sinistra uguali, basta mangiare. Il qualunquismo italiano forse non è mai stato così sostenuto dall’esperienza. E oggi occupano, bloccano, non collaborano perché non si fidano più di nessuno.
Non c’è altro da dire e da fare. Togliere, togliere la monnezza subito. Non si può più aspettare. Togliere e poi capire chi ha ridotto così questa terra e accorgersi che i meccanismi che qui hanno portato allo scempio totale sono gli stessi che governano in modo meno mostruosamente suicida l’intero paese. In questi giorni mi è venuta in mente una scena di un racconto di Salamov, forse il più grande narratore dell’aberrazione del potere totalitario. Quando i soldati sovietici misero in isolamento alcuni prigionieri del gulag, tutti invalidi tranne Salamov, pretesero che consegnassero le loro protesi: busti, dentiere, occhi di vetro, gambe di legno. A Salamov che non ne aveva, il soldato, scherzando, chiese: "E tu che ci consegni? L’anima?". "No, l’anima non ve la do" rispose. Prese una punizione durissima per aver difeso qualcosa che fino ad allora credeva inesistente. Questo è il momento di capire se ancora abbiamo un’anima, e non farcela togliere come una gamba di legno. Non consegnarla. Prima che non ci restino che protesi.


SENZA SCAMPO

Di Antonietta M. Gatti
 
Se, da una parte, la trasmissione di RAI3 “Chetempochefa” ci delizia con una visione non conformista degli eventi che ci circondano da parte della bravissima Luciana Litizzetto, dall’altra ci propina una versione della realtà ad uso e consumo di pochi affaristi. L’intervista con il professor Veronesi che negava ex cathedra l’influenza dell’inquinamento ambientale come causa di patologie cancerose è, almeno per ora, la manifestazione più eclatante. Ma il professor Veronesi si è mai preso la briga di vedere se dentro ai tessuti cancerosi c’è la polvere dell’inquinamento ambientale? Ovviamente no. Dopotutto, non ne avrebbe nemmeno i mezzi. Allora viene legittimo il sospetto che le sue affermazioni non c’entrino per nulla con i fatti e siano dettate da qualche interesse.
Non c’è ombra di dubbio, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità lo conferma, che se, per ipotesi, l’inquinamento diminuisse, diminuirebbero patologie come il cancro, e, allora, inevitabilmente diminuirebbe l’uso di farmaci chemioterapici e di conseguenza il business farmaceutico, e diminuirebbero le sovvenzioni da parte di queste multinazionali al centro che lui dirige. E diminuirebbero i ricoveri nelle strutture pubbliche e, ciò che a qualcuno interessa, private, e il viavai dei pazienti negli ambulatori. Si chiama matematica sottrattiva. La gente, invece, percepisce chiaramente che l’inquinamento ambientale determina una diminuzione della propria salute e una sottrazione di denaro dalle proprie tasche, denaro speso per cure.
Un altro esempio molto illuminante l’abbiamo avuto nella stessa trasmissione di domenica 3 febbraio, quando è stato intervistato il commissario straordinario per i rifiuti in Campania, Gianni De Gennaro,.
Ora l’intervistato, senza sottilizzare troppo un poliziotto sicuramente molto capace, ha affermato che non ci sono pericoli attorno alle discariche che sta riaprendo, e che l’informazione gli è stata passata da persone del Ministero della Salute. Io voglio credere che De Gennaro sia in buona fede perché essenzialmente sono buonista, ma forse il commissario non si è chiesto perché, nel tempo, le stesse discariche erano state chiuse. Non era forse perché attorno a queste la gente si ammala con più frequenza? O forse perché ha visto nascere bambini malformati? Non si è almeno chiesto, il commissario, perché la gente si oppone e fa addirittura barricate per impedire che i rifiuti vengono stoccati sotto casa? Capricci? Sindrome nimby?
Se si deve credere all’Organizzazione Mondiale della Sanità (http://www.euro.who.int/healthimpact/MainActs/20050207_1) che ha “investigato sull’impatto del trattamento dei rifiuti nella Regione Campania”, ci sono “significativi eccessi di cancro dello stomaco, reni, fegato e polmone e malformazioni congenite urogenitali e cardiovascolari”.
Comunque sia, siamo davanti alle “110 giornate di Napoli”: una vera rivoluzione.
Questi “rivoluzionari” non sono persone ricche, si tratta in genere di povera gente che parla anche un italiano traballante, ma che avverte con chiarezza che c’è qualcosa che non torna. Questa gente, con la sola esperienza di vita vissuta attorno a quelle discariche, con il solo, dimenticato, svilito buon senso, capisce che quell’aria che si respira fa ammalare. Concetto, questo, molto semplice che, tuttavia, persone laureate come il professor Veronesi e il dottor De Gennaro non arrivano a capire. O, ben più probabilmente, che non vogliono vedere.
