Il 1968. Nell’autunno del 68 con Dario decidiamo di abbandonare il circuito teatrale tradizionale, ufficiale e mettere a disposizione il nostro lavoro, la nostra vita – e non sto enfatizzando – con un impegno diretto di quella parte di pubblico che normalmente viene ignorata dal teatro ufficiale: operai, casalinghe, studenti, contadini. Pubblico che solo in questi ultimi anni viene intruppato e portato con pullman nei teatri del centro, organizzati da Cral e Sindacato.
Riprendendo la tradizione di mio padre portiamo il nostro teatro in piccoli centri, nei quartieri periferici, nelle fabbriche occupate, nei palazzetti dello sport. Insomma, decidiamo di metterci a disposizione della classe alla quale sentivamo di appartenere, il proletariato. Detto oggi, così, a distanza di anni suona un po’ tromboneggiante, allora no.
Suonava bene.
Otteniamo una risposta straordinaria: una folla di giovani, studenti, operai, ragazze, donne sono ogni sera presenti. In qualsiasi posto si svolga lo spettacolo i locali sono gremiti all’inverosimile. Nei palazzetti dello sport, ci abbiamo messo anche 12 mila persone.
Che testi recitavamo? Il quotidiano. La vita della gente, le difficoltà.
Il materiale lo trovavamo a iosa.
Erano tempi brutti. Gli incassi spesso vanno a fabbriche in occupazione, che grazie alla sopravvivenza che gli è garantita dagli spettacoli, in certi casi, come per la Sampas di Milano, tengono duro e alla fine vincono la causa contro il padrone.
Quando Dario mi ha proposto di lasciare le strutture tradizionali e di portare il nostro teatro per “boschi e prati” non mi diceva niente di nuovo, per tanto tempo l’avevo fatto con mio padre.
Per anni, esattamente 21, mi sono occupata di detenuti per reati politici, carceri, processi, difesa dei diritti civili. In un secondo tempo, spinta dai detenuti politici, mi sono occupata anche di quelli per reati comuni, per un totale di oltre 800 persone: donne e uomini.
All’inizio ero in grande difficoltà con i detenuti per reati comuni.
Sono nata in una famiglia onesta e laboriosa, dove senza prediche ma con l’esempio, mi si insegnava a rispettare e amare il prossimo, ad avere comprensione e aiutare chi stava in difficoltà. Ma un ladro era un ladro e un assassino era un assassino.
Ci ho pensato un po’ su. Poi mi sono decisa. Scrivevo una letterina stringata tipo: “Ho avuto il tuo nominativo da… fammi sapere per quale reato sei detenuto, condanna, condizioni tua famiglia… tuoi bisogni.” Insomma, avevo bisogno d’inquadrarlo.
Mi arrivavano risposte che mi turbavano. Furto con rapina, omicidio…
Ci pensavo sopra un po’. Certo che al figlio di Agnelli non può capitare di finire in galera per omicidio in treno mentre ti esibisci in “un furto con destrezza…” a un omone che si mette a gridare e giustamente reagisce. Il guaio è che se hai una pisola in tasca… te lo trovi morto ai tuoi piedi quasi senza accorgerti.
“Come ti giustifichi?”, chiedevo.
“Avevo la ragazza incinta… eravamo venuti dal sud, senza casa, senza nulla… nemmeno il paltò e da voi fa molto freddo”.
Povero Pietro hai pagato il tuo reato.
Quanti anni di carcere ti sei fatto? 25, poi scesi a 17.
Per ottenere permessi di colloquio con i detenuti ho dovuto fare salti mortali, ogni volta gabole varie. Arrampicandomi sui muri della burocrazia giudiziaria, sono stata molto aiutata dal segretario di gabinetto del ministro Bonifacio.
Grazie a lui sono riuscita a entrare in molte carceri d’Italia, parlare con i detenuti, i direttori, i giudici di sorveglianza, i famigliari. Sono entrata persino nella “famigerata isola del diavolo”: l’Asinara Carcere Speciale Istituto di massima sicurezza in
Sardegna per merito di Mimmo Pinto di Napoli, il più giovane senatore d’Italia. Abbiamo conosciuto finalmente il tristemente famoso direttore dott. Cardullo, vera macchina per l’annientamento psicofisico dei detenuti, classico paranoico da studio psichiatrico.
Siamo arrivata all’isola, molto nervosi. Avevo addosso un abito a colori vivaci, festoso.
Scelto per l’occasione.
Il mio vestito doveva portar loro i colori della vita… e non della morte che stavano vivendo.
(
continua)