Entro allo Smeraldo.
Mistero Buffo è una parte di me.
Lo vidi da ragazzino negli anni 70, per la prima volta.
Mistero Buffo ti entra dentro, diventa parte del tuo immaginario, perfino un po’ tuo.
Come quei film che ti cambiano la vita… Amarcord, Miracolo a Milano…
E’ il sogno infantile di due geni del teatro, perché solo i geni non hanno mai ucciso il bimbo che è dentro di noi.
“Mio marito è un monumento” dice spesso Franca. Che del monumento ne è l’insostituibile piedistallo, ma anche il capitello, la nervatura e i decori.
Il teatro è pieno. Intravedo Soleri, l’Arlecchino di una vita.
Salgo sul palco. Franca mi ha riservato dei posti.
La sua gentilezza, il suo affetto sincero, la sua grazia, mi ha sempre colpito.
Io e mio figlio portiamo fiori a una delle più grandi attrici del Teatro Italiano.
Lei mi onora della sua amicizia.
Ricordo anni fa quando la conobbi, a casa sua.
Portai mio figlio allora ancora bambino. Franca lo guardava con lo sguardo di chi non ha mai smesso di essere madre. Mio figlio, timido, si sentì subito a suo agio, fra Dario e Franca.
Due zii di quei parenti simpatici e affettuosi.
Ricordo mentre Franca ed io si lavorava al computer, Edoardo, mio figlio, seduto sulle ginocchia di Dario, ascoltava la lezione privata del Nobel che gli spiegava le differenze fra le maschere birmane e quella di Pulcinella.
Non sa che crescendo, quell’immagine gli resterà dentro, intimamente solo sua, importante e unica.
Vedo Franca da lontano. Mi riconosce e come sempre allarga le braccia in un sorriso solare.
Franca è così, una di quelle che gode degli affetti, nel vedere le persone. Franca è un sole, a iniziare dai suoi capelli fino al suo sorriso, spesso aperto, a volte sornione, sempre sincero.
“Che bei fiori!”. Un abbraccio, un bacio senza contatto per il trucco di scena, ed è lei.
Mai cambiata, sempre affabile, ma con una presenza senza eguali.
Lei è una di quelle persone che in una sala piena di gente non passa inosservata.
Il suo incedere le assomiglia: sempre a testa alta di fronte alla vita, alle avversità, alle gioie e agli inciampi.
Dario è seduto, concentrato. Mi saluta e vedo in lui un amico, quasi un parente.
La figura di Franca e Dario mi ha accompagnato in una parte della mia vita.
Prima che li conoscessi di persona e poi.
Inizia lo spettacolo. E’ strano vederli da vicino sul palco.
Noto i movimenti intimi, le pieghe dalle voci, le mimiche.
Dario entra nella storia lentamente, spiega, interpreta.
Franca invece entra in scena ed è lei, subito.
Le pause. Dio le pause. Finalmente un esempio di pause teatrali fino al sublime.
Ritmo e pause, fino a dimenticare che sei in teatro.
Franca ti trasporta, sospira, parla sottovoce, si ferma.
Quella sua posizione che conosco bene, dritta, immobile, a pugni chiusi.
E’ la posizione che usa anche nel drammatico stupro.
In Maria della Croce, Franca non interpreta, è.
Lo strazio di una madre di fronte ad un abominio, ridotto quasi a una normalità di dolore, oltre la cui soglia non c’è più nulla.
Il suo essere madre e Cristo, i rantoli, il pianto straziante senza lacrime, doloroso, immenso. Il Teatro cade in un silenzio catacombale.
Lei è in trans. Si odono soli i lamenti, i sussurri.
Sparisce la Franca di Coppia aperta, di Tutta Casa letto e chiesa, la comica geniale, la capacità di storpiarsi goffamente per interpretare il ridicolo, lei, bella, altera, elegante.
Sparisce l’attrice sexy degli anni 50, l’amica che ti racconta di orgasmi e problemi adolescenziali del figlio.
La suora e Isabella, la Francaccia e la moglie, la mamma e l’operaia del Risveglio.
In Maria sotto la Croce ci sono il dolore e il silenzio, il sospiro e l’orrore che entrano in te, fino alla pietà di una madre che tenta di salvare ciò che sa non potrà mai essere.
Un giorno Franca mi disse “Noi non recitiamo, parliamo normalmente”.
E mentre Ronconi e Strehler esaltavano l’Accademia della teatralità fino al sublime,
Franca e Dario cambiavano il teatro moderno, facendo scuola a livello mondiale, insegnando non a recitare, ma essere, non a interpretare, ma vivere, nel senso più epico dell’accezione.
La guardo e in un attimo ricordo le lunghe chiacchierate nel suo salone a Sala di Cesenatico, nelle calde estati romagnole trascorse a casa sua.
Se avessi potuto registrare le sue storie di cinema e teatro, della sua vita con Dario, dei personaggi famosi che sono ruotati intorno a loro, delle gags poco note, fino alla chiacchiera da pianerottolo come vecchi amici.
Franca è lì, nel silenzio, ma sa cambiare in un attimo.
Mentre Dario recita, lei è lì seduta dietro la quinta che segue, quasi a guidarlo, a sorreggere il suo uomo.
E’ indefinibile, Franca è un diamante pieno di piccole facce, in un tutt’uno che brilla e non potrebbe essere altro.
Diventa piccola, come una bimba in un angolo, oppure leonessa, che parte in crociate contro il mondo intero.
E’ generosa, attenta, ama i dettagli nei rapporti, e si da.
Una signora, “una bisnonna” come ama ricordare, che smanetta sul computer come una ragazzina di quindici anni.
Lei che corregge bozze e tomi inenarrabili, scritti di Dario, valuta date, orari, sente amici, stabilisce contatti.
E risponde sempre, ma sempre al telefono.
E si entusiasma ancora della vita, come una ragazzina.
Eccola li, ferma, in piedi, il teatro che non respira nemmeno per ascoltare il suo silenzio.
Nel suo scialle nero, raccolta a piedi uniti, capo leggermente reclinato, una smorfia di dolore rassegnato.
Mi ricorda il dolore e l’espressione di mia nonna Irma quando morì mio nonno.
Si affacciò sul ballatoio della palazzina e urlò “Maria! Mi è morto l’uomo!”.
Seppure sapesse che doveva morire, lo urlava al mondo, per dividerne il dolore, l’inaccettabilità dell’evento, troppo grande e abominevole per essere accettato.
La Franca della parte finale dello stupro, della sua rassegnazione all’umiliazione, quella smorfia tipica che è solo delle donne, abituate alle meschinità e soprusi, al dolore infinito, al mondo che crolla, al male ineludibile.
La guardo e la vedo roteare seduta sul cubo in Tutta Casa Letto e Chiesa, con le sue splendide gambe in calza nera e la chioma rosso bionda.
Smorfiosetta e maligna, ingenua e maliziosa, o la fricchettona che fugge in Chiesa per sottrarsi alla carica di Polizia, sempre con quell’aria di chi deve “adeguarsi” allo scorrere di una vita d’imprevisti e tranelli, tradimenti e avversità.
Eccola, si muove appena, raccoglie le forze per allontanarsi, ci lascia soli, con le nostre vite che si svegliano da un attimo in cui, anche noi, credenti e miscredenti, cinici ed emozionati, sensibili e indifferenti, ritorniamo da un breve viaggio nel silenzio dell’orrore, come pochi in teatro sanno far vivere.
Il Teatro è in piedi.
Lei, ancora scossa, è sorretta dal suo compagno di vita.
Li guardo e capisco che sono una cosa unica, rara da vedersi oggi.
Due geni del teatro.
E lei e lì a capo chino che coglie l’ovazione come un’onda calda che la colpisce.
E’ la Franca.
Irripetibilmente Franca.