Loro, tutto sommato, mica vivono lì, e dunque…
L’ormai annosa gestione demenziale dei rifiuti campani ci ha messo di fronte ad un fatto d’inaudita gravità: lo stato toglie ai suoi cittadini anche l’aria necessaria per vivere. Ma non doveva essere lui, lo stato, il tutore della salute pubblica con quel curioso articolo 32 della Costituzione? Attraverso un tutore della legge, un poliziotto, lo stato ci toglie, invece, anche l’aria da respirare o, meglio, ci costringe a  respirare un’aria che, già a priori, si sa che non può che ledere la nostra salute. E il futuro sarà di gran lunga peggiore, visto che alle discariche seguiranno i micidiali inceneritori, cui non basta cambiar nome per attutirne la pericolosità.
Il nostro corpo è una macchina che, per funzionare, ha bisogno di ossigeno, non di ossidi di carbonio, non di diossine, non di polveri o di altri veleni. Allora? Ci mandano a morire per ragioni di stato? O per l’interesse di chi?
Io posso capire che chi fa il poliziotto non abbia una cultura medica e, per questo, non sappia e non immagini neppure gli effetti di un’aria piena di polveri e gas (ben diversi dall’ossigeno) sull’organismo umano, ma i medici lo sanno. Il Ministero della Sanità non può non saperlo.
Qualche anno fa fu messo in pista uno studio finanziato dalla Comunità Europea chiamato “Eurocat” sulle malformazioni fetali. Bene, questo ha dimostrato che attorno alle discariche nascono più bimbi malformati.
Il dato era già conosciuto negli Anni Sessanta. E la documentazione relativa ai veleni degli inceneritori è ormai soverchiante. Qualcuno, per esempio il professor Veronesi, può andarsi a leggere quelle pagine?
La situazione in Campania è devastante. Da una parte abbiamo i roghi dei rifiuti per le strade che producono esalazioni venefiche, (qualche medico può, per cortesia, allestire una sorveglianza medica nelle zone attorno ai roghi? Lì si potrebbero avere patologie assortite, anche di natura neurologica); dall’altra parte abbiamo persone che ricominciano a  respirare aria contaminata e che, magari non domani e non dopodomani, ma in un futuro prossimo, cominceranno a stare malino, poi male, poi avranno diagnosi di tumori in qualche distretto del corpo. O soffriranno di patologie cardiovascolari, che, tra le patologie da polveri, sono conseguenze più comuni del cancro.
La probabilità che queste persone si ammalino sta sicuramente diventando ben più alta di quella di persone che vivono in zone senza contaminazioni di sorta. Ed è, ancora una volta, matematica. Qualche epidemiologo può già fin da ora fare sorveglianza, solo per dimostrare, numeri non manipolati alla mano, che ciò che dico, senza virtù profetiche ma solo in base all’ovvietà della scienza, risulterà vero.
Quando questo accadrà, si dovrà fare i conti con qualcosa d’inaudito: con un poliziotto che sarà  il responsabile di queste patologie. E sarà possibile anche dimostrarlo con chiarezza: infatti l’inquinamento ambientale, qualcosa che si può misurare già fin da ora, lo si ritroverà dentro ai tessuti malati di queste persone. E i bambini malformati che nasceranno lì attorno sapranno che proprio un poliziotto è autore responsabile dello scempio.
Si parla poi sempre di prevenzione, ma quando si entra in un ginepraio d’interessi personali o di cosca, questa prevenzione è per forza di cose negata.
Credo, infine, che la nostra televisione, ed includo anche RAI3, stia facendo un brutto servizio alla comunità, prestandosi a farci credere che non ci sia pericolo là dove invece il pericolo esiste eccome. Potrà la TV dare pari opportunità anche a chi non è d’accordo? O continuerà con questa poco nobile televendita?
Gli scienziati veri, quelli che non hanno interessi da difendere al di fuori di quelli della salute e della scienza stessa, non sono dei fastidiosi grilli parlanti: è solo sulla base dei dati scientifici che prevedono ciò che sarà. E questo indipendentemente da tutto.
Qualcuno che conta può ascoltarli?
In questa situazione, però, in questo mondo di sordi, di ciechi e di muti o, peggio, di strombazzatori di falsità, credo però che l’unica via d’uscita, se si vuole sopravvivere, sia impadronirsi della cultura o scappare in massa da quelle zone inquinate.