"Io, vedova di guerra, in un Paese senza memoria" La Repubblica, CARLO BONINI
Il marito perso in Iraq, una figlia da crescere, le lacrime e i ricordi
ma anche le malignità della gente: vita di una moglie di caduto in missione
Il tempo di Alessandra Cellini è due volte maledetto. Come può esserlo solo quello delle vedove di guerra in un Paese in pace che non conosceva guerre da mezzo secolo. Maledetto perché ogni bara avvolta nel tricolore che torna su un C-130 impedisce alla ferita di cominciare anche soltanto a cicatrizzarsi. Maledetto perché il lutto, privato, non si fa mai memoria condivisa, collettiva. Resta un terribile fardello da trascinare in solitudine.
Occasione di chiacchiericcio malvagio, perché, oggi, nella provincia italiana di un Paese in guerra solo con se stesso, dove si fatica ad arrivare alla quarta settimana, si può anche invidiare una vedova di guerra, per quel che la guerra le ha tolto (un marito e un padre) e quel che la guerra le ha dato: un vitalizio, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, una casa in cui far crescere un'orfana.
Alessandra aveva 27 anni e una bimba di 10 mesi, Giorgia, quando il 21 gennaio del 2005, suo marito, Simone Cola, 32 anni, maresciallo dell'aviazione dell'esercito, veniva ucciso nei cieli dell'Iraq. Vivevano a Viterbo, allora, non lontani dalla caserma dove era di stanza Simone. Le immagini di quei giorni sono rimaste le prime e le ultime rubate a una giovane famiglia divisa per sempre. Simone Cola il giorno del matrimonio; Simone Cola in mimetica accanto alla fusoliera del suo elicottero; Alessandra con il capo reclinato sulla spalla del capo dello Stato il giorno dei funerali nel Duomo di Ferentino. Poi, più nulla. Il lutto pubblico ha un suo rituale. I suoi tempi. Tre giorni. Alessandra e la sua bimba sono state ricacciate nel buco di anonimato da cui non avrebbero mai voluto uscire.
Oggi Alessandra ha trent'anni e da tre anni prova ogni giorno a ricominciare a vivere. "Dopo la morte di Simone io e Giorgia lasciammo la casa di Viterbo e tornammo qui dove sono cresciuta, a Ferentino. Da sola non ce la facevo. Ho la fortuna di avere un fratello e una sorella e dei genitori ancora giovani. Per un anno tornai a casa, insieme a loro. Poi, una mattina, capii che non era giusto. Non era giusto per me e soprattutto per mia figlia. Io, lei e Simone eravamo stati una famiglia. Io e lei da sole dovevamo tornare ad essere quello che di quella famiglia restava".
Con la somma che le liquida il ministero della Difesa, Alessandra compra un piccolo appartamento in un dignitoso condominio, abitato da altri cinque vicini e lo intesta a Giorgia. Arreda la casa con gli oggetti e i mobili, che, un anno prima, un camion dell'Esercito aveva caricato in un cassone a Viterbo. Il divano è lo stesso. Il letto matrimoniale è lo stesso. La vetrinetta del salone e le cornici con le foto di una coppia felice con la propria bimba sono le stesse. Anche l'armadio è lo stesso, dove continuano ad essere appesi i vestiti di Simone.
"Solo una cosa non ho avuto il coraggio di fare. Aprire le casse che sono tornate indietro dall'Iraq. Credo siano solo gli indumenti di Simone. Credo. Le tengo una sull'altra. In un angolo. E forse non le aprirò mai. L'unica cosa che ho voluto di quel posto me l'hanno data i colleghi di Simone. Un peluche che aveva comprato per Giorgia".
Nel 2005, Francesco Storace, senatore di An, allora governatore del Lazio, trova ad Alessandra un posto alla "Bic Lazio" di Frosinone, azienda di sostegno allo sviluppo delle imprese. Uno stipendio modesto, ma pur sempre uno stipendio, che, con i 1500 euro di vitalizio riconosciuti alle vedove dei caduti, consente di arrivare alla fine del mese senza affanni. Alessandra comincia ad alzarsi alle sei ogni mattina, dal lunedì al venerdì, per poter essere in ufficio per le 8.30. Sveglia Giorgia, le prepara la colazione, la veste per andare all'asilo.
Un istituto di suore, dove ogni pomeriggio, quando torna a prenderla, le raccontano la giornata di quella bimba. Se e quante volte ha chiesto di vedere il padre. Che cosa ha ascoltato dalla voce dei suoi compagni. Capisce presto che Giorgia non può sopportare separazioni troppo lunghe. Alla "Bic" le concedono il part-time, perché alle tre e mezza del pomeriggio lei possa essere di nuovo davanti al cancello dell'asilo.
"Non è vero che a dieci mesi, quanti ne aveva Giorgia quando morì Simone, i bambini non ricordano. I bambini ricordano, ascoltano e aspettano. Per molto tempo ho avuto solo la forza di dirle che "papà era dovuto salire in cielo da Gesù perché Gesù gli aveva chiesto di aiutarlo con i bambini che erano in cielo con lui". E lei, che sapeva che il padre volava sugli elicotteri, per due anni, ogni volta che vedeva un elicottero su per aria diceva che era il padre che stava andando da Gesù".
Poi è arrivato il giorno in cui la verità ha bussato con la voce di un bambino. "Giorgia è tornata da scuola e mi ha chiesto piangendo se era vero quello che le avevano detto i suoi compagni. Che al papà avevano sparato dei signori cattivi. E io le ho detto che, sì, era vero. E che per questo papà era salito da Gesù. Lei non ha più chiesto, ma continua ad aspettarlo. A chiedere perché sono sempre io che vado a prenderla il pomeriggio a scuola e non il papà, come gli altri bambini. Ci vorrà tempo".
Ci vorranno altre parole che non è semplice trovare e che ad Alessandra, una volta ogni due settimane, non suggerisce un assistente sociale, ma una psicologa dell'esercito, che lei va a trovare al ministero della Difesa.
È a lei che racconta le sue giornate, i suoi colloqui con Giorgia, i sogni e gli incubi che popolano le sue notti. "E' un sostegno fondamentale". È un luogo. È un numero di telefono da comporre quando se ne avverte il bisogno. Perché le vedove di guerra non hanno una rete autonoma, una struttura di volontari che aiuti nella condivisione. Vivono il lutto in clandestinità. Si incrociano, se capita, alla consegna di una medaglia al valore ("Simone ha ricevuto la "croce d'onore alla memoria" nel 2005, dall'allora capo di stato maggiore dell'Esercito Cecchi), di una targa commemorativa, in una camera ardente ("A me capitò di essere in quella di altri quattro elicotteristi a Viterbo"). Accolgono un'altra donna con cui condividere lo stesso dolore con un telegramma, raramente con una telefonata.
"Perché ogni volta significa riprecipitare nello stesso baratro". L'unica famiglia, oltre quella di sangue, resta quella che si è portata via un pezzo della loro vita. L'Esercito, l'Aviazione, la Marina, i Carabinieri. I loro veterani. Ufficiali, sottufficiali, che spesso non riescono a perdonarsi di non essere riusciti a riportare indietro tutti.
È un microcosmo che impasta affetti, dolore, sensi di colpa, oltre il quale c'è il buio e il chiacchiericcio malvagio di un Paese che sa essere feroce, perché ha perso il rispetto di se stesso. Alessandra ha cominciato ad avvertirlo presto. Voci che si gonfiano e che la umiliano. All'angolo di una strada, in un supermercato, nei pettegolezzi da bar. "Mò si lamenta. Ma non ce l'hanno mica mandato al marito. Lo ha fatto per i soldi". "Hai visto la casa? Ha pure il posto fisso... È proprio vero: peggio per chi se ne va, meglio per chi resta". "A un certo punto ho deciso che avrei cominciato a rispondere. Perché tacere avrebbe significato offendere la memoria di Simone. Ucciderlo un'altra volta. E così ho fatto. Così continuo a fare. L'ultima volta che mi è capitato di rispondere l'ho gridato: 'Per me, morire in guerra è come morire in fabbrica'. La vita di un operaio vale la vita di un soldato. Simone stava servendo questo Paese, come lo serve ogni mattina chi esce di casa che è ancora notte per andare a lavorare. Ho la fortuna - e so che è una fortuna - di non essere stata abbandonata dallo Stato, ma non voglio, non è giusto che debba vergognarmene o giustificarmi".
Alessandra non sa se "la cattiveria" (la chiama così) sia figlia del ripudio per una guerra lontana che nessuno ha dichiarato e che la politica continua a chiamare con un altro nome. O della feroce solitudine di chi è vivo, ma per lo Stato resta un invisibile: disoccupato, flessibile o pensionato che sia. Sa una cosa sola. "Che presto inaugurerò un'associazione di volontari che porterà il nome di Simone e comincerà a dare una mano a chi ha bisogno qui, a casa nostra, tra la nostra gente".
Alessandra avrà un motivo in più per ricordare, per rendere riconoscibile pubblicamente il suo lutto. Per provare a dare un senso al tricolore che aveva avvolto la bara di Simone nel suo ultimo viaggio e che lei, qualche settimana fa, ha restituito alla terra. Nel terzo anniversario della morte, Alessandra ha seppellito nuovamente Simone, trasferendolo nella cappella di famiglia che mai aveva immaginato dovesse far costruire. "C'è stata una cerimonia al cimitero. Ho preso la bandiera e ho coperto di nuovo mio marito. Con me, c'era chi mi vuole bene".
(20 febbraio 2008)