[STAMPA] "Semprevivo Mistero Buffo" intervista a Dario Fo e Franca Rame

Il 10 marzo a Padova a 40 anni dal debutto. Franca Rame: "Ma ogni rappresentazione è diversa dall'altra"

PADOVA. “A Padova veniamo sempre volentieri, se non altro per mangiare il baccalà». Dario Fo e Franca Rame la mettono sul culinario, ma in realtà il legame con la città è profondo. «Abbiamo molti amici - dice Franca Rame - anche se alcuni non li vediamo da tempo, poi è la patria del nostro Ruzante». E il riferimento a Ruzante non è casuale, perché in fondo “Mistero buffo”, che i due attori riporteranno in scena a Padova il 10 marzo al Gran Teatro Geox, a 40 anni di distanza dalla prima volta, è uno spettacolo dal clima ruzantiano, sia nel linguaggio sia nei temi. E non a caso uno dei primi ad apprezzarlo fu proprio uno studioso di Ruzante come Gianfranco Folena e Dario Fo ancora oggi ama citarlo: «Lo spettacolo nasceva da molto studio, dai testi dei primi studiosi di folklore e da quelli degli studiosi di linguistica come Folena che scrisse, allora, che guardando Mistero Buffo si poteva ottenere un’idea del tutto credibile di cosa fosse il teatro satirico dei giullari medioevali». Un bel complimento, non c’è che dire, per un attore col vizio della scrittura e della storia. «La passione della storia – dice Franca Rame - l’abbiamo avuta sempre. A ben vedere quasi tutti i nostri spettacoli, anche quelli di maggiore attualità partono dalla storia».
 
Per Dario Fo, invece, il legame precede il suo essere attore. «Ho letto molto per conto mio – dice – ma la prima spinta è venuta dai miei insegnanti all’Accademia di Brera, che facevano grandissime lezioni parlandomi non solo del Duomo di Modena, ma anche del popolo che lo aveva costruito, delle sue rivolte, delle sue sofferenze». E questa idea di storia popolare che attraverso i secoli arriva all’attualità pervade tutti i testi di Fo e inevitabilmente anche “Mistero buffo”, anche se Fo dice che non è colpa sua se adesso quando parla del Miracolo di Lazzaro il pubblico comincia a pensare a Silvio Berlusconi. Il fatto è – dice lui – che la politica si mette sempre in mezzo.
 
“Mistero buffo” è probabilmente il testo più famoso di Dario Fo, non sono pochi a ritenere che sia stato proprio quello spettacolo a determinare l’assegnazione del Nobel. Nacque nell’estate del 1968, una data simbolicamente forte. «Dario – dice Franca Rame – leggeva in quel periodo i vangeli apocrifi, che furono i veri materiali di partenza del lavoro. Trovava che fossero testi straordinari, perché erano letteratura popolare, raccontavano in modo semplice cose che valevano anche per noi». Ma la svolta per la scrittura del testo venne quando Dario Fo trovò il linguaggio, il grammelot «Dario – dice ancora Franca Rame – lo usò per il primo testo di Mistero buffo che ha scritto, quello dedicato a Bonifacio VIII. Era un impasto di dialetti, con termini latini ed espressioni onomatopeiche che trasmetteva una grande comicità». Sì perché forse va chiarito che in realtà il Grammelot Dario Fo se lo è inventato. «Non potevo fare altrimenti – racconta – non esistevano registrazioni del cinquecento, avevo letto che i giullari medievali lo usavano, poi ho trovato in Molière un esempio ed il resto l’ho immaginato. Del resto il grammelot è una invenzione continua, cambia ogni sera è impossibile ripeterlo».
 
Dopo la dissacrante satira su Bonifacio, che fece imbestialire più di un canonico, vennero gli altri pezzi di Mistero Buffo. «In ordine – ricorda ancora Franca Rame – sono venute le Nozze di Cana, la Resurrezione di Lazzaro, la fame dello Zanni e quindi Maria alla croce che non era un brano comico. Le prime volte lo faceva Dario con un velo da donna poi insistette perché lo facessi io. Era un brano molto bello, ma anche molto difficile che racconta la ribellione di Maria contro Dio». Ma quello che emerge dai ricordi, raccontati con voce rauca ma ancora piena di energia, è soprattutto il modo in cui lo spettacolo è nato. Dario Fo è convinto che «un’opera teatrale non dovrebbe apparire piacevole alla lettura: dovrebbe scoprire i suoi valori solo sul palcoscenico» e per questo ritiene che in fondo Franca Rame sia una coautrice del testo: «Dario si è sempre fidato del mio senso del ritmo teatrale, eredità della mia famiglia di teatranti, e così prima di andare in scena ha sempre chiesto a me cosa cambiare e cosa lasciare».
 
Perché Mistero Buffo è stato quasi involontariamente un “work in progress” arricchendosi di nuovi testi, di altre variazioni: «Siamo arrivati una volta a Roma – dice Dario Fo – a metter in scena in cinque sere diverse, cinque diversi spettacoli, senza ripetere un solo brano. Ed in realtà avremmo anche potuto andare avanti, solo che era uno sforzo mostruoso e ci siamo fermati, ma se dovessimo farlo oggi sarebbero almeno dieci».
 
Eppure ci sono anche i pezzi classici e immancabili, per esempio la fame dello Zanni, che non possono non rivivere anche in questa edizione, che ha cominciato a girare per l’Italia. Non solo, Dario e Franca continuano a rivendicare la loro autonomia da un testo che li ha accompagnati per una gran parte della loro vita teatrale. Raccontano che il loro piacere è massimo quando nasce in pieno spettacolo una situazione nuova, quando il copione si scardina. Perché anche se ormai gli anni sulle spalle sono tanti, la passione per il lavoro è la stessa e recitare all’improvviso, come i vecchi maestri dell’arte, rimane – dicono loro - il massimo piacere. «In realtà – chiude Dario Fo – non credo di aver mai fatto due Mistero Buffo uguali, perché uno degli autori è il pubblico. A seconda di come risponde si modificano le situazioni, le battute, è qualcosa che nasce ogni sera sulla scena, ancora oggi, dopo tutti questi anni».
 
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Mamma Togni

Un meraviglioso monologo di Franca Rame, poco conosciuto ma bellissimo, rappresentato per la prima volta in una grande piazza di Pavia il 25 aprile del 1971.
Il racconto è stato ricavato da una registrazione su nastro, eseguita dalla protagonista della storia, e la protagonista è una donna, Mamma Togni. Oggi chissà che polemiche scatenerebbe Mamma Togni, