Franca Rame, intervistata per un giornale tedesco, parla di elezioni.





 
TAZ: Signora Rame, lei due anni fa ha affrontato la campagna elettorale come candidata?

FRANCA RAME: La devo correggere. Non feci campagna elettorale. Fui pregata da Antonio Di Pietro (il baluardo dell'anti corruzione ndr) di presentarmi col suo partito, l'Italia dei valori, appartenente all'Unione di Romano Prodi. Gli dissi che il mio lavoro non mi avrebbe permesso di impegnarmi in una campagna elettorale. Nonostante questo ottenni 500.000 voti. Fu un risultato incredibile.

TAZ: Come affronta l'attuale campagna elettorale?

FRANCA RAME: Non vi sono direttamente coinvolta. Ho presentato le mie dimissioni da senatrice 14 giorni prima che cadesse il governo Prodi.

TAZ: Qual'è la sua impressione - come cittadina Franca Rame - della campagna elettorale?

FRANCA RAME: Sono molto preoccupata. Sia che mi trovi con le persone del mio ambiente , o che parli con un tassista, con un vicino di casa o con un ammiratore che mi chiede un autografo, alla domanda dò sempre la stessa risposta"Non ho scelto". Temo che l'esito sia un disastro per la sinistra.

TAZ: In Italia il movimento anti-Berlusconi non sembra più essere presente. Perché la rabbia che avevate una volta si è trasformata in rassegnazione?

FRANCA RAME: Sfortunatamente Romano Prodi - che personalmente stimo come persona capace e rispettabile - riguardo al governo non ha potuto fare niente, perché questo era formato da una coalizione di 15 partiti messi insieme, dei quali una buona parte orientata su posizioni conservatrici. Posizioni dalle quali mi sono trovata distante fin dal 2006, come per l'indulto per le pene detentive fino a tre anni (quasi la totalità), provvedimento contro il quale votai. Ma improvvisamente mi trovai allineata, con quel voto, con la destra estrema. Ci furono soltanto 56 voti contro e 5 astensioni. Questo provvedimento era gradito a Berlusconi ma era rivolto, non secondariamente, a salvare tutti gli amministratori implicati in reati di corruzione.

TAZ: Il disappunto dell'elettorato di centro-sinistra è evidente. Ma perché ora affidare a Walter Veltroni la candidatura di leader della sinistra moderata, con posizioni così accomodanti verso Berlusconi?

FRANCA RAME: E' chiaro. Egli spera che alla fine, invece che una disfatta della sinistra, venga fuori una situazione di stallo, per cui un compromesso con Berlusconi sarebbe necessario. Tuttavia l'annullamento dell'antiberlusconismo rimane bizzarro. Altrettanto bizzarro è che tanta gente, ancora oggi, conservi fiducia in Berlusconi. Perché? Perché la gente vede che in due anni di governo di centro-sinistra non è stato fatto nulla per loro. Gli elettori sono disgustati e disillusi.

TAZ: Si sente dire, in questa campagna elettorale, che un Berlusconi vittorioso sarebbe differente questa volta; toni più sfumati, diplomatico, aperto al dialogo. Le sembra credibile?

FRANCA RAME: Sì, perché quello che voleva ottenere l'ha già ottenuto nei cinque anni dal 2001 al 2006, durante i quali ha governato. Ci sono tutta una serie di leggi che ha fatto adattate alle sue esigenze personali, leggi sui media, sulla giustizia, sul conflitto di interessi. Le lascerà in regalo alla posterità; e probabilmente gli piacerebbe anche la gratificazione della presidenza della Repubblica. La sinistra non è riuscita, negli ultimi due anni di governo, neanche a varare una legge sul conflitto di interessi. Quando Berlusconi tornerà al potere troverà tutte le leggi che aveva varato a proprio favore intatte. Noi possiamo soltanto sperare che oggi sia un po' cambiato.

TAZ: Ma a cosa è dovuto il fascino immutato di Berlusconi?

FRANCA RAME: Noi sappiamo molto bene che ha cominciato da giovane la sua attività di uomo d'affari, poi, a un certo punto, improvvisamente, si è trovato a disporre di una enorme quantità di soldi, sulla cui origine nessuno sa esattamente, si sa che provenivano dalla Svizzera......

TAZ: Ma il suo elettorato non se lo chiede mai.

FRANCA RAME: Questo è l'ordine del giorno. Lo trovano semplicemente simpatico, e a loro piace che si autoincensi, che rida sempre, che si vanti di essersi fatto da solo; rappresenta semplicemente il sogno di una parte degli italiani.

TAZ: Il comico Beppe Grillo invita al boicottaggio delle elezioni. Lei è d'accordo?

FRANCA RAME: No, Non posso capire Grillo, anche se condivido una gran parte delle sue critiche alla classe politica. Stare a casa non è una soluzione. Tutti i cittadini dovrebbero partecipare alle elezioni - anche fosse per votare scheda bianca. Io certamente farò la mia scelta.

 

INTERVIEW: MICHAEL BRAUN


 


 

 


Onorevoli in carriera – L’Espresso

di Gianni Del Vecchio
e Stefano Pitrelli

 
  
C'è il giornalaio di Genova che ti ha venduto il quotidiano e il tassista che ti ha accompagnato alla stazione. C'è il comico milanese che hai visto in tv o il legale sardo che ti ha aiutato ad annullare il matrimonio. E c'è anche il disoccupato che stava in fila dietro di te all'ufficio di collocamento di Venezia. Poi te li ritrovi in politica, come tanti altri cittadini dai mestieri più disparati. Ma che lavoro fa il politico italiano? "L'espresso" ne ha scattato un'istantanea, censendo le professioni di circa 3 mila eletti: i parlamentari uscenti di Camera e Senato, i consiglieri delle venti regioni italiane, e quelli delle province e dei comuni più popolosi. Un campione rappresentativo che permette, dati alla mano, di sfatare qualche mito e di confermarne altri.

Impiegati da record
L'ossatura della classe politica italiana è formata dagli impiegati, cui spetta il primo posto in assoluto con un 18 per cento, più del doppio degli imprenditori: una costante per i nostri partiti, visto che nelle ultime due legislature in Parlamento sono rimasti pressoché invariati. Staccano persino avvocati, notai e commercialisti (tutti insieme al 12,7), e cioè quelli che nell'immaginario comune più facilmente rivestono i panni del politico. Il bronzo spetta ai docenti, universitari e non, che sorprendono con un 11,2 per cento. Sul podio però le cose cambiano se si prendono i liberi professionisti nel loro insieme, inclusi medici, farmacisti, ingegneri e architetti: la percentuale decolla al 22,4 per cento. Il che vuol dire che quasi un politico italiano su quattro ha un Ordine a cui votarsi. Altri, invece, di santi ne hanno ben pochi. Sono 19 in tutto gli operai - fra consiglieri, deputati e senatori - che rappresentano quei sette milioni al lavoro nelle fabbriche e nelle imprese italiane. «La classe operaia non è andata in paradiso, ma è finita nel dimenticatoio», nota Carlo Carboni, autore di "La Società Cinica - Le classi dirigenti nell'epoca dell'antipolitica". Così è, tranne per qualche sporadica presenza nel Pd (lo 0,7 per cento) e in quella Sinistra Arcobaleno che proprio della difesa dell'operaiato fa la sua bandiera (appena il 2,8).

Colpisce anche lo zero assoluto fra le fila della stessa Forza Italia che il voto degli operai l'ha strappato alla sinistra. E la situazione nel futuro Parlamento non cambierà: solo i due ex ThyssenKrupp (Antonio Boccuzzi per il Pd e Ciro Argentino per la Sa) si possono dire certi del proprio seggio. Mito da sfatare, invece, è quello del magistrato che fa politica. Alla visibilità di personaggi come Antonio Di Pietro, Gerardo D'Ambrosio e Felice Casson, infatti, non corrisponde una tendenza nazionale. Sono addirittura meno rappresentati degli operai: 14 in tutto, la maggior parte dei quali siede in Parlamento. Altro gruppo dimenticato, infine, è quello degli ingegneri (meno del 2 per cento). Lo denuncia Carboni: «È un segno della poca modernità del nostro ceto politico. Nel mondo economico sono onnivori, rubano il posto anche gli economisti nel ruolo di manager, ma in politica praticamente non ci sono». Il leghista Roberto Castelli e l'ex ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi sono a tutti gli effetti delle mosche bianche. Sulla base di questi dati si può forse affermare cha la società italiana si riflette nella sua classe politica? Secondo Carboni la politica italiana è, sì, lo specchio dei suoi rappresentati, «ma solo dal ceto medio in su».

Camice e doppiopetto
Scendendo sul territorio, i dati ci dicono qualcosa in più sull'egemonia impiegatizia nella nostra politica. La contrapposizione fra impiegati e imprenditori negli enti locali diventa lampante. I politici-impiegati la fanno da padrone soprattutto al Sud, dove raggiungono il 26,4 per cento, ovvero dieci punti in più rispetto al Nord (16,4). In maniera speculare i politiciimprenditori fioccano nella parte settentrionale del Paese (10,1) rispetto a un più contenuto 7 per cento nel Mezzogiorno. È un cliché, ma i dati lo confermano: a Nord gli industriali pesano di più, mentre a Sud è la pubblica amministrazione che fa sentire la propria voce. Sanità in primis: stupisce l'abbondanza di medici, che qui superano l'11 per cento, cioè quasi il doppio del dato nazionale (fermo al 6,2). Emblematico il caso siciliano, dove a palazzo dei Normanni su 90 seggi di medici ne siedono ben 14. La loro presenza nelle assemblee regionali si spiega facilmente: la sanità è ormai questione di competenza regionale, ed è ai singoli consigli che spettano le nomine dei dirigenti delle Asl, i quali a loro volta nominano i primari ospedalieri. Spicca infine, nelle regioni del Centro, il dato sui funzionari di partito. Qui i politici di professione si attestano sul 15,5 per cento, cifra che dà parecchia pista sia al Nord (10,4) che al Sud (6,3). Fatto che si può spiegare, come osserva Carboni, con la tradizionale egemonia del vecchio Pci nelle regioni rosse (Toscana, Emilia e Umbria). Nonché con la presenza dei palazzi della politica nel Lazio.

Le toghe del Cavaliere
Queste differenze in realtà vanno inquadrate in un'ottica più ampia, e cioè quella della complementarietà delle principali famiglie politiche italiane. In altri termini, Pd, Pdl, Sa e Udc posseggono un corpo dirigente dalle caratteristiche ben precise. Per Sinistra Arcobaleno e Partito democratico lo zoccolo duro è composto da funzionari di partito, impiegati, pensionati, docenti universitari e insegnanti: tutti insieme rappresentano il 60,1 per cento della coalizione di Fausto Bertinotti e il 55,3 del partito di Walter Veltroni. Entrambi i partiti mostrano infatti i tratti somatici dei loro genitori della prima Repubblica, Pci e Dc. Lo stesso avviene per l'Udc, che con il suo 23,6 per cento di dipendenti prestati alla politica si conferma, democristianamente, partito impiegatizio per eccellenza. Opposta la situazione per il Pdl: liberi professionisti, imprenditori e manager costituiscono il 57,7 per cento degli esponenti di centrodestra. «Nonostante tutti i discorsi sulla scomparsa di destra e sinistra», chiosa Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica a Bologna, «è evidente che le differenze restano». Il ceto politico del Pdl, dunque, affonda le sue radici altrove: fra quelle professioni liberali che della destra italiana, come sottolinea il docente, hanno sempre formato e continuano oggi a formare lo zoccolo duro. A partire da medici, il 5,96 per cento, commercialisti, 4 per cento, e soprattutto avvocati, il 15,73. I numeri parlano chiaro: di avvocati il Pdl da solo ne ha più del doppio del Pd, e più del triplo della Sinistra Arcobaleno. La culla, insomma, di quell'antipolitica che di Silvio Berlusconi è stata un cavallo di battaglia. È pur vero che la nuova formazione ha già iniziato ad assumere le cattive abitudini della vecchia partitocrazia: pullulano i riconfermati, che costituiscono ben l'80 per cento delle liste presentate in vista di aprile. Nel complesso professionisti e imprenditori rappresentano i principali punti di contatto tra Forza Italia e Alleanza nazionale. I promessi sposi mostrano di fatto una certa "affinità elettiva" che trascende l'operazione politica del Pdl. Il matrimonio sarà pure di convenienza, ma la loro fusione non è tanto "a freddo" quanto si sarebbe potuto pensare. Lo conferma Carboni: «I due partiti si completano l'un l'altro, formando un blocco comune di imprenditori e professionisti. Sono assolutamente identici, ed è un segno che la scelta di Forza Italia e di An è stata determinata da una somiglianza non solo della rappresentanza, ma della base elettorale». In dettaglio, entrambe le metà del cielo del Pdl sono composte esattamente per il 15 per cento da imprenditori. Ma fra i due i valori sono simili anche per il resto di quella che gli inglesi chiamerebbero la loro "constituency", il loro elettorato: i commercialisti (4,5 e 3,6 per cento, rispettivamente), i dirigenti e gli onnipresenti impiegati. L'Italia dei Valori è l'outsider che rompe questo schema. A conti fatti l'Idv è il partito di centrosinistra che più somiglia a uno di destra. E questo non solo perché sventola la bandiera dell'antipolitica, ma anche per la sua nutrita pattuglia di liberi professionisti: da soli medici e avvocati ne costituiscono il 32,2 per cento, ossia quasi uno su tre.

Figli della Casta
Ma qual è il vero peso della casta in Italia? O meglio, qual è l'incidenza dei politici di carriera sul popolo degli eletti? Ebbene il "tasso di casta" supera il 20 per cento, staccando di due punti l'altro lavoro "preferito" dai politici, cioè quello impiegatizio. Insomma: un politico su cinque in Italia vive di politica. A questo numero si arriva sommando la percentuale nazionale dei funzionari politici e degli ex sindacalisti tout court (10,8 per cento) a quella dei politici che si dicono giornalisti (5,2) e ai pensionati (4,2). L'accostamento si spiega col fatto che per i politici di solito quello del giornalista è un titolo conquistato con la militanza. Basti pensare al fatto che i vari D'Alema, Fini, Veltroni, Follini, Mastella, Rotondi o Storace il tesserino ce l'hanno grazie al praticantato svolto nei giornali di partito. Per non parlare della carica dei portavoce, che anche a queste elezioni hanno fatto man bassa di posti blindati nelle liste. Qui gli esempi si sprecano: Paolo Bonaiuti per Berlusconi, Roberto Rao per Casini, Piero Martino per Franceschini, Walter Verini per Veltroni e Sandra Zampa e Silvio Sircana per Prodi. Quanto ai pensionati, invece, la loro inclusione nei politici di professione dipende da un altro dato di fatto: sono persone che adesso hanno il tempo per fare politica. Il tasso di casta ovviamente non è omogeneo, e varia da partito a partito. Ma prevale a sinistra. In testa c'è la Sinistra Arcobaleno, col suo 31,4 per cento, seguita dal Pd col 26,3. Molto distanti Idv (15,2), Lega (13,2) Pdl (12,5) e Udc (11,5). Confrontando i nostri dati con quelli Eurispes 2001 vediamo che negli ultimi anni i professionisti della politica, invece di tornare a livelli "fisiologici" (ossia quelli che Pasquino definisce essenziali a un corretto funzionamento della democrazia) sono andati regolarmente aumentando, e questo grazie all'effetto perverso del "Porcellum", la legge elettorale delle liste bloccate. E così, conclude, «in assenza di un sistema uninominale e a differenza degli inglesi o dei francesi, oggi gli italiani non bocciano né promuovono i propri rappresentanti, ma si limitano a ratificare le scelte delle segreterie di partito».
(04 aprile 2008)
 


Elezioni, in libreria vince l'antipolitica

 

A parte Tremonti, in testa nella saggistica, e la Santanchè, con le donne islamiche, stavolta i candidati hanno evitato gli sforzi letterari

Elezioni, in libreria vince l'antipolitica

Travaglio ha già sfornato un testo-denuncia sui prossimi parlamentari. In evidenza anche i temi del Nord e l’aborto

 Loro ci provano, ma in libreria è forse ancora più difficile che nell'urna. Parliamo dei politici-scrittori, che le altre volte, a ridosso delle scadenze elettorali, si scatenavano in autobiografie, biografie più o meno compiacenti e saggi sulla loro visione del mondo. Stavolta, complice anche l'interruzione anticipata della legislatura, sono stati tutti molto più... riservati: fanno eccezione Giulio Tremonti, che col suo titolo vagamente pontificale - "La paura e la speranza" (Mondadori, € 16) - e una visione così pessimistica della globalizzazione che forse piacerebbe persino a Luca Casarini, ha addirittura conquistato la vetta della saggistica e il sesto posto assoluto nella classifica generale dei libri più venduti; e anche Daniela Santanchè, che in "Le donne violate" (Marsilio, € 17.50) denuncia la drammatica condizione delle donne islamiche in Italia; mentre l'inaffondabile Giulio Andreotti in "2000" (Rizzoli, € 17) proietta il suo diario ormai sessantennale nel terzo millennio.
Per il resto prevalgono i libri "sulla" politica, o meglio ancora sull'antipolitica. Come il nuovo Travaglio, che ancora in tandem con Peter Gomez, e battendo tutti sul tempo, è andato a sfrucugliare nelle fedine penali dei candidati a rischio elezione, il prossimo 13 aprile, e nelle notizie di archivio che li riguardano, mettendo in fila una lunga lista di "raccomandati, riciclati, condannati, imputati, ignoranti, voltagabbana, fannulloni del nuovo parlamento", intitolata "Se li conosci li eviti" (Chiarelettere, € 14.60). Alla stessa categoria (e allo stesso editore) appartiene "Sparlamento" (€ 12.60), in cui il cronista parlamentare Carmelo Lopapa (dopo la prefazione di Dario Fo e Franca Rame) racconta invece di "Teofurbi, affaristi, trasformisti, massoni, famigli".Più ampio (e persino più scoraggiante) il panorama descritto da Elio Veltri e Francesco Paola in "Il governo dei conflitti" (Tea, € 8.60), il cui titolo - leggibile nei due sensi - accenna all'insopportabile groviglio di interessi fra loro in conflitto che fa dell'Italia a tutti i suoi livelli (dalla sanità al calcio, dall'informazione alla finanza, oltre naturalmente alla politica) il paese più ingessato (e forse anche più ingiusto) dell'Occidente.
Come al solito di vasto respiro e solido spessore è la visione che guida Giovanni Sartori in "La democrazia in trenta lezioni", curato per Mondadori (€ 12) dalla giornalista televisiva Lorenza Foschini: fondamentali le domande a cui il politologo risponde con l'abituale rigore e limpidezza: cosa vuol dire esattamente democrazia? Quali sono le condizioniche la rendono possibile? Si può espostare? E qual è il suo futuro?
Fra i temi che stanno invece animando la campagna elettorale c'è da registrare il vivace dibattito sulla questione settentrionale, suscitato in primis dal libro di Riccardo Illy "Così perdiamo il Nord" (Mondadori, € 14.50), ma anche da "Nord, terra ostile", ovvero "perchè la sinistra non vince", pubblicato da Marco Alfieri per Marsilio (€ 11) e da "Nord. Dal triangolo industriale alla megalopoli padana", scritto da Giuseppe Berta per Mondadori (€ 18).
Un altro tema forte, infine, che ha tenuto banco soprattutto nelle prime settimane di campagna elettorale, è stato quello dell'aborto, sollevato da Giuliano Ferrara, a cui ha risposto con un libro breve ma molto intenso Adriano Sofri:"Contro Giuliano" (Sellerio, € 10), scritto di getto sull'onda della passione etica e civile, affronta - con l'amicizia che unisce da sempre i due contendenti, ma anche con la nettezza delle posizioni contrapposte e con la rispettosa distinzione di una visione consciamente maschile - la lacerazione che ogni interruzione di gravidanza provoca nelle donne coinvolte, ma anche il disagio aggiuntivo che su di essa proietta il trascinarla sulla scena pubblica.
S.F.

Argomento: 

''Mandiamo più rompic... possibile in Parlamento'' - da www.articolo21.info

di Stefano Corradino

Due scenari possibili. Vince Berlusconi. E’ un replay della sua ultima legislatura? Altro scenario: vince Veltroni. Cosa cambia? Nella giustizia, nell’informazione. Sul conflitto di interessi, sulle leggi ad personam... Nulla di fatto come in passato? E un po’ di fantapolitica. Si propone il nome di Marco Travaglio a ministro della Giustizia: cosa faresti nei tuoi primi 100 giorni? “Premesso che non lo farebbero e io non lo accetterei mai… Comunque, stando al gioco… la prima cosa da fare è un testo unico di due righe che dica: con decorrenza da oggi sono abrogate: la Legge sul falso in bilancio, la Legge Mastella sull’ordinamento giudiziario, la Cirami, la Gasparri, la Legge Frattini sul conflitto di interessi…” In una lunga intervista Travaglio ci introduce al suo ultimo libro, scritto con Peter Gomez. Un godibile un vademecum per le imminenti elezioni.
“Se li conosci li eviti”. Nuovo libro (ediz. Chiarelettere) e nuovo tema. Alla vigilia delle elezioni chiami in causa i parlamentari (non tutti ricandidati) che si sono distinti nel bene e nel male per la loro attività legislativa e il loro curriculum penale. Più che un libro è un vademecum per gli elettori?
Per gli elettori, se lo leggono prima, per la prossima legislatura se lo leggono dopo. Perché con questa legge porcata, con cui andiamo a votare, abbiamo “la fortuna” di conoscere in anticipo i parlamentari che verranno eletti. Che bella sferzata di entusiasmo nel recarsi alle urne...! Ti fa sentire molto utile…
Quindi suggerisci di leggerlo prima del voto per meglio orientarsi…
Se uno gli dà un’occhiata prima e confronta le liste con certi nomi che abbiamo messo nel libro magari potrà scappare da certe liste. Se uno non vuole votare a scatola chiusa…  Visto che non possiamo punire alcuni personaggi che sono stati messi in lista almeno puniamo le liste…
Cosa distingue “Buoni” e “Cattivi” al di là delle vicende giudiziarie?
In realtà abbiamo cercato di essere molto buoni e di trovare venti parlamentari che avessero ben meritato. Abbiamo fatto più fatica a trovarne di buoni nel centro destra ma qualcuno c’è. Li abbiamo indicati (ovviamente tra i nostri “buoni” non ci sono i pregiudicati e nemmeno gli imputati). Abbiamo cercato di vedere chi si era battuto per alcuni temi che per noi sono particolarmente cari. Gente giovane e pulita come Giorgia Meloni di Alleanza Nazionale, gente meno giovane ma che ha fatto le battaglie sulla libertà di informazione come Giuseppe Giulietti e Tana e Zulueta, sulla legalità come Nando Dalla Chiesa, come Orazio Licandro, Elias Vacca, o Antonio Palomba, gente che si è battuta contro il privilegio dei parlamentari come Silvana Mura, gente che si è battuta contro i condannati a Parlamento; lo stesso Carlo Vizzini di Forza Italia ha fatto un battaglia contro la mafia e gli va riconosciuto.
E poi avete studiato alcune leggi che secondo voi sono state degli snodi fondamentali della legislatura.
E qui abbiamo analizzato i comportamenti dei deputati. Chi ha votato e come. Ad esempio sulla legge Mastella contro la stampa che pubblica gli atti giudiziari, e abbiamo indicato i famosi nove che non l’hanno votata; o sull’indulto… E poi siamo andati a fare le schede dei candidati. Data e luogo di nascita, titolo di studio, professione, segni particolari, soprannome. E poi la fedina penale e le assenze in Parlamento. Ed alcune frasi davvero memorabili…
Il sottotitolo del libro è “Raccomandati, riciclati, condannati, imputati, voltagabbana, fannulloni… nel nuovo Parlamento”. Sembrano i protagonisti di moderni gironi danteschi. Quali tra questi “titoli di merito” è più disdicevole, più umiliante per il nostro Paese?
Forse quella più umiliante è la categoria dei somari! Noi abbiamo mandato in Parlamento decine di persone che, letteralmente, non sanno quando è stata scoperta l’America, quando è stata unificata l’Italia. Che non sanno cos’è la Consob o chi è Nelson Mandela. Sono quelli che erano stati beccati da “le Iene”. E quindi grati a Sabrina Nobile  per aver fatto quel lavoro abbiamo voluto pubblicare le risposte di quegli sciagurati. Se ci affidiamo a gente che non sa nemmeno le nozioni basilari della cultura generale poi non ci dobbiamo meravigliare di nulla…
Il rapporto tra giustizia e politica. E’ il sistema giudiziario a non funzionare correttamente o il problema è politico nel non applicare le sentenze? Pensiamo alla vicenda di  Europa7…
La giustizia fa il suo corso, ma poi ci vorrebbe qualcuno che prende atto delle sentenze e dà loro esecuzione… Questo è il parlamento che per un anno e mezzo ha latitato prima di prendere atto che Previti non poteva più fare il senatore. E intanto per un anno e mezzo gli hanno dato lo stipendio.
Adesso abbiamo la sentenza di Europa7. Questa sentenza dice che dobbiamo dare le frequenze e i risarcimenti a Francesco Di Stefano ma intanto si continua a menare in can per l’aia. Si risponde vedremo… Aspettiamo il Consiglio di Stato, assegniamo di nuovo le frequenze, aspettiamo il digitale terrestre… Mentre la Corte di Giustizia europea ha detto che è proprio il concetto stesso di “fase transitoria” ad essere illegale e illegittima. Anche in questo caso chi ha fatto le battaglie pro legalità anche dal punto di vista delle frequenze televisive lo abbiamo voluto mettere in rilievo. E questo è l’unico antidoto al qualunquismo.
Due scenari a confronto. Il primo: cosa succede nei rapporti tra politica e giustizia, politica e informazione se vince il governo Berlusconi…
Se vince lui lo sappiamo già, perché lo abbiamo visto all’opera due volte. Per due volte ha occupato la Rai, e per due volte ha favorito Mediaset riempiendo la Rai di dirigenti, per giunta incapaci (ma molto servili)… Per due volte si è accanito contro chiunque osasse criticarlo (come se la libertà l’avessimo conquistata per applaudire e non per criticare…). Per due volte ha cercato di mandare via chi gli dava fastidio. La prima volta non c’è riuscito perché è durato sette mesi. La seconda sì perché è durato cinque anni. Penso quindi che quello berlusconiano, se vince, sarà un “quinquennio replay” rispetto al 2001-2006, ma un po’ “incattivito”. Forse non avrà, almeno al Senato, una maggioranza tale da renderlo sicuro. E quindi sarà molto più nervoso, molto più anziano e quindi darà vita ad un regime molto più incarognito di quello dell’altra volta.
Anche nei confronti delle trasmissioni televisive più “scomode”…
Certamente, sebbene ora i programmi da chiudere sono rimasti ben pochi. Mentre prima aveva un gran lavoro da fare adesso c’è veramente poco da censurare… Una volta che hai chiuso Anno Zero, la Gabanelli e Chi l’ha Visto credo che di danni non li potrebbe più ricevere da nessuna parte…
Scenario alternativo. Vince Veltroni. Stessa domanda. Cosa succede?
Se vince Veltroni lo scenario è più complicato, perché bisogna capire cosa sceglie l’uomo del “questo ma quello”. Quando lo vedremo all’opera riusciremo a capire se è un finto buono o se è un finto inciucista. Oppure se è un vero buono o un vero inciucista. C’è bisogno di molta determinazione per “deberlusconizzare” l’Italia.
La risoluzione del conflitto di interessi era uno dei cavalli di battaglia della precedente campagna elettorale. Tanto rumore per nulla…
Dicevano “faremo questo e quello” e poi su questo tema non hanno fatto effettivamente niente. Veltroni, che queste cose non le ha dette, mi auguro che una volta al governo le faccia. Visto che la precedente campagna elettorale era stata improntata alla promessa della risoluzione del conflitto di interessi e all’abolizione delle leggi vergogna (e poi non hanno abolito un bel niente) può anche darsi che una campagna elettorale senza alcun accenno al conflitto di interessi preluda ad un governo che, appena insediato, lo risolve subito. Questo nella migliore delle ipotesi.
Nella peggiore?
La peggiore è che si dia seguito a queste “menate” della fase costituente, dei tavoli per riscrivere le regole insieme, cioè per riportare Berlusconi nelle stanze del potere anche nel caso venga sconfitto alle urne. Abbiamo già dato… Abbiamo già visto le Bicamerale… Se lo facesse non sarebbe soltanto delinquenziale, sarebbe profondamente stupido.
Ecco perché  io mi auguro che intorno a lui ci siano delle “sentinelle”, una bella pattuglia di rompicoglioni in Parlamento che si battono proprio sui temi della legalità. Gente alla Giulietti, alla Pancho Pardi, alla Zaccaria, gente che morde sui temi importanti. Perché senza quelli lì il cosiddetto riformismo verrebbe lasciato solo: nel caso in cui vinca Veltroni a fare politiche filoberlusconiane: e nel caso in cui vinca Berlusconi a non fare un’opposizione antiberlusconiana. In entrambi i casi è meglio mandare in Parlamento più rompiballe possibili…
Agganciamoci al secondo scenario (vittoria di Veltroni) e facciamo un po’ di “fantapolitica”. Vince il centro sinistra e propone il nome di Marco Travaglio al Ministero alla Giustizia. Tu accetti. Cosa fai nei tuoi primi cento giorni.
Mi raccomando… Facciamo finta... Primo perché non me lo proporrebbero e poi perché io non accetterei mai. Comunque, stando al gioco… la prima cosa da fare è un testo unico di due righe che dica: con decorrenza da oggi sono abrogate: la Legge sul falso in bilancio, la ex Cirielli, la Legge Mastella sull’ordinamento giudiziario, la Legge Cirami sullo spostamento dei processi, la Legge sulle rogatorie, la Legge Gasparri sulle televisioni, la Legge Frattini sul conflitto di interessi. Secondo punto: la legge del 1957 sui concessionari pubblici è più che mai in vigore   
e si applica al titolare delle imprese e non all’amministratore. Cioè è ineleggibile Berlusconi e non Confalonieri. Terzo: abrogazione della prescrizione dei reati penali dopo il rinvio a giudizio.
I processi in Italia hanno dei tempi biblici. Travaglio ministro come la risolverebbe?
Abolirei un grado di appello, per cui si fa un grado di giudizio sul merito delle questioni e poi uno di legittimità, esattamente come negli altri Paesi. Se uno ricorre in Cassazione e il suo ricorso è infondato multa salatissima per scoraggiare chi vuole far perdere tempo e soldi alla giustizia e alla collettività. Altra cosa: piano Marshall finanziario per riempire i buchi negli organici dei tribunali e delle procure civili e penali; e poi naturalmente i corollari: bisogna riscrivere il codice di procedura per cancellare tutta una serie di cavilli che consentono agli imputati colpevoli di “allungare il brodo” mentre vengono paralizzati gli innocenti presi per sbaglio, sotto il giogo della giustizia. Personalmente abrogherei anche la quota laica del Csm: è un organo di autogoverno e quindi deve essere formato interamente da magistrati e non da rappresentanti del Parlamento.
Probabilmente prima che tu faccia tutte queste cose ti avrebbero assassinato…
Molto probabilmente! E quindi è evidente che stiamo scherzando perchè con queste riforme la giustizia comincerebbe a funzionare e le sentenze ad arrivare in tempo. Il Parlamento si spopolerebbe e così i consigli di amministrazione dei tre quarti delle banche e delle imprese private e pubbliche italiane. Quindi è evidente che una riforma che faccia funzionare la giustizia, almeno tutta insieme, non ce la possiamo permettere…
Dismettiamo i panni da “ministro” e torniamo a quelli di Travaglio giornalista visto da sinistra a destra come un componente della categoria insolito (ma forse  l’aggettivo più ricorrente è “rompic…”) che fa troppe domande, che c’ha l’archivio…
Mi meraviglio tutte le volte che lo sento dire. Come se fosse strano fare le domande, avere l’archivio e dire le cose come stanno…  Io per fortuna vengo spesso interpellato da colleghi stranieri, costernati per quello che succede in Italia e mi rendo contro che loro intendono il giornalismo come lo intendo io, come lo intendete voi di Articolo21, come lo intende Peter Gomez, Barbacetto, Gian Antonio Stella, Lirio Abbate… Ce ne sono tanti. Siamo considerati dei “fuori norma” mentre all’estero, la norma, è quella!
Chiudiamo con la stretta attualità. Polemica sul confronto in tv tra i due principali contendenti. Veltroni lo persegue, Berlusconi non lo vuole.
Il faccia a faccia non è un diritto di veltroni: è un diritto degli elettori. Che un sedicente "grande comunicatore", convinto di "stracciare qualunque avversario", continui a scappare di fronte al suo avversario, la dice lunga sulla fragilità delle sue eventuali ragioni.
Mettiamo il caso che chiedessero a te di arbitrare il duello. La prima domanda che faresti ad entrambi, tanto per rompere il ghiaccio?  
La paura di confrontarsi con le domande non è solo di Berlusconi. A Veltroni, se moderassi il confronto, infatti chiederei: perchè non sei mai voluto venire ad Annozero, preferendo il comodo salotto precotto di Vespa? Che cos'ha da nascondere? Ci sono domande a cui non vuole o non sa rispondere? A Berlusconi, negli anni, ho accumulato un centinaio di domande. La prima che mi viene in mente è questa: visto che, come ha detto l'altro giorno, lui è "l'editore più liberale della storia della carta stampata", da Gutenberg in poi, che ne direbbe di restituire la Mondadori, visto che una sentenza definitiva della Cassazione ha stabilito che lui la possiede grazie a una sentenza comprata dal suo avvocato Cesare Previti pagando 400 milioni di lire di provenienza Fininvest al giudice Vittorio metta, poi assunto come avvocato nello studio Previti? Questo domanderei a Berlusconi per prima cosa. Così, tanto per rompere il ghiaccio...
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Un capitolo del libro "Se li conosci li eviti” di Peter Gomez e Marco Travaglio (ed Chiarelettere, 14,60 euro) gentilmente concesso dagli autori per i lettori di Articolo21

I buoni I-  Magnifici Venti della XV legislatura
 
Bindi Rosy (Pd). Ha sfidato Veltroni alle primarie, riportando un’ottima seconda piazza, ma soprattutto s’è opposta a tutti gli inciuci con Berlusconi, ha sostenuto il governo contro i tanti nemici (anche nell’Unione) di Prodi, ma soprattutto ha scritto insieme alla collega Pollastrini la legge sui Dico (sui diritti alle coppie conviventi, anche omosessuali) sfidando i fulmini del centrodestra e gli anatemi vaticani. Dimostrando che si può essere, coerentemente e contemporaneamente, laici e cattolici.
Colombo Furio (Pd). Ha difeso l’onore del Senato, vilipeso dai continui insulti scagliati dalla destra più becera contro i senatori a vita. Ha difeso il diritto a esistere, da troppi ancora messo in discussione. S’è opposto all’indulto e alla legge-bavaglio di Mastella sulle intercettazioni e il diritto di cronaca. Ha presentato un rigoroso disegno di legge sul conflitto d’interessi e sul sistema televisivo veramente liberale, in alternativa a quello inciucista del duo Franceschini- Violante.
Dalla Chiesa Nando (Pd). Come sottosegretario all’Università e alla Ricerca, ha svolto un lavoro oscuro ma meritorio sull’edilizia residenziale per gli studenti (18mila posti letto in più per i fuori sede), sulle accademie e i conservatori, e soprattutto ha inaugurato un progetto denominato «Ethicamente» per insegnare negli atenei l’etica pubblica e professionale. Intanto ha proseguito le sue battaglie per la legalità, contro mafie e corruzioni. Ciononostante, o forse proprio per questo, il Pd non l’ha ricandidato. Vergognosamente. M2_01_Se li conosci 12-03-2008 12:30 Pagina 21
De Zulueta Tana (Verdi). Promotrice, insieme ad artisti, giornalisti e intellettuali (Sabina Guzzanti in primis) della proposta di legge «Perunaltra tv», con lo scopo di liberare la Rai dal controllo dei partiti, s’è battuta con competenza ed eleganza tutte britanniche per la libertà d’informazione e contro il conflitto d’interessi, inascoltata anche nella sua coalizione. Ciononostante, o forse proprio per questo, l’Arcobaleno non l’ha ricandidata. Vergognosamente.
Giulietti Giuseppe (ex Ds, ora Idv). Ex segretario dell’Usigrai, veterano della Vigilanza Rai (che ha chiesto di abrogare), non ha mai smesso di difendere giornalisti, artisti e intellettuali minacciati di censura, di qualunque orientamento fossero e da qualunque parte provenissero le minacce. Animatore del sito Articolo21 insieme al presidente Federico Orlando, è un punto di riferimento per chiunque voglia liberare l’informazione dalle troppe mani sporche e lunghe che la controllano. S’è battuto, fra i pochissimi, per una legge sul conflitto d’interessi che prevedesse la ineleggibilità dei titolari di concessioni televisive. Il Pd, comprensibilmente, dopo aver nominato Marco Follini responsabile informazione, l’ha silurato. Per fortuna, Di Pietro gli ha messo a disposizione le sue liste per proseguire la battaglia nella prossima legislatura. Lui ha aperto la campagna elettorale con una visita a Europa7, l’emittente di Francesco Di Stefano che non può trasmettere perché derubata delle frequenze dal 1999: «Tutti vanno a rassicurare Mediaset – ha detto provocatoriamente –, io vado a rassicurare Europa7».
Guadagno Vladimir «Luxuria» (Prc). Entrata in Parlamento con la fama di drag queen e dunque trattata come un fenomeno da baraccone nel Paese più ipocrita del mondo, ha saputo farsi valere, evitando di fossilizzarsi sulla materia della diversità, ma combattendo, in Parlamento e in televisione, per i diritti di tutti, con una competenza che chi vive di pregiudizi non avrebbe mai sospettato, ma che molti hanno dovuto riconoscerle, tardivamente, anche negli ambienti più lontani da lei.
Licandro Orazio (Pdci). Autore, come vedremo più avanti, dell’emendamento alla legge istitutiva della commissione Antimafia per escluderne almeno i parlamentari condannati (ovviamente bocciato dalla Camera), si è battuto in commissione Affari costituzionali per inserire nella legge sul conflitto d’interessi il concetto di ineleggibilità per i titolari di concessioni tv (proposta ovviamente respinta non solo dalla Cdl, ma anche dal resto dell’Unione).
Meloni Giorgia (An). Leader di Azione Giovani, vicepresidente della Camera a ventinove anni, non ha scontato nemmeno per un giorno il prezzo della prevedibile inesperienza, presiedendo con fierezza e autorevolezza l’aula di Montecitorio. Non usa l’auto blu da ben prima che si cominciasse a parlare di «casta». Ha aperto le feste dei giovani di An anche a personaggi lontanissimi da loro. Ha presentato proposte di legge per i giovani e per incentivare la natalità. Si è battuta per l’autodeterminazione del Sahara occidentale. Ha saputo dire parecchi no ai vertici del suo partito. Ha dichiarato di aver iniziato a fare politica a quindici anni grazie a Mani Pulite e alla lezione di Paolo Borsellino: non accade di frequente, a quell’età e in quel partito. Una delle poche donne che esisterebbero in politica anche senza quote rosa.
Mura Silvana (Idv). Tesoriera dell’Italia dei valori, si è opposta praticamente da sola (insieme al radicale Fabrizio Turco) al tentativo dei segretari amministrativi di tutti gli altri partiti di ripristinare il finanziamento pubblico dei partiti, dichiarato o mascherato dietro fantomatiche «fondazioni», e alla fine li ha costretti a ritirare una legge già bell’e fatta, con l’accordo bipartisan di destra e sinistra, facendo infuriare il cassiere Ds Ugo Sposetti. Nemica di sperperi, aumenti di stipendio, arrotondamenti di indennità, privilegi assortiti, ha firmato insieme agli onorevoli Buonfiglio e Alemanno di An una proposta decisamente alternativa, per tagliare i parlamentari, i ministri e i relativi emolumenti.
Napoli Angela (An). È l’altra mosca bianca di An: piemontese ma residente ed eletta in Calabria, è sempre stata in prima fila nella lotta alla ’ndrangheta e al malcostume nella regione. Ha difeso il pm di Catanzaro Luigi De Magistris dagli attacchi sferratigli da destra e sinistra (anche da An), pur se De Magistris l’aveva inquisita (e poi fatta archiviare) in un’inchiesta di qualche anno fa. Ha chiesto per prima le dimissioni di Totò Cuffaro, quando fu rinviato a giudizio e quando molti, anche a sinistra, facevano finta di nulla. Ha aderito alla proposta del Centro Lazzati di Lamezia Terme, animato dal giudice di Cassazione Romano De Grazia, che punta a togliere la possibilità di fare campagna elettorale ai presunti mafiosi sottoposti a misure di prevenzione.
Palomba Antonio (Idv). Magistrato in aspettativa, è uno dei pochi ex giudici che non hanno perso il senso dell’orientamento una volta entrati in Parlamento. Nella giunta per le elezioni della Camera, ha tenuto dritta la barra della legalità contro i continui assalti dei colleghi di destra e di sinistra per assicurare l’impunità ai membri della casta toccati da procedimenti giudiziari. E quasi sempre ha votato a favore dell’autorizzazione all’arresto e all’uso delle intercettazioni a carico di parlamentari. Particolarmente preziosa la sua opera in occasione del dibattito sulle telefonate inoltrate dal gip Clementina Forleo sulle scalate bancarie del 2005.
Prodi Romano (Pd). Ha sbagliato molto, a partire da quando non capitalizzò i 4 milioni e mezzo di voti delle primarie del 2005 facendo una sua lista e rinunciò a coprirsi le spalle dagli agguati dei presunti «alleati». Per proseguire con la scelta sciagurata di nominare Mastella ministro della Giustizia e di cedere alle pressioni dei partiti che gli imposero un governo di 102 fra ministri, vice-ministri e sottosegretari. Ma, grazie anche a Padoa Schioppa e Visco, ha avviato una seria lotta all’evasione fiscale e ha rimesso in ordine i conti dello Stato facendo revocare la procedura d’infrazione europea aperta contro l’Italia grazie allo sfascio berlusconiano. Poi, battuto in Parlamento, ha evitato compromessi al ribasso ed è uscito elegantemente di scena. Finora è l’unico leader del centrosinistra ad aver sconfitto (due volte su due) Berlusconi. Ci mancherà.
Rame Franca (ex Idv, poi Gruppo misto). Ha vissuto la sua esperienza in Senato come una missione, lottando come una leonessa per i princìpi in cui crede. S’è opposta all’indulto extra-large, ha avviato una campagna contro i privilegi della casta e gli sperperi della spesa pubblica. Ha partecipato alle manifestazioni contro la base Usa di Vicenza, contro il Tav in Valsusa e in difesa della libertà d’informazione. Ha preso a cuore – fra i pochissimi – il dramma dei soldati colpiti da tumore per l’uranio impoverito nelle missioni di guerra. Di Pietro l’avrebbe rivoluta in lista, ma lei, stanca e delusa, ha declinato. Peccato. Le dobbiamo tutti un grazie.
Salvi Cesare (ex Ds, ora Sinistra arcobaleno). È riuscito a far dimenticare il suo passato dalemiano e bicamerale con una campagna contro gli sprechi della casta (denunciati per primo nel libro I costi della democrazia, scritto a quattro mani con Villone, vedi sotto). Ha difeso i magistrati attaccati anche dai compagni, come De Magistris e la Forleo. Ha chiesto, insieme a Fabio Mussi, lo scioglimento delle giunte screditate e inquisite della Calabria, della Campania e della Sicilia. È stato fra i primi a scoprire gli effetti devastanti del famigerato «comma Fuda», che di fatto assicurava la prescrizione a tutti i reati contabili dinanzi alla Corte dei conti, poi cancellato in tutta fretta dal governo.
Sodano Tommaso (Prc). In controtendenza con il suo partito, Rifondazione comunista, troppo portato alle battaglie parolaie e inconcludenti, ha presieduto con competenza e rigore la commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti in Campania, che già nella scorsa legislatura portò alla luce il ruolo ambiguo dell’Impregilo e del commissariato straordinario, presieduto anche da Antonio Bassolino, segnalando alla Procura di Napoli i reati per i quali, di recente, si è giunti a una trentina di rinvii a giudizio. Averne, di comunisti così preparati e rigorosi.
Tabacci Bruno (Rosa bianca). Nel 2005 è stato fra i pochi (anzi fra gli unici, nel centrodestra) a opporsi alle manovre del governatore di Bankitalia Antonio Fazio e ai tanti sponsor dei furbetti del quartierino, respingendo ogni tentativo di avvicinamento per ammorbidire la sua posizione sulla legge sul risparmio e sul mandato a termine del governatore. Critico da sempre sul conflitto d’interessi di Berlusconi, ne ha contestato la leadership, fino al punto di abbandonare l’Udc, mesi prima che Casini e il suo partito rompessero con la dittatura berlusconiana.
Vacca Elias (Pdci). Insieme al suo corregionale Palomba (sardo come lui), questo giovane avvocato alla prima esperienza parlamentare è stato un punto di riferimento nella giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, opponendosi a tutti i tentativi di impunità della casta. A volte votava a favore delle autorizzazioni, a volte contro, ma senza mai guardare in faccia «amici» e «nemici»: sempre secondo la legge e la coscienza. È stato relatore della pratica D’Alema a proposito della richiesta del gip Forleo sulle intercettazioni Unipol e, contro ogni pressione diessina, ha messo nero su bianco che il vicepremier non godeva di alcuna particolare immunità europea. Dunque i giudici di Milano potevano procedere senza chiedere alcun permesso a Strasburgo.
Villone Massimo (ex Ds, ora Sinistra arcobaleno). In tandem con Cesare Salvi, ha anticipato le denunce contro i privilegi e gli sprechi della casta politica, calcolando, nel libro scritto a quattro mani con il suo collega, che ormai, in Italia, vivono di politica 400mila persone, che costano alla collettività circa 4 miliardi all’anno. Anche lui ha chiesto le dimissioni dei governatori inquisiti del Sud, cioè Cuffaro, Bassolino e Loiero, e lo scioglimento delle rispettive giunte regionali.
Vizzini Carlo (FI). I lettori troveranno il suo nome anche nella lista degli impresentabili, a causa di una vecchia prescrizione per un pezzo della maxitangente Enimont. Ma, dopo quel brutto episodio di 18 anni fa, Vizzini s’è un po’ riscattato: da anni propone, unico in Forza Italia, la cacciata dal partito di tutti i personaggi collusi o chiacchierati. Sua la proposta, poi fatta propria dalla commissione Antimafia (di cui fa parte), di un codice di autoregolamentazione dei partiti per escludere dalle liste i condannati almeno nelle elezioni amministrative. Non è moltissimo, ma in Forza Italia Vizzini è un mezzo rivoluzionario.
Zaccaria Roberto (Pd). Già presidente della migliore Rai degli ultimi vent’anni, è stato uno dei più fieri avversari della controriforma costituzionale della Cdl, poi bocciata nel referendum del 2006, ma verso la quale molti anche nel centrosinistra manifestavano più di un’indulgenza. E, dichiarando in aula il proprio dissenso di costituzionalista, è stato uno dei pochissimi deputati ad astenersi, sulla legge Mastella che mirava a imbavagliare i giornalisti, impedendo loro di raccontare intercettazioni e atti di indagine. Approvata da una vastissima maggioranza bipartisan, si è poi fortunatamente arenata in Senato. 

No al bavaglio Mastella
 
 
Il 17 aprile 2007, la Camera dei deputati vota sulla legge Mastella, sostenuta da tutti i gruppi parlamentari, nessuno escluso, per proibire ai giornalisti di pubblicare o anche soltanto raccontare per «riassunto» e nel «contenuto» intercettazioni e atti d’indagine (non quelli top secret, già proibiti, ma quelli non più coperti da segreto investigativo perché depositati alle parti) fino al termine dell’udienza preliminare, o – per il fascicolo del pm – addirittura fino alla sentenza di appello. I Sì sono 447, i No nessuno, gli astenuti e i non partecipanti al voto per espresso dissenso con la legge o con le sue parti più liberticide sono 9: Giuseppe Caldarola, Giuseppe Giulietti, Franco Grillini, Marisa Nicchi (Ds) Salvatore Cannavò (Prc) Enzo Carra, Roberto Zaccaria (Margherita) Tana de Zulueta, Roberto Poletti (Verdi). 

Lista Libera Stampa
 
 
Ferdinando Adornato (FI): «Montanelli? È moderato immaginario pluridecorato al valor giornalistico con licenza di straparlare» («il Giornale», 29 marzo 2001).
Massimo Baldini (FI): «Il Fatto di Enzo Biagi si può eliminare: non serve a niente» (Ansa, 3 ottobre 2001 ).
Silvio Berlusconi (FI): «Il mio genio imprenditoriale l’ho utilizzato spendendo un mucchio di miliardi perché lui [Montanelli, nda] potesse scrivere sul “Giornale” quel che voleva. Ora lui spenda per me il suo genio polemico, scrivendo contro Scalfari e altri quel che può essere utile anche a me» (In una telefonata con Federico Orlando del 1993, riportata in Il sabato andavamo ad Arcore). «Quella di Biagi, Santoro e della Rai di Zaccaria è stato un attentato alla democrazia: mi hanno fatto perdere 17 punti in campagna elettorale» (Vertice internazionale di Caceres, Spagna, Ansa, 9 febbraio 2002). «In questi giorni la Rai ha cambiato i responsabili dei tg e delle reti. Tornerà finalmente a essere una tv pubblica, cioè di tutti, cioè oggettiva, cioè non partitica, cioè non faziosa come è stata con l’occupazione manu militari da parte della sinistra. L’uso che i Biagi, i Santoro e i... come si chiama quello là... ah sì, Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, è stato criminoso. Preciso dovere della nuova dirigenza Rai è di non permettere più che questo avvenga» (conferenza stampa a Sofia, 18 aprile 2002). «Sulle intercettazioni telefoniche introdurremo pene severe: cinque anni per chi le diffonde, e due milioni di euro di multa per gli editori che le pubblicheranno» (Ansa, 17 gennaio 2008). «Mi sono battuto perché Biagi non lasciasse la televisione, ma alla fine prevalse in Biagi il desiderio di poter essere liquidato con un compenso molto elevato» (Ansa, 18 febbraio 2008).
Michele Bonatesta (An): «Come volevasi dimostrare, nessuno ha fatto il favore alla sinistra di far fuori Enzo Biagi dalla Rai. Presentandosi come martire della libertà e del pluralismo dell’informazione nell’era del tiranno Berlusconi, egli si è assicurato l’intangibilità nei secoli dei secoli. Anche se gli italiani avrebbero dormito pure se Biagi non avesse più lavorato in Rai. E ora che Biagi non è stato epurato e che la tv pubblica non ha obbedito ai “diktat bulgari” di Berlusconi, come direbbero Giulietti o Falomi, di cosa parlerà l’opposizione? Come farà a liberare il cavallo di viale Mazzini? Vediamo una paurosa penuria di argomenti non propagandistici» (Ansa, 30 ottobre 2002).
Roberto Calderoli (Lega Nord): «Biagi e Santoro fanno le verginelle candide e rispondono a Berlusconi parlando di intimidazione del potere. Ma i veri potenti sono stati proprio loro per anni, dando vita a trasmissioni faziose, schierate dalla parte della sinistra contro la Lega e il Polo, senza dare diritto di replica e addirittura preparando trappoloni incresciosi, come avvenne nella puntata dedicata a Marcello Dell’Utri. Biagi sottolinea che dovrà essere il Cda a licenziarlo e non il premier. Per fortuna il contratto di Biagi è in scadenza e sarà sufficiente ai vertici Rai non rinnovarglielo» (Ansa, 19 aprile 2002).
Roberto Castelli (Lega Nord): «Qui ormai siamo alla commedia. Mi spiace che persone come Biagi abbiano venduto se stesse a una parte politica» (Ansa, 27 marzo 2001).
Massimo D’Alema (Ds): «Voi parlate di tremila euro, di cinquemila euro: ma li dobbiamo chiudere, quei giornali (che pubblicano atti di indagine, nda)... Ci sono stati episodi scandalosi in cui materiale senza nessuna attinenza con l’inchiesta è andato a finire sui giornali. E anch’io ne sono stato vittima » («la Repubblica», 29 luglio 2007).
Carlo Giovanardi (Udc): «Enzo Biagi ha 84 anni, leggo che il sindaco di Bologna gli ha offerto un incarico. Credo sia benestante, non mi sembra che sia discriminato. Francamente mi preoccuperei di più di quei tanti giornalisti di 20-30 anni che trovano le porte delle redazioni chiuse o non riescono a lavorare. Io credo che ci sia bisogno di professionalità nuove e non mi sembra straordinario che a quell’età siano state interrotte delle forme di collaborazione per far posto a professionalità più giovani» (Ansa, 18 agosto 2004).
Giorgio Lainati (FI): «Le parole di Biagi sono frutto di una incredibile carica di odio e livore personale che porta quello che è stato un autorevole e prestigioso giornalista italiano a manifestare un assoluto e irreversibile disprezzo per il capo del governo del proprio Paese» (Ansa, 5 giugno 2005).
Giuliano Ferrara: «Caro Biagi, non faccia il martire, ci risparmi la solita sceneggiata (...). Lei ha fatto campagna elettorale con i quattrini di tutti, anche degli elettori del centrodestra (...). Quando si sparge l’incenso conformista lei è sempre il primo. Spostare Il Fatto in un altro orario non sarà come violare una vergine o sgozzare un agnello sull’altare dell’informazione» (Giuliano Ferrara, lettera aperta a Enzo Biagi su «Panorama», 1° febbraio 2002). «Biagi è un mostro sacro degli affari suoi e un ipocrita» («Il Foglio », 23 maggio 2002).
Maurizio Gasparri (An): «Montanelli è stato un uomo sempre dalla parte di chi comandava: fascista durante il fascismo, antifasci- sta appena in tempo quando il regime stava cadendo, mantenuto da Berlusconi, adesso sta con la sinistra» (Ansa, 25 marzo 2001). Gasparri inserisce poi Enzo Biagi in una lista di personaggi «faziosi » dettata da lui e da altri esponenti del Polo al giornalista Daniele Vimercati nel programma Iceberg, su Telelombardia, il 26 marzo 2001. La lista di proscrizione comprende anche Santoro, Luttazzi e il Tg3 in blocco.
Giancarlo Gentilini (Lega Nord): «Gli alberi quando invecchiano si seccano e perdono il colore, vivacchiano. Montanelli è uno così. Il 13 maggio mi auguro di mandarli tutti in esilio, quelli del centrosinistra. Conquisteremo Roma per la seconda volta. Sarà una marcia su Roma» (31 marzo 2001).
Paolo Guzzanti (FI): «È così imbarazzante quest’odio personale di quest’uomo dalla penna facile e dalla vita lunga [Montanelli, nda] che si comporta come quei giovanotti della Belle époque che, avendo dissipato il patrimonio al casinò, dedicavano poi la loro vita a distruggere o deridere quella di chi li aveva sostenuti. E non parliamo di patrimoni di denaro, ma morali» («il Giornale», 16 febbraio 2001).
Agostino Saccà (FI): «La Rai depreca il fatto che un collaboratore autorevole dell’azienda come Enzo Biagi usi espressioni e toni offensivi nei confronti di un giornalista, quale Fabrizio Del Noce, stimato da sempre per la sua indiscussa attività professionale e che ora è stato chiamato dal consiglio di amministrazione, su proposta del direttore generale, a dirigere una delle più importanti strutture editoriali dell’azienda stessa. Il presidente e il direttore generale esprimono solidarietà al direttore di Rai1 Fabrizio Del Noce, confermandogli la stima e la fiducia da sempre riposta in lui» (24 maggio 2002).
Claudio Scajola (FI): «Montanelli fa il critico di Berlusconi per motivi di senilità» (Ansa, 22 aprile 2001).
Walter Veltroni (Pd): «Il divieto assoluto di pubblicare tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell’udienza preliminare e delle indagine serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini» (Ansa, 16 febbraio 2008).


Parliamo di donne – di Rossana Rossanda, il Manifesto, 31 marzo 2008

Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono? Ne conosciamo i frammenti minoritari che hanno accesso alla parola, i numeri muti delle statistica, le immagini tv.
 Dalle quali trarre deduzioni è rischioso: piangenti, al mercato, rare imprenditrici brillanti, rare ministre, zero segretarie di partito, zero segretarie delle confederazioni sindacali (è arrivata prima la Confindustria), qualche insegnante o professionista, e una gran massa di veline, tutte carine, tutte uguali. E un valido campionamento del paese? Mah. Una volta la regione campana prese la tv così sul serio da organizzare corsi professionali per le aspiranti veline.
Tradotto in «desiderio politico», che cosa sono? Emancipate? Certo in uscita transitoria dallo stereotipo donna al focolare. Se arrivano a farsi conoscere, sono in grado di mandare a spasso un marito, salvo congruo assegno. Ma se emancipate significa che ambiscono a prendere il posto degli uomini, non direi. Le emancipate che lo ambiscono sono relativamente rare, salvo nell'insegnamento, dove costituiscono la maggioranza ma non ne reggono le redini né una riforma del sistema è stata avanzata da riconoscibili donne. Quanto alla massa di carine, sono giunte a professionalizzare (precariamente) il classico desiderio maschile e il nostro, pare altrettanto classico, esibizionismo, senza grande spesa e trasgressione. Difficile immaginare che idea di società abbiano. Come le casalinghe per scelta, sempre di meno ma con la bizzarra componente delle figlie super emancipate e disinibite dal 1968. Strana generazione, che a un certo punto sceglie di tenersi sul sicuro, cosa che mamma ai suoi tempi non ha fatto. Devono essere elettrici tendenzialmente democratiche, magari «riformiste».
Poi ci sono quelle che parlano. Anche di politica, emancipate o femministe. Il desiderio delle prime, che spesso hanno avuto un passaggio femminista light, è di affermarsi nell'arco politico esistente. Con una qualità in meno o in più dei maschi: sono capaci di «staccare». E' interessante il percorso di decine di migliaia di amministratrici locali, spesso ottime: uno o due giri da consigliere, assessore o sindaco e poi se ne tirano fuori. E non irate o deluse, ma per voglia di fare altro. Questa caratteristica è importante per capire quanto la politica conti per la donna che ci si è messa: raro che ci muoia. Sarebbe garanzia di un equilibrio? Somiglierebbe al disinteresse personale? E intanto mezzo secolo di amministratici locali hanno mutato o no il potere locale? Ne hanno modificato le regole? Accresciuto l'autonomia?
Credo di no. Non diversamente dalle istituzioni nazionali, in quelle locali le donne non hanno reclamato, e tanto meno ottenuto, cambiamenti né di fini né di regole.
Di qui il rapporto acerbo fra le femministe e la sfera politica. Inutile girarci attorno. Là dove avrebbero in via di principio un ascolto, cioè a sinistra - è stato un penoso errore da parte di un loro gruppo credere che uno spazio ci fosse a destra per via di Lady D e Irene Pivetti - i leader della medesima si spendono in parole e stringono poco nei fatti. Gli uomini di sinistra imbrogliano o si imbrogliano da sé, le donne di sinistra protestano. O da lontano, scrivendo con amarezza della irreversibile crisi della politica, o da vicino, organizzando proteste su obbiettivi indiscutibili, come la violenza, ma poco cavandone fuori. Quale dirigente maschio oserebbe dire: «Insomma, se il marito la pesta (una donna ogni tre donne viene picchiata in Francia) o le ammazza (idem, una ogni tre giorni), se la sarà cercata». Quando mai. Soltanto che nessuna gli pone in termini secchi la domanda: «Non ti chiedi perché il tuo sesso continua ad ammazzarci?». Il leader condanna sinceramente ma pensa: quelli non sono come me, sono perversi o assassini, roba da codice penale. Non lo sfiora che la brutale negazione fisica di lei abbia una parentela con la negazione simbolica che lo induce a discriminarla dalle cariche decisive («non ce la farebbe»).
In politica resta inesplorata la zona oscura del conflitto millenario fra i sessi. Soprattutto in Italia e in Francia, dove le «emancipate» che partecipano al potere eludono il tema, e le femministe, fra loro diverse, non partecipano gran che al primo e rompono i ponti sul secondo. Non è senza interesse chiedersi perché resti così profonda o, se da qualcuna praticata, irrisolta in lei stessa, la separazione fra coscienza e partecipazione femminista e coscienza e partecipazione politica. Penso alle recenti interviste sul nostro giornale di Ida Dominijanni a Judith Butler e Wendy Brown (il manifesto 25 marzo). Butler è impegnata a fondo su tutti e due i terreni, esplora la zona oscura in termini sovversivi proponendo l'intersessualità come norma - «Gender Trouble» - e prendendo di petto, e non genericamente, temi scottanti dell'attuale politica degli Usa. C'è probabilmente una diversa tradizione intellettuale, perché non è che le europee siano meno radicali; probabilmente il sistema politico americano è così precluso - per fare un presidente (o un governatore) ci vogliono centinaia di milioni e quasi due anni di campagna elettorale full-time - che la presa di parola politica non ha mediazioni con istituzioni e partiti, o si espone direttamente o non è. Insomma si interviene in politica a prezzo di impegno e competenza specifica dalla società civile, considerano milizia femminile e milizia politica un unicum, come a mio avviso realmente sono. Non investono ambedue il sistema delle relazioni?
In Italia no. Forse per il ritardo della emancipazione in presenza d'una gerarchia cattolica invadente. E' stata più la modernizzazione capitalistica della società che la politica a farla avanzare. Forse per l'essersi formato il primo e il secondo femminismo in collegamento stretto con la sinistra; il primo con il Pci e il Psi e il secondo - anche se non collegato altrettanto strettamente - con il 1968 e il rivoluzionamento che esso ha comportato nei paradigmi del politico per tutti gli anni '70, finendo con l'essere l'unica vera trasformazione culturale che ne è rimasta, minoritaria ma irreversibile. Più che in Francia e in Germania, credo.
Ma la sua contiguità originaria con il bacino «marxista» - marxista più come pratica etica ed emozionale che come elaborazione teorica, caratteristica di tutta la sinistra italiana - ha portato le donne a un corto circuito: rapido investimento e rapida disillusione, 1968 incluso, e peggio con i successivi gruppi extraparlamentari. Vibra ancora indolenzito un cordone che si è spezzato. Gli uni non capiscono le altre e viceversa, fino a ignorarsi, al di là di qualche convenevole, come se fossero due settori separati d'esperienza e competenza. (Di questo bisogna chiedere alle donne, dice lui. La politica non mi interessa più, dice lei).
Non che sia agevole fare una mappa dei gruppi femministi italiani. Proprio perché sono, mi sembra, più diffusi che altrove e frammentati si rischiano giudizi facili. Ma molto sommariamente si può avanzare che le principali posizioni rispetto al «fare» politico sono due. L'una vede nel conflitto fra i sessi una costante metastorica, o quanto meno originaria, irrisolta quanto più introiettata senza esplicitazione, certo fra gli uomini e in molta parte delle donne; e finché tale resta, il conflitto non conscio di sé mutila e conforma l'uno e l'altro sesso, reciprocamente confusi, dolenti. E ormai traversati brutalmente dalle biotecnologie che tendono a modificare la posta in gioco della riproduzione. Di qui l'oscillazione fra il rifiuto conservatore della chiesa, l'interesse alla libertà della scienza (che si presume) disinteressata, e un rifiuto femminile in nome di un diritto primario e autentico che non è riconosciuto né dalla chiesa né dalla scienza e, come ha dimostrato il referendum sulla riproduzione assistita, spesso dalle donne stesse.
La seconda posizione, all'inizio derivata da Luce Irigaray, vede più che il conflitto - il conflitto è comunque un rapporto - un'eteronomia dei sessi che darebbe luogo, fra natura e storia, a una differenza insorpassabile. E del resto perché sorpassarla? Nel momento in cui la donna spezza il presunto universalismo del maschile (il patriarcato) e si riconosce il suo sesso come principio di sé - si era fin suggerita una «specie umana femminile» - si scopre come un valore, si dà una genealogia e un ordine simbolico (materno invece che paterno), la rivoluzione è già avvenuta, il patriarcato se non finito è incrinato. A questo punto o le donne si appartano nella separatezza (la comunità dello Scamandro di Christa Wolf), o restano nel mondo intervenendovi come un complesso interelazionale autonomo, che risponde ai suoi propri principi.
Soprattutto alla seconda posizione il sistema politico, con il quale si è inutilmente incontrata e scontrata, e con esso l'intero pensiero politico della modernità appare segnato da un solo codice, quello maschile, e così il lessico, e così il linguaggio. A questo punto il dialogo appare impraticabile. Riscoprirsi nella propria interiorità svalorizza ogni pretesa di universalismo come è proprio specie della costituzione di un diritto, punto centrale della politica. L'avvertimento «non credere di avere dei diritti» volge facilmente in un «Non ce ne importa del diritto», occorre una revisione ab imis che costituisce «la politica prima». Basta guardare alla sorte delle donne entrate nella poderosa macchina delle istituzioni per aver la conferma di quel che pare un eccesso.
Ma lo stesso vale per chi non arriva a questo limite di separatezza e ha cercato di partecipare o almeno collaborare al sistema politico per non isolarsi, sperando di inserire un cuneo, un dubbio.
Qui siamo. Non sembra che le forme e le figure attuali della politica o dei partiti ne siano coscienti o almeno se ne facciano un problema. Non la destra o il centro cattolico, per i quali il problema non esiste. Non il Partito democratico, invischiato fra cultura cattolica e una laica che rinnega il passato e prende a prestito qua e là del presente non esiste. Ma non è chiaro se ne sia sfiorato quel work in progress che sarebbe la Sinistra Arcobaleno, che il Partito democratico farebbe volentieri a pezzi. Non è chiaro se ne sono coscienti neppure le culture dell'autonomia.
Ma qualcuno è disposto a sostenere seriamente che senza prender questo toro per le corna - questi tori, perché è il tema fondamentale delle relazioni che è in causa - una convivenza moderna o postmoderna si possa civilmente dare? Io non credo.
 


Salma piatta - di Marco Travaglio

Uliwood party
l'Unità, 28 marzo 2008


E’ tornato lui. Contavamo i giorni, per vedere quanto avrebbe impiegato a riesumare i comunisti, Stalin, la Rai in mano alle sinistre, la par condicio illiberale. L’ha rifatto. Anzi, ha voluto esagerare e ha rispolverato pure la laurea di Di Pietro, una gag che risale addirittura al 1995 e che è già costata condanne per diffamazione a decine di pennivendoli al seguito. E’ bello e rassicurante ritrovare il vecchio Banana dei tempi migliori. “Berlusconi - osserva Ellekappa - tira fuori i suoi vecchi cavalli di battaglia. Vediamo se ritira fuori anche lo stalliere”.

Come i guitti a fine carriera che cercano di strappare l’applauso col repertorio, l’anziana soubrette di Arcore provvede a smentire tutti i politici e gli opinionisti “riformisti” che negli ultimi mesi lo descrivevano trasformato, moderato, dialogante, insomma un uomo nuovo, uno statista col quale riscrivere le regole della Repubblica, forse anche il codice della strada, sicuramente il codice penale. Infatti da un paio di giorni Uòlter ha cominciato a parlare di tv, di conflitto d’interessi, perfino. Ecco, dev’essere stata la parola mafia a mettere di cattivo umore il Cainano, insieme alle notizie dal Liechtenstein e dal resto d’Europa, dove i governi si stanno impegnando contro l’evasione fiscale che lui ebbe modo di definire alla festa della Guardia di Finanza “un diritto naturale che è nel cuore degli uomini”, soprattutto nel suo. Lui, sui depositi di Vaduz, aveva dichiarato: “Il Liechtenstein non so nemmeno dove stia”.

Ma l’altroieri, con una strana classica excusatio non petita, è intervenuto l’on. avv. prof. Gaetano Pecorella, sorprendentemente allarmato: “Gli elenchi dei titolari italiani di conti correnti in Liechtenstein sono inutilizzabili, perchè si tratta di prove raccolte illecitamente. Il funzionario di banca ha commesso un illecito, sono informazioni coperte da segreto bancario”. Mavalà: se un topo d’appartamenti, svaligiandone uno, trovasse un filmato che immortala il mandante di un omicidio mentre assolda il killer, verrebbe certamente processato per furto; ma poi verrebbe processato anche il mandante dell’omicidio. Lo stesso vale per gli elenchi dei furboni di Vaduz, tant’è che 37 procure italiane, come i giudici di tutt’Europa, li usano eccome.

La spiegazione alternativa di tanto nervosismo è che l’ormai celebre “cordata italiana” per Alitalia stenti a decollare. A sentir lui, è tutto pronto. Tant’è che, col riserbo che lo contraddistingue, spiattella nomi e cognomi a chiunque incontri per strada, salvo meravigliarsi se Minzolini, appostato dietro la fioriera, ascolta e scrive tutto sulla Stampa. La terzultima versione della “cordata italiana” comprendeva Banca Intesa (che l’ha mandato a stendere) e la figliolanza (ma poi gli han votato contro persino Piersilvio e Marina). La penultima, Bracco, Tronchetti, Doris, Moratti, il mitico Carlo Toto (di cui il Pdl candida il figlio) e forse l’Aeroflot (tramite l’amico Putin). L’ultima, svelata ieri da Minzolini, schiera Mediobanca, Eni, Ligresti e Benetton (oltre, naturalmente, a Berty, sempre a disposizione).

Malauguratamente il Cavaliere s’è scordato di avvertirli, per cui i quattro soggetti interessati, appena si son visti sul giornale, sono corsi a smentire tutto. E lui naturalmente ha smentito se stesso. Ma c’è da giurare che è già pronta una quarta cordata: già si parla delle patatine Pai, della rivista Topolino, del titolare dei Chupa Chupa, di un produttore di mozzarelle di bufala e, come advisor, di Braccobaldo Bau. Si dirà: ma non hanno i mezzi. Che problema c’è: l’importante è sparare nomi a raffica fino alle elezioni, poi lui gli dà i soldi necessari prelevandoli dalle nostre tasche (parla di un “prestito ponte” del governo o, in alternativa, di un credito d’imposta ad Alitalia se resiste ai francesi un altro po’, tanto perde solo 1 milione al giorno). O farà come nelle campagne abbonamenti del Milan: prima annuncia l’acquisto di Ronaldinho, Drogba, Eto’o; poi, quando tutti i tifosi han pagato la tessera, annuncia costernato che sarà per l’anno venturo.

Qualcuno insinua infine che sia nervoso perché l’incedere degli anni è più forte di qualunque lifting, trapianto, asfaltatura (di qui la fuga dai confronti con Uòlter): l’altro giorno, di passaggio da Viterbo, il nostro ha sostato un’ora dinanzi alla salma di Santa Rosa. Secondo il Corriere, “una ricognizione medico-scientifica ha confermato lo straordinario grado di conservazione del corpo”. Il quotidiano non specifica di quale salma.


Meglio puntare sugli uomini - di Maria Laura Rodotà - Corriere della Sera

E' delusione per le donne presenti nelle liste, sono in poche a convincere
Ammettiamolo. Deludono una via l'altra. Delude perfino Daniela Santanchè, unica femmina dominatrice di questa triste tornata elettorale. Finora icona sadomaso che faceva sperare cuori neri ma anche elettori del Pd (specie nelle regioni col Pdl in bilico, tipo Lazio), si è prodotta in dichiarazioni poi smentite su un'eventuale fiducia a Berlusconi facendo arrabbiare i suoi fans. Delude perfino più del previsto Marianna Madia, giovanissima speranza piddina, rivelatasi agente infiltrata al servizio della Sinistra Arcobaleno: sul cui simbolo è riuscita a spostare svariati voti (specie nel Lazio, dove è capolista) nella sola giornata di ieri, causa intervista al Foglio molto anti-aborto, molto pro-donne spose e madri intente a «riumanizzare la vita disumanizzata».
E poi ci sono le assistenti dei leader; e poi c'è la figliola dell'ex ministro Cardinale; e poi c'è la chirurga estetica di Berlusconi, forse ricollocata causa lavoro usurante; poi c'è la fisioterapista che lo ha curato, poi c'è...C'è che se una potesse scegliere — ovviamente non può, le liste sono bloccate— preferirebbe votare i maschi, sul serio. I soliti, più usurati della chirurga di Berlusca. Ma meno irritanti, e più bravi nel giocare la partita elettorale (tutto è relativo). Fanno arrabbiare i loro oppositori e ancor di più i loro elettori, spesso; meno spesso fanno cadere le braccia, come capita con le candidate donne. E poi, insomma: una donna di destra vecchio stile vota più volentieri la ricca, edonista, politicamente opportunista Santanchè o il verace Storace? Una berlusconiana preferisce l'originale (Vabbé, quel che ne resta dopo gli interventi della dott. Rizzotti) Silvio o il derivato Michela Brambilla? Una donna che è stata di sinistra si tura il naso più volentieri per Uolter o per Marianna? E ancora: un'elettrice di centrodestra laica e antifascista è più contenta di votare l'ex missino Gianfranco Fini, aperto sulle questioni riproduttive, o l'ex femminista ora teocon Eugenia Roccella, al cui confronto il cardinal Ruini è un simpatico sovversivo (lei ha spiegato che i dilemmi bioetici sono vergognosamente considerati dalla sinistra «sul piano dei diritti individuali» mentre ci vuole «una visione antropologica chiara», e niente fregole)? Risposte a piacere.
Sono elezioni per misogine, comunque. Perché le donne eccellenti sono poche, anche qui le solite. E qualcuna, come Emma Bonino, si lamenta perché pochissimo coinvolta nelle iniziative elettorali. Le altre, le nuove, mostrano (a) come, grazie alle liste bloccate, i leader maschi scelgano candidate non in base alla loro capacità e al loro appeal elettorale, ma secondo il loro ideale femminile; e (b) che le elettrici non sono conquistate dalle bellone, dalle madonnine infilzate e neanche dalle dominatrici. Amerebbero votare donne competenti, possibilmente simpatiche, sennò meglio un uomo (intanto l'Italia è l'unico paese occidentale dove circolino catene di sant'Antonio femminili via e-mail in cui si suggerisce di andare al seggio con una D rossa sul petto, una lettera scarlatta di protesta; non siamo messe bene, no davvero).


Cacho Caselli, dai golpisti al Pdl - di Eleonora Martini su Il Manifesto del 13/03/2008

Personaggi neri in Italia ed eminenze grigie all'estero. L'elenco dei candidati "discussi" presentati dal Popolo delle libertà si allunga se si vanno a sbirciare le liste presentate dall'altra parte dell'Atlantico, agli italiani residenti in terra argentina per il voto nella circoscrizione estero. Dopo Ciarrapico, il fascista, spunta ora il nome di Esteban Juan Caselli, detto «Cacho», ma anche «il vescovo» per le sue frequentazioni. Ex ambasciatore argentino in Vaticano durante il governo di Menem dal '97 al '99 e funzionario durante la dittatura dei generali Viola e Bignone, nel giugno del 1997 Caselli fu accusato dall'ex ministro dell'economia, padre liberista della moderna finanza argentina Domingo Cavallo di aver costituito «una rete di protezione giuridica che dava appoggio locale agli autori dell'attentato contro la sede dell'Associazione di mutua assistenza israelo-argentina (Amia) di Buenos Aires» avvenuto il 18 luglio 1994 e che causò la morte di un'ottantina di persone e il ferimento di un centinaio. A ricordarlo è stato ieri Luciano Neri, uno dei responsabili del Coordinamento nazionale del Pd per gli italiani nel mondo, che ha chiesto a Berlusconi di ritirare dalle liste il nome di «Cacho» per «favorire candidature etiche». L'ex ambasciatore Caselli due giorni fa avrebbe anche rivelato al quotidiano argentino Critica di avere avuto l'offerta del seggio al Senato «da Berlusconi in persona».
«Sulla cospicua eredità che gli avrebbe lasciato un ufficiale dell'aviazione militare, Miguel Cardalda, di cui era autista - racconta Luciano Neri - sono state riempite pagine e pagine da giornalisti e scrittori fra i quali l'attuale deputato Miguel Bonasso, autore di "Don Alfredo", e Olga Wornat, autrice di Nuestra Santa Madre». In patria parlano di un patrimonio accumulato che si aggirerebbe attorno agli 800 milioni di dollari. «L'ex ministro Cavallo - continua Neri - ha esplicitamente incluso l'aspirante senatore italiano Caselli in una "mafia" legata ad Alfredo Yabran, personaggio collegato tra l'altro all'uccisione di Josè Luis Cabezas, fotografo del settimanale politico argentino Noticias. Yabran, attualmente scomparso, è stato considerato anche "prestanome eccellente" dell'ex presidente Menem». I rapporti personali tra Menem e «il vescovo», come lo chiamavano i giornali di opposizione, si sono deteriorati quando è esploso l'affaire del traffico d'armi vendute illegalmente alla Croazia durante la guerra con la Serbia e all'Ecuador durante il conflitto con il Perù. Le indagini coinvolsero anche al Casa Rosada e, grazie alla testimonianza di Caselli, coinvolto nell'inchiesta, il presidente Menem finì agli arresti. «Cacho», vicino al cardinale Angelo Sodano, ha buoni rapporti con la parte più conservatrice della chiesa argentina e pessimi con i più progressisti perché nel suo tessere legami tra la Casa Rosada e il Vaticano ha spesso accuratamente tenuto fuori molti vescovi locali. Come nel '98, quando durante la visita di Giovanni Paolo II a Buenos Aires organizzò solitariamente l'ennesimo incontro tra il Papa e il presidente. Il suo circolo di potere non è estraneo al siluramento di molti vescovi progressisti: l'ultimo, Maccarone, sarebbe stato "fatto fuori" consegnando direttamente al Vaticano il video di un rapporto sessuale tra il vescovo e un giovane ragazzo. Senza dubbio, insomma, un'altra candidatura che «serve» al Cavaliere «per vincere». Anche se, a ben guardare, il personaggio è visto come fumo negli occhi dall'attuale governo di Cristina Kirchner che probabilmente farà di tutto per contrastare la candidatura.
Ma le sorprese nelle liste dei candidati del Pdl riservati ai 3.649.000 italiani iscritti alle liste dell'Aire, non finiscono qui. Nella ripartizione Europa ad esempio - una delle quattro in cui viene ripartita la circoscrizione estero secondo la legge Tremaglia - il deputato uscente Massimo Romagnoli, proveniente da Glyfada, una delle zone residenziali di Atene, il cui nome fino a un mese fa era addirittura indicato come papabile ministro degli italiani all'estero in caso di vittoria del Pdl, è stato relegato invece al decimo posto della lista per la Camera. Al suo posto come capolista c'è invece il leghista Giuseppe Learco Plebani, già candidato alle scorse elezioni senza alcun successo. Nel centrodestra parlano di «errore», ma forse confidano nel fatto che all'estero gli elettori possono indicare la preferenza, vigendo per la Camera il sistema strettamente proporzionale. Di certo dovranno fare i conti anche con l'Udc che nella ripartizione America settentrionale presenta alla camera lo statunitense Massimo Seracini, che potrebbe sedurre l'elettorato cattolico fedele al deputato uscente Salvatore Ferrigno, inspiegabilmente non riconfermato nel Pdl.
D'altra parte la sorpresa che riservarono gli italiani residenti all'estero alle elezioni politiche del 2006 nessuno l'ha dimenticata. Perciò nessuno vuole perdere l'occasione di un voto che potrebbe ancora una volta risultare decisivo. Eppure in entrambi gli schieramenti le previsioni più gettonate danno una sostanziale parità, 6 deputati. Voce però già circolata anche nel 2006, fino al clamoroso risultato che vide l'Unione aggiudicarsi otto deputati e quattro senatori contro i quattro e uno del Polo. L'errore allora fu tutto della coalizione di centrodestra che non riuscì a tenere a bada il senatore Mirko Tremaglia e la sua personale lista. La tenuta della coalizione di centrosinistra invece premiò l'Unione anche se, con la vittoria in tasca, i democratici rivendicavano di aver semplicemente raccolto quanto seminato in «trent'anni di lavoro con gli emigranti italiani nel mondo». Il panorama questa volta è completamente diverso, più simile a quello delle altre circoscrizioni. «Eppure se non si riconosce la specificità del voto all'estero non capisci nulla di come andranno queste elezioni», spiega Norberto Lombardi, altra colonna portante del Coordinamento Pd italiani nel mondo. Loro, dicono, ci hanno provato a fare un accordo con le altre forze di sinistra: «Potevamo giocare un'asimmetria politica all'estero, fermo restando la specificità italiana», spiega Lombardi. Non ci sono riusciti. E così oggi i loro candidati sono "minacciati" dalla presenza delle liste della Sinistra arcobaleno (che non si presenta in Nordamerica), di Sinistra critica (solo in Europa), ma anche e forse soprattutto da quelle di Luigi Pallaro e Ricardo Merlo in Sudamerica. In particolare, a turbare i sogni dei democratici è la lista Movimento Associativo Italiani all' Estero, l'ultima invenzione dell'argentino Merlo, il candidato più votato in tutta la circoscrizione durante la scorsa tornata elettorale, quando era capolista alla camera sotto il simbolo di «Pallaro senador». I due hanno litigato forse perché in Pallaro ribolle un'anima troppo conservatrice. Nelle liste di Merlo c'è una candidatura importante, quella più inquietante per il Pd: l'argentina Mirella Giai, che nel 2006 era capolista al senato per l'Unione e in un primo momento venne data per eletta. Nel riconteggio finale però venne scavalcata per pochi voti dal brasiliano Edoardo Pollastri (confermato quest'anno dal Pd, in coppia con la deputata uscente di Caracas Mariza Basile). La cosa non andò giù a Mirella Giai e così, dopo aver tentato inutilmente ricorso, ora ha deciso di passare alla concorrenza. Per il resto, le liste dei democratici non riservano grandi sorprese: tante riconferme e una sola new entry, la 29enne di Johannesburg Romina Crosato. Molto malumore invece per l'esclusione in Nord America del deputato Giovanni Rapanà, di Montreal, che alle scorse elezioni aveva ottenuto più voti di Gino Bocchino, canadese anche lui ma di Toronto, confermato capolista alla camera. Malgrado il tempo decisamente tiranno in questa tornata elettorale, anche la Sinistra arcobaleno ce l'ha fatta a presentare le liste quasi ovunque. In Europa ripropongono il deputato verde uscente Arnoldo Casola, mentre in Sudamerica puntano su esponenti dell'estrema sinistra uruguaiana, venezuelana, brasiliana e argentina. Infine al senato in Oceania, l'australiano Giovanni Sgrò, storica figura di lotte contadine. Un nome d'eccezione.
 


Per chi vota la mafia di Peter Gomez - l’Espresso

 Cari Amici,
immagino che alcuni di voi abbiamo già letto quest'articolo dell'Espresso. Ma per tutto coloro che non ne hanno avuto occasione, si tratta di un vero e proprio "vademecum elettorale", per arrivare preparati al voto!redazione 
 
Se le cose andranno come devono andare, se in Sicilia l'Udc supererà la soglia dell'8 per cento dei voti, nel prossimo Senato siederà un uomo che Giovanni Brusca, il capomafia killer del giudice Giovanni Falcone, considerava "un amico personale". Si chiama Salvatore Cintola, ha 67 anni, è laureato in lingue e in vita sua è stato prima repubblicano, poi socialdemocratico e quindi socialista. Per qualche settimana ha anche militato in Sicilia Libera, un movimento indipendentista creato nel '93 per volere del boss Luchino Bagarella. Ma alla fine ha scoperto una vocazione per il centro ed è passato alla corte di Totò Cuffaro diventando deputato regionale sull'onda di migliaia di preferenze (17.028 nel 2006). Due anni fa ad Altofonte, raccontano le intercettazioni, la sua campagna elettorale era stata condotta pure dagli uomini d'onore, ma farsi votare dalla mafia non è un reato. Frequentare i boss neppure. E così la posizione di Cintola, iscritto per ben quattro volte nel giro di 15 anni sul registro degli indagati della procura di Palermo, è stata come sempre archiviata.

Cintola, numero quattro del partito di Casini nella corsa a Palazzo Madama, può insomma tentare liberamente il gran salto in Parlamento. E se ce la farà si troverà in compagnia di una foltissima pattuglia di amici, parenti, soci, complici veri, o presunti, di mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi. Sì perché mentre Confindustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone cioè che codice alla mano non commettono un reato, ma lo subiscono), Udc, Pdl, e, in misura minore, il Pd, di fronte al rischio mafia chiudono gli occhi.

Nelle tre regioni del sud, Sicilia, Calabria e Campania, quello della criminalità è infatti un voto organizzato, al pari di quello delle associazioni dei precari (voti in cambio dei rinnovi dei contratti pubblici) o del volontariato (voti contro finanziamenti). Quanto pesi dipende dalle zone. In alcuni comuni della Calabria, ha spiegato il pm Nicola Gratteri, sposta fino al 20 per cento dei consensi. Numeri analoghi li fornisce a Napoli il sociologo Amato Lamberti che parla di una "joint venture criminale tra camorristi, imprenditori spregiudicati e e politici affaristi, in grado di orientare su tutta la regione il 10 per cento dell'elettorato". Mentre a Palermo, il vicepresidente della commissione antimafia Beppe Lumia (Pd), spiega: "I voti che Cosa nostra controlla sono circa 150mila. Sono una sorta di utilità marginale che, indipendentemente dai sistemi elettorali, serve per raggiungere gli obiettivi: o la quota dell'8 per cento al Senato, o la vittoria complessiva in caso di testa a testa. Solo alla fine della campagna elettorale, comunque, chi opera sul territorio può rendersi conto delle scelte delle cosche. È a quel punto che i mafiosi lanciano segnali: sanno di essere forti e lo fanno pesare".

 
Già, i segnali, ma quali? I colloqui intercettati durante le ultime consultazioni narrano che Cosa nostra, quando si vede richiedere il voto, sceglie spesso la linea dell'understatement. "Allora noi ci muoviamo. Però con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, capisci (altrimenti) gli facciamo danno", dicevano nel 2001 i mafiosi di Trabia a chi domandava loro un appoggio per la candidatura di Nino Mormino, l'ex vice-presidente della commissione Giustizia della Camera, oggi lasciato in panchina dal Pdl. Non è insomma più epoca di evidenti passeggiate sotto braccio con il capomafia del paese. E a Palermo, per accorgerti di cosa sta succedendo, devi saper identificare i nomi e i volti di chi distribuisce manifestini o santini elettorali.

Per le politiche del 2006, per esempio, tra ragazzi del motore azzurro, l'organizzazione voluta da Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado per concorso esterno e in secondo per tentata estorsione), figurava tutta la famiglia di Rosario Parisi, il braccio destro del boss Nino Rotolo, a cui era stato pure delegato il compito di curare uno dei tanti gazebo berlusconiani. Nel quartiere popolare della Kalsa, invece, fino a venti giorni prima delle amministrative non si vedeva un manifesto. Poi, una bella mattina,sulla saracinesca del negozio vuoto del più importante latitante della zona qualcuno aveva appeso un' immagine del sindaco Diego Cammarata (verosimilmente all'oscuro di tutto). Era il via libera. Mezz'ora dopo i muri dell'intero quartiere, come gli abitanti, parlavano solo di lui.
Non deve stupire: la mafia, anzi le mafie, sono ormai laiche, non sono a prescindere di destra o di sinistra, e prima della chiamata alle urne fanno dei sondaggi. Come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè l'organizzazione ha uomini ovunque in grado di percepire gli umori dell'elettorato. Poi, quando diventa chiaro chi può vincere, stringe accordi con chi è disponibile al dialogo. O imponendo candidature, o offrendo voti in cambio di soldi, appalti o favori. Anche per questo, e non solo per distrazione, nelle liste oggi c'è finito di tutto. In Sicilia, per esempio, presentare Cuffaro, condannato in primo grado a 5 anni per favoreggiamento, è stato come segnare una svolta.

Cintola a parte, l'Udc fa correre alla camera Francesco Saverio Romano, tutt'ora indagato per concorso esterno; Calogero Mannino, imputato davanti alla corte d'appello di Palermo; e Giusy Savarino, che solo un mese fa ha visto il Tribunale inviare, al termine del processo 'Alta Mafia', alcuni atti che la riguardano alla procura. Secondo i giudici dalle intercettazioni e dai verbali emerge come nel 2001 lo scontro sulla sua candidatura alle regionali tra suo padre, Armado Savarino, e l'ex assessore Udc, Salvatore Lo Giudice, poi condannato a 16 anni di reclusione, sia stato risolto dalla mediazione del boss di Canicattì, Calogero Di Caro.

Certo, si può benissimo concordare con Pier Ferdinando Casini, il quale di fronte alle polemiche, fin qui limitate al nome di Cuffaro, ripete "non è giusto che le liste le faccia la magistratura". Resta però il fatto che il numero di suoi candidati risultati in rapporti con uomini di Cosa nostra, o coinvolti a vario titolo in indagini per mafia, è altissimo. Troppi per ritenere che le accuse lanciate dai pentiti, secondo i quali il voto per il partito di Cuffaro negli ultimi anni sarebbe stato compatto, siano del tutto campate in aria. In questa situazione, con la magistratura che non può intervenire perché per arrivare al processo ci vuole (giustamente) la prova dell'accordo con i mafiosi, a denunciare e bonificare ci dovrebbe pensare la politica.

Il tentativo della commissione Antimafia di far approvare, per iniziativa del senatore di Forza Italia Carlo Vizzini, un codice etico che impedisse la presentazione di candidati collusi almeno alle amministrative del 2007 è però rimasto lettera morta. Al primo febbraio del 2008 su 103 prefetture, solo 86 avevano inviato alla commissione una fotografia di quello che era accaduto nelle urne sei mesi prima. E stando a quanto risulta dai documenti che 'L'espresso' ha letto, mancavano, tra l'altro, all'appello le risposte delle provincie di Avellino, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Taranto e Trapani. I partiti avversari poi tacciono tutti. Il Pdl, nonostante le polemiche contro il "cuffarismo e il clientelismo", è prudentissimo. Anche perché gli azzurri in lista non si sono limitati a ricandidare il senatore Pino Firrarello, condannato in primo grado per turbativa d'asta aggravata e ora sotto inchiesta per concorso esterno, o l'ex sottosegretario Antonio D'Alì, ex datore di lavoro del superlatitante Matteo Messina Denaro, e oggi accusato dall'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano di aver voluto il suo trasferimento per fare un piacere a Cosa nostra (sulla vicenda è in corso un'indagine e un processo per diffamazione).

Negli elenchi fa capolino pure la new entry Gabriella Giammanco, ex aspirante velina, volto giovane del Tg4, ma soprattutto nipote di Vincenzo Giammanco, definitivamente condannato come socio e prestanome di Bernardo Provenzano. E poi ci sono tutti gli altri. A partire da Gaspare Giudice, assolto in primo grado dalle accuse di mafia con una sentenza in cui il tribunale sostiene di aver però "verificato con assoluta certezza" l'appoggio datogli da Cosa nostra nel 1996 e "con grandissima probabilità" anche nel 2001. Per arrivare a Renato Schifani, considerato in pole position dal 'Giornale' come futuro ministro degli Interni, sebbene negli anni '80 sia stato a lungo socio, assieme all'ex ministro Enrico La Loggia, della Siculabrokers: una compagnia in cui figuravano anche Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, e Benny d'Agostino, imprenditore legato per sua ammissione al celebre capo di tutti i capi, Michele Greco.

Insomma, meglio non discutere di mafia. Un po' come fa il Pd messo in imbarazzo dalle proteste di Beppe Grillo e della Confindustria, quando con un colpo di mano aveva tentato di escludere dalle liste Beppe Lumia. Dietro a quella scelta non è difficile vedere l'ombra del grande avversario di Lumia, il dalemiano Mirello Crisafulli, filmato mentre discuteva, dopo averlo baciato, di appalti e favori con i boss di Enna, Raffaele Bevilacqua. Da quando nel 2007 Lumia, condannato a morte da Cosa nostra, aveva definito la sua candidatura inopportuna, Crisafulli, grande amico di Cuffaro, non lo salutava più. Poi in lista c'era finito solo Crisafulli e Lumia era stato recuperato come numero uno al Senato solo quando era diventato chiaro che stava per passare con Di Pietro. In compenso tra gli aspiranti deputati del Pd è comparso Bartolo Cipriano, ex sindaco e poi consigliere del comune messinese di Terme Vigliatore, sciolto per mafia nel 2005.

Meglio vanno le cose in Calabria, dove le liste di Veltroni, capeggiate dall'ex prefetto De Sena sono in buona parte pulite (al contrario di quanto era accaduto con le regionali quando la 'ndrangheta votò per il centrosinistra). Tra i democratici suscita qualche perplessità principalmente il nome di Maria Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, il vice-presidente della regione ucciso dai clan, sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato nell'ambito delle indagini sulle infiltrazioni mafiose alla Asl di Locri. Qui, come in Campania, la battaglia con il centrodestra si profila in ogni caso all'ultimo voto. E il Pdl candida al Senato (decimo posto) addirittura Franco Iona, cugino primo del boss Guirino Iona, capo dell'omonima cosca crotonese ora in carcere dopo anni di latitanza. Nel 2005 Iona non aveva potuto correre per le amministrative con l'Udeur proprio a causa della sua ingombrante parentela. Ora, nonostante le proteste del presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, Iona si dà da fare per raccogliere voti e ribadisce di essere incensurato.

Difficile comunque che ce la faccia, al contrario di Gaetano Rao, numero 17 del partito di Berlusconi e Fini alla Camera, e soprattutto nipote di don Peppino Pesce, vecchio boss dell'omonima e potentissima cosca di Rosarno. Per uno strano scherzo del destino Rao si ritrova candidato assieme ad Angela Napoli (An), membro della commissione Antimafia e feroce avversaria della 'ndrangheta. La Napoli, insomma, ingoia amaro anche perché con lei sono candidati Pasquale Scaramuzzino, l'ex sindaco di Lamezia Terme, un comune sciolto nel 2002 dal governo per mafia in seguito a una sua battaglia, e Giuseppe 'Pino' Galati, allora leader del Ccd: un partito che l'attaccava a tutto spiano.

Anche in Campania, dove solo nella provincia di Napoli, sono stati sciolti 15 comuni (in prevalenza di centrosinistra) dal 2001 a oggi, c'è incertezza. Alle prese con l'emergenza rifiutiil Pd pare essersi mosso con relativa cautela, anche perché scottato dalle indagini sul clan Misso e i suoi rapporti con la Margherita. Tutt'altra storia sono invece le liste degli avversari. In Parlamento entrerà Sergio De Gregorio, l'ex dipietrista subito convertito a Berlusconi, indagato per riciclaggio dopo che sono stati scoperti suoi assegni in mano a Rocco Cafiero detto ''o capriariello', un contrabbandiere considerato organico al clan Nuvoletta. Con lui ci sarà Mario Landolfi (An), ora costretto a fronteggiare l'accusa di essere stato appoggiato nel 2006 da un manipolo di camorristi. E c'è pure Nicola Cosentino, uno che la mafia se l'è trovata suo malgrado in casa, visto che uno dei suoi fratelli ha sposato la sorella del boss, detenuto al 41 bis, Peppe Russo, detto 'o padrino'. Insomma, c'è da stare tranquilli. Comunque finiranno le cose il 13 aprile avremo un Parlamento specchio del paese. Peccato solo che a essere riflessa, almeno nel sud, sarà anche la parte peggiore.

hanno collaborato Arcangelo Badolati, Giuseppe Giustolisi, Roberto Gugliotta e Claudio Pappaianni
(20 marzo 2008)


Acqua azzurra, acqua «antidepressiva» da "il manifesto" del 25 Marzo 2008 - di Luca Celada

La specialità di Los Angeles sono gli ansiolitici e gli antiepilettici, nel New Jersey dominano le medicine per l'angina e i tranquillanti come la carbamazepina a Tucson vanno gli antibiotici e a San Francisco c'è una spiccata presenza di ormoni. Un menù farmacologico che comprende antidepressivi, antidolorifici, anticoagulanti, diuretici antinfiammatori e farmaci per il controllo del colesterolo, tutti nell'acqua potabile rilevati da un indagine della Associated Press sulle scorte di acqua dei 50 stati americani comprese 24 grandi zone urbane. Conclusione dell'inchiesta durata 4 anni: «l'acqua potabile usata da almeno 41 milioni di americani è contaminata da una vasta gamma di sostanze farmacologiche».
Si tratta è vero di dosi «traccia» ben al di sotto di quelle ritenute nocive o anche efficaci ma lo studio basato su centinaia di analisi di laboratorio, rilevamenti ambientali e interviste con esperti, conferma che le acque potabili assomiglianao sempre di più ad un «brodo primordiale» farmacologico pieno di supplementi ormonali, antibiotici, anticonvulsivi, psicofarmaci, i residui insomma delle 3,7 miliardi di ricette mediche fatte in America più un altro 3 miliardi e rotti di medicine da farmacia assunte annualmente. Un fenomeno naturalmente non limitato agli Stati uniti; risultati analoghi sono stati rilevati in Canada oltre che in Australia, Asia e Europa.
La fonte delle sostanze chiaramente siamo noi, sempre più popolazione ipermedicata. I farmaci che assumiamo in quantità collettivamente mastodontiche vengono infatti assorbiti solo in parte dal metabolismo degli organismi cui sono inizialmente destinati (i nostri) mentre le quantità eccedenti espulse tornano nell'ambiente attraverso gli scarichi fognari. Sommariamente filtrate queste acque di scarico sono reimmesse nell'ambiente, in laghi e fiumi, riutilizzate per l'irrigazione dei campi, e riassorbite nel ciclo naturale di evaporazione e scolo per tornare infine alle falde acquifere. A volte sono le stesse acque di superficie ad essere purificate per essere riutilizzate direttamente come acqua potabile, ma i sistemi di depurazione non sono però sufficienti a sbarazzarsi del tutto delle sostanze chimiche che compongono i medicinali.
Nessuno conosce gli effetti dell'esposizione cronica a piccole dosi di questo «casuale» cocktail farmaceutico ad esempio sul metabolismo cellulare ma come ha rilevato uno degli esperti consultati dalla Ap, anche se le dosi sono minime si tratta pur sempre di sostanze prodotte per avere effetti specifici sull'organismo umano e quindi almeno potenzialmente più specificamente nocive di veleni ambientali come i pesticidi. Più inquietante ancora è la questione dell'impatto epidemiologico, gli effetti prodotti su una popolazione esposta anno dopo anno a piccole dosi di analgesici o antidepressivi o antibiotici, una specie di omeopatia inversa e perniciosa dagli effetti ignoti sulla tolleranza o le allergie, per citare solo due esempi. Nel caso degli antibiotici proprio la diffusione ambientale pervasiva in piccole dosi dell'attuale campionario sembrerebbe lo scenario ideale per rafforzare le resistenze dei patogeni. Né si tratta di un fenomeno limitato alle aree urbane ad alta densità visto che positivi ai farmaci sono risultati anche campioni prelevati in zone rurali, in campagna inoltre si aggiungono i problemi dovuti alle perdite incontrollate dei pozzi neri. I farmaci sono stati trovati infine anche in acque in bottiglia in particolare quelle contenenti acqua di rubinetto filtrata dato che i medicinali non vengono eliminati da filtri covenzionali ma solo da sistemi sofisticati e costosi come l'osmosi inversa. I risultati dell'inchiesta hanno dimostrato soprattutto una cosa: la terra è una biosfera, un sistema biodinamico chiuso la cui capacità di assorbire e smaltire l'impatto dell'uomo sta rapidamente raggiungendo il limite. La pressione che stiamo applicando all'ambiente sta cioè contaminando una delle risorse più preziose: l'acqua pulita.
 


dal blog di Jacopo Fo: come si bacia una ragazza

da www.jacopofo.com
Internet è il paese delle meraviglie.
Google offre un servizio gratuito di statistiche per il tuo sito.
Così puoi sapere un mucchio di informazioni.
Ad esempio che parole chiave usa chi arriva sul tuo sito.
19 ragazzi hanno cercato "Come si bacia una ragazza" e qui spiegherò come si fa.
Questo perché mi sono commosso di tenerezza pensando a quanto anch'io ho patito e mi sono arrovellato chiedendomi come dovessi fare per baciare una ragazza.
Una vera cattiveria che non lo insegnino a scuola.
Comunque passiamo a spiegare come si bacia.
1) La cosa importante da capire è che le ragazze amano la dolcezza.
Il bacio dovrebbe essere un modo per comunicare con i movimenti quello che le parole non possono dire.
Emozione. Baciare è come scrivere una poesia.
Molti maschi baciano come se fosse una competizione sportiva, una prova di coraggio, una dimostrazione di forza fisica, una lotta tra lingue.
NO!!!
Baciare è un modo per raccontare una similitudine poetica: sei tanto bella che ti mangerei come se tu fossi una fragolina di bosco.
Sei tanto amabile che ti succhierei come se tu fossi un cioccolatino.
Sei tanto morbida che mi viene voglia di giocare a saggiare la tua morbidezza.
Inoltre se muovi la lingua e basta, senza lasciarti andare alle sensazioni che la bocca, le labbra e la lingua di lei ti fanno sentire allora bacerai uno schifo.
La chiave di tutto è mettersi in uno stato d'animo contemplativo, rilassato e sorridente.
Avvicinare le labbra alle sue come se stessi per assaporare la miglior crema alla vaniglia del mondo e ascoltare il lento accarezzarsi di labbra e lingue.
Poi se vuoi puoi anche muovere la lingua un po' più velocemente ma solo se da questo movimento trai una sensazione fisica piacevole.
Ma la velocità non fa punteggio, è un gioco di ascolto non una gara di corsa.
Più ascolti le sensazioni, più entri in empatia con la ragazza, più riesci a lasciarti andare e i movimenti diventano spontanei, la mente smette di pensare e tu sei lì che non fai niente altro che ascoltare cosa ti piace di più nei movimenti che fai.
Non pensare "adesso devo fare questo, adesso devo fare quello".
Non c'è nessun copione da eseguire.
Nessuno sa come deve essere un bacio, nei dettagli.
Ogni bacio è un caso unico a sé.
Il bacio è una poesia inventata al momento lasciando che le parole vengano fuori spontaneamente, senza stare lì a controllare se sono giuste o sbagliate. Fidati: quando sei in questo stato libero e sorridente della mente scopri che sai come fare a farla impazzire senza doverci pensare. E’ la magia della natura. Baciarsi è una cosa che è scritta nel tuo DNA. Non la devi imparare. Devi scoprire che lo sai già fare.
2) LA TECNICA DEL BACIO
Chiarito lo scopo del bacio e lo stile del bacio passo a descrivere la tecnica del bacio.
Baciarsi consiste nel socchiudere la bocca, senza esagerare, non sei dal dentista. Le bocche dischiuse si avvicinano.
Sopratutto nel primo bacio con una ragazza nuova è importante l'istante dell'impatto.
Non sei obbligato ad andarle a sbattere contro fratturandole un labbro.
Anzi è più carino, emozionante, lasciare che l'emozione che senti prenda il controllo. Probabilmente ti sentirai tremare dentro, il cuore che batte come una mitragliatrice d'assalto, le mani fredde e sudate, un crampo alla pancia o allo stomaco eccetera eccetera.
OK! E' tutto regolare. Può sembrare assurdo ma il vero motivo per cui ci si bacia è proprio quello di sentire queste sensazioni bomba.
All’inizio ti spaventano perché pensi derivino dalla tua insicurezza e sospetti che sverrai, ti farai la pipì addosso, morirai, le starnuterai in faccia o dirai qualche cazzata mostruosa, e lei non vorrà mai più baciarti e andrà a dire alle sue amiche che sei uno sfigato mondiale.
Butta via tutte queste paranoie e dedicati ad assaporare come l’emozione ti fa perdere il controllo della mente. Osserva come in realtà è molto piacevole questa confusione mentale.
Sei perfettamente in grado di sopravvivere a questo scombussolamento.
E non è niente male. Comunque molto meglio che essere ubriachi.
A questo punto le tue labbra sono a centimetri 1 dalle sue di lei.
OK fermati per un istante e annusa l’aria. Sentirai il profumo della sua pelle. Se è la prima volta che dai un bacio questo ricordo ti accompagnerà per tutta la vita e sarà qualche cosa di tenerissimo che riguarderai con dolcezza. E’ uno dei ricordi essenziali della vita, di quelli che ti puoi portare nella tomba (i ricordi dolci sono l’unica cosa che ti potrai portare nella tomba).
Ora avanza lentamente fino a sfiorare le labbra di lei con le tue.
A mé da molto gusto ascoltare che sensazione provo quando avviene questo impatto sfiorante. E poi saggiare le labbra di lei con una lievissima pressione delle mie. Sentire quanto sono elastiche.
Quindi uno può indugiare a fregarsi le labbra come fanno i cavalli. Oppure può avanzare con la lingua in terra straniera.
Immagina le due bocche socchiuse di profilo: tra le labbra e i denti si forma uno spazio. Lì le lingue si incontrano inizialmente. E tu lecchi la sua lingua.
Se pensi di dare una leccatina a un gelato che ha un gusto nuovo riesci a immaginare come dovrebbe muoversi la lingua. Né troppo dura-rigida né troppo molla-lumaca-morta, né troppo rapida.
E’ una lingua che si muove per andare a sentire il sapore.
Una lingua che cerca il piacere del gusto.
E a questo punto assapora il sapore che ha la ragazza che stai baciando. Ogni donna ha un sapore diverso e trovare il sapore che ti soddisfa veramente è lo scopo della vita. E magari hai la fortuna di trovare il sapore assoluto per te al primo bacio.
Quindi ascolta bene.
Successivamente puoi iniziare a fare i movimenti che vuoi, entrare nella sua bocca con la lingua (senza esagerare sennò la soffochi), oppure scivolare sui suoi denti, arrotolarsi e spintonarsi (delicatamente) con la punta della lingua di lei, bearsi in strofinamenti, leccatine. Alternare momenti in cui sono le lingue a parlarsi ad altri nei quali si parlano le labbra. Ma si può anche indugiare a leccare un labbro.
Ma in effetti quel che fai non è tanto importante. All’inizio uno prova gusto a sperimentare. Poi trovi che ci sono determinati movimenti che ti danno più gusto e che staresti lì a goderteli in eterno, oppure no, magari ti piacerà sempre cambiare. Ma insomma questo non è importante. Non è importante cosa fai ma come lo fai. E questo è un principio che non vale solo per il bacio.
Comunque non serve pensare e progettare i movimenti della lingua. Anzi questo è il vero pericolo, l’errore madornale. L’obiettivo è che la parte inconscia della tua mente si occupi dei movimenti della lingua e delle labbra e che tu (essere razionale) ti limiti a stare lì a goderti e assaporare le sensazioni piacevoli. Se farai così sarai spontaneo, non controllato, e il tuo corpo, che possiede una saggezza di milioni di anni di evoluzione, saprà benissimo trovare i movimenti più piacevoli per te e per lei.
Le donne sentono se stai a fare i piani di come muoverti e non ti lasci andare. E non gli piace. E’ come per il ballare. Se pensi ai movimenti che devi fare fai schifo.
Se ti lasci andare ad ascoltare la musica il tuo corpo si muove per conto suo e tu balli bene e ti senti bene.
Questo è tutto.
Buon Bacio a tutti.
PS
Ricordati che un buon bacio può essere rovinato dall’alito cattivo. Un buon amante si lava i denti e la lingua con cura, mangia caramellane alla menta, foglie di menta, gocce di olio essenziale alla menta o simili. Anche lavarsi le ascelle è utile. E se pensi di arrivare molto lontano lavati bene anche il pisello.
E asciugalo con cura dopo averlo lavato sennò rischi fastidiose irritazioni.
Per altre informazioni sul mondo del sesso vedi www.sessosublime.it.


Il Tibet libero e le Olimpiadi

tratto dal sito www.peacelink.it
Sono stato un atleta per molto tempo. Ho indossato la maglia azzurra e, come tutti gli atleti degni di esser chiamati tali, ho sempre sognato le Olimpiadi. Ma ho un'altra idea di Olimpiadi.

17 marzo 2008 - Flaviano Bianchini

"Assegnando a Pechino i Giochi, aiuterete lo sviluppo dei Diritti Umani." Con questa frase, che di fatto ammette le violazioni dei Diritti Umani, Kiu Jingming, vicepresidente del Comitato olimpico di Pechino, riuscì a convincere il CIO ad assegnare alla Cina i Giochi olimpici del 2008.
Ecco. In questi giorni in Tibet potete vedere come la Cina sta sviluppando i Diritti Umani. 

Pochi mesi fa il governo centrale, guidato da Hu Jintao, ex governatore del Tibet che represse nel sangue la rivolta dell'89, ha emanato una legge che consente alla polizia di incarcerare tutti i potenziali dissidenti per evitare brutte figure durante i Giochi. Altra mossa di valorizzazione dei Diritti Umani.
Così come valorizzazione dei Diritti Umani è reprimere nel sangue una rivolta pacifica. O assediare i monasteri dove si rifugiano i monaci. O sparare sulla folla che sfila pacificamente per le strade del Barkor.
Tutti i Paesi occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa, si sono lanciati in mirabolanti dichiarazioni di gioia e felicità per l'indipendenza del Kosovo. Ma nessuno mai si pronuncia per l'indipendenza del Tibet. Addirittura in Italia nessun membro del Governo, né dello Stato, né della Chiesa, ha ricevuto il Dalai Lama in visita nel novembre scorso. Il Dalai Lama è venuto in Italia, ha fatto le sue conferenze, ha incontrato gli altri Nobel per la Pace, ha fatto le sue interviste ed è ripartito senza che nessuno lo ricevesse in via ufficiale. Come un "turista" qualsiasi...
Sono stato un atleta per molto tempo. Ho indossato la maglia azzurra e, come tutti gli atleti degni di esser chiamati tali, ho sempre sognato le Olimpiadi. Ma ho un'altra idea di Olimpiadi. Vorrei qui ricordare che nell'antica Grecia durante le Olimpiadi venivano sospese le guerre e che il Sudafrica non ha potuto partecipare ai Giochi fino a quando non ha abolito l'apartheid e che a Mosca '80 gli Stati Uniti non parteciparono e l'Italia partecipò senza bandiera per protestare contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan.
E oggi?
Oggi, non solo si da l'organizzazione dei Giochi al Paese che più in assoluto viola i Diritti Umani, ma nessuno si preoccupa di boicottarli se il governo di questo Paese reprime nel sangue una legittima e pacifica manifestazione di indipendenza di un paese occupato.
Non un solo Paese ha in mente di boicottare i Giochi. E in Italia gli unici partiti politici che si pronunciano in tal senso sono i leghisti che ne approfittano per rilanciare le loro idee di protezionismo economico e i Radicali che da sempre si battono per i Diritti Umani.
Gli altri? Tacciono. O fanno un timido rimprovero alla Cina per la repressione e si augurano che tutto si sistemi al più presto.
Mario Pescante, presidente del CONI, ha addirittura dichiarato che la sua preoccupazione per le Olimpiadi non è il Tibet ma i possibili attentati dei terroristi islamici...
Ci sono diverse manifestazioni davanti alle ambasciate cinesi di tutta Europa; ma, secondo me, non è lì che vanno fatte. Queste manifestazioni bisognerebbe farle davanti ai governi.
Io VOGLIO vedere il nostro governo e i nostri candidati premier fare qualcosa.
VOGLIO vedere i leader mondiali discutere dell'opportunità dei Giochi in Cina.
VOGLIO vedere il CIO discutere di una sede alternativa anche se in extremis.
VOGLIO sentire il CONI che si pronunci sul ritirare i nostri atleti, o quanto meno la nostra bandiera, dalle Olimpiadi.
Nel 2001 furono assegnati i Giochi a Pechino nella speranza che ciò contribuisse a far aprire la Cina al mondo, ed è solo boicottando i giochi che si può far capire alla Cina che per aprirsi al mondo non basta un'economia forte. Ci vuole anche il rispetto dei Diritti Umani.
 

Copyright © Flaviano Bianchini


La Chiesa al suo posto di Rossana Rossanda - il Manifesto

Cari amici,
credo che questo meraviglioso articolo di Rossana Rossanda raccolga molte delle opinioni espresse tra vostri commenti...
redazione
Che campagna elettorale! Poche idee, bassezze, graffi, scuse, perfino Vespa si annoia. Nel Popolo della Liberta gli slogan di sempre sono pieni di disprezzo per l'avversario. Berlusconi aggiunge una prudente allusione ai tempi difficili che verranno - recessione, euro troppo alto, petrolio alle stelle - per cui (ma non lo dice) si stringerà la cinghia. Invece Veltroni gioca la carte delle buone maniere anche se ieri gli è sfuggito un «chi vince comanda», a prova che della democrazia hanno la stessa idea.
Lui però non mette in guardia dalle imminenti vacche magre: macché pericoli provenienti dall'esterno, sono state la sinistra e i centro-sinistra a sbagliare tutto, facendosi legare le mani dalla nefasta ideologia che contrapponeva padroni e operai, proprietari e spossessati, beni privati e beni pubblici. Usciamo da questa paralizzante menzogna! Lo pensa anche Galli della Loggia. Passate le redini in mani più giovani e refrattarie alle fantasie sociali l'Italia rifiorirà.
Bankitalia e l'Ocse informano che abbiamo in Italia i salari più bassi dell'Europa, neanche la Grecia, ma solo Bertinotti raccoglie. Gli altri tacciono perché la Banca Centrale Europea comanda: guai ad alzarli, i salari, sarebbe l'inflazione. I salariati non hanno da fare che una cura dimagrante in attesa di tempi migliori.
Eppure all'aeroporto mi hanno avvicinato due giovani, due facce pulite: Questo Veltroni, quale speranza per noi! E lei che ne pensa? Rispondo ridendo: Il peggio possibile. Sorpresa. Li guardo, due ragazzi cui il leader rinnovatore, le playstation e la tv assicurano che viviamo in un mondo senza conflitti, eccezion fatta per l'amore, la mafia e il terrorismo islamico. Che strada in salita li attende per rimediare alla devastazione di quel minimo di critica dell'economia e di spessore democratico cui eravamo arrivati. 
Non penso agli estremisti, ma a uno come Caffè, uno come Bobbio, miti persone serie, anch'esse consegnate da Silvio e Walter alle pattumiere della storia.
Non stupisce che nella generale piattezza tornino a brillare le religioni con i loro lampi lontani, ma la vicina tentazione di una nuova egemonia. Non tutte, intendiamoci, da noi si agita la chiesa cattolica apostolica romana, cujus regio ejus religio. Ratzinger parla dallo schermo ogni due giorni più la domenica, negli altri predicano i cardinali Bertone e Bagnasco. Degli altri culti approda in tv solo il Dalai Lama, ma perché perseguitato dalla Cina. Non ci arrivano le sue parole. Non la sapienza dell'ebraismo, non quella dei protestanti: la comunità ebraica italiana si fa sentire solo in politica, i secondi sono avvezzi a essere ignorati.
Silvio e Walter e Casini omaggiano più di ogni altro il Sacro soglio, ma con il ritorno del sacro hanno frascheggiato tutti. Politici e filosofi, maschi e femmine pensanti. Adesso che se ne vedono le conseguenze, più interventismo che spiritualità, proporrei alla sinistra di mettere fra le tre o quattro priorità un bel ritorno al laicismo.
Eh sì. Si finisca di traccheggiare con «laicità sì, laicismo no». E' una distinzione inventata da poco, che in parole povere vuol dire: la Chiesa ingoi la separazione dallo stato nei termini costituzionali, purché applicata «con juicio» e con i consueti strappi sottobanco, tipo esenzione dalle tasse e accomodamenti con la scuola privata . Ma ad essa lo stato deve riconoscere la competenza sulla sfera morale e del costume. Il bieco laicismo la nega, una laicità come si deve è tenuta invece a riconoscere l'autorità del papa su questo terreno.
Io penso che questa autorità non vada riconosciuta affatto. Prima di tutto, come si può parlare di etica, di scelte morali, là dove non esiste libertà di coscienza? Mi ha sorpreso che uno dei nostri amici più colti, Massimo Cacciari, abbia definito Karol Woytila come la più alta autorità «morale» dei suoi tempi. Si può parlare di fede, ed è vero che l'esperienza di fede può raggiungere grandi altezze, affascinanti, tragiche. Si può ammettere che sono spesso legati a una «rivelazione» gli squarci sapienziali che intemporalmente ci parlano. Ma fede e sapienzialità implicano una obbedienza che mette duri limiti al sapere critico e ai suoi strumenti, senza i quali non si darebbero né la modernità né un pensiero scientifico e tanto meno politico. Tanto più che a imporre limiti e veti sono le chiese, strutture del tutto terrestri e facilmente prevaricanti. Non hanno persuaso per secoli che il potere terreno fosse la mera proiezione della gerarchia teologica? Non a caso la rivoluzione francese è dovuta passare attraverso l'uccisione del re, autorità che si forgiava su quella celeste e ne era consacrata.
Dalla secolarizzazione la chiesa cattolica apostolica romana non si è mai rimessa. Spento Giovanni XXIII è stato tutto un lento rimuovere quel che ad essa concedeva il Vaticano II. Con Ratzinger la rimozione è diventata precipitosa. Specie in Italia non deflette dal riguadagnare terreno. E' ridicola l'argomentazione che si fa perché il Vaticano ha la sua sede nel nostro paese. In realtà qui ha sede la classe politica borghese più cedevole d'Europa. Il Vaticano neppure tenta in Francia una incursione sulle leggi del 1905 (che sarebbero di utile lettura ai nostri politici) e Zapatero ha messo un alt secco al tentativo di intervenire sulle elezioni in Spagna. Da noi i governi ritirano le leggi appena i vescovi vi mettono il becco.
La vicenda dei rapporti italiani fra stato e chiesa è fin paradossale. Il fascismo ha fatto il Concordato nel modo più cinico: nelle scuole elementari si cominciava con una preghiera ma poi si propinava in tutte le salse una paganissima romanità. Dopo il 1945, il Concordato sarebbe stato abolito se il miscrendente Togliatti non avesse scelto di lasciarlo in piedi per timore di una guerra di religione che isolasse i comunisti, e fu un errore, la guerra ci fu lo stesso, i comunisti furono scomunicati. Sarebbe stato il cattolico De Gasperi ad arginare le velleità integraliste di Gedda, cosa che Pio XII non gli perdonò. Sempre paradossalmente fu Craxi, primo ministro socialista, a confermare e rimaneggiare il Concordato, mentre il credente e praticante Scalfaro fu l'ultimo presidente della repubblica a non inchinarsi al santo soglio. Poi c'è stato il diluvio. Alla morte di Karol Woytila, un capo di stato dietro l'altro finirono in ginocchio, mentre i leader dei partiti di sinistra scoprivano di essere andati a scuola dai salesiani. L'Opus Dei usciva con fragore alla luce dalla clandestinità e la signora Binetti transitava direttamente al Partito democratico.
Ecco dunque una bandiera da raccogliere da parte di una sinistra che voglia restare una cosa seria. Raccogliere bandiere lasciate cadere da qualcun altro ha un suono un po' sinistro, ma afferrare quelle sventolate della chiesa cinguettando con i vescovi è una patente regressione. Fino al ridicolo. Come definire altrimenti la decisione del comune di Roma di non celebrare unioni se non eterosessuali perché il Sacro Soglio è collocato sul suo territorio? Come lasciare che i vescovi mettano il veto a una legge del parlamento sottoposta a referendum senza invitare il Vaticano a restare al suo posto? Come assistere senza aprir bocca ai ripetuti tentativi di questo o quel primate di resuscitare il Non Expedit? Se è un affare interno della Chiesa affossare passo a passo il Vaticano II, umiliando una grande speranza dei credenti, sarà bene un affare interno dello stato legiferare senza interferenze sulla famiglia, sulla sessualità, sulla riproduzione, sul diritto di morire con dignità. Da questi terreni che ineriscono alla più intima libertà anche lo stato dovrebbe ritrarre il piede, rispettando le scelte della persona, e prima di tutto quella delle donne, da sempre ossessione e bersaglio d'una chiesa tutta maschile. Una grande mutazione sta venendo da esse e ne esce mutata anche la concezione della vita e della morte - uno stato moderno, attento, prudente segue questa evoluzione non lascia alla Chiesa di emettere una fatwa alla settimana. Certo, bisogna che abbia un'idea di che cosa sia un'etica pubblica, quella che matura discutendone in libertà e responsabilità, alle soglie del terzo millennio. Ma di questo i leader del «paese normale» non hanno cura.
Loro hanno i «valori». Meno stato più mercato per i beni, meno repubblica più Vaticano. I «valori» di Berlusconi, quelli di Veltroni, quelli di Casini, quelli di Emma Mercegaglia, quelli del cardinal Bagnasco. Se ne fa un gran parlare. Un «valore» accompagna ogni vassallata, ogni porcheria. Se mi si permette (e anche se non mi si permette), molti di noi ne hanno abbastanza. Inciampiamo a ogni passo in valori di latta, mentre si torna a guardare con più disprezzo che un secolo fa alla vita e alla libertà di chi lavora nel frenetico accendersi e spegnersi di migliaia di imprese senza regole. Assimilati ormai ai poveri, cui si deve al più un briciolo di compassione.
Se non è declino morale questo, travestito da affidamento ai principi della Borsa, della Confindustria e di oltretevere, la ragione non ha più corso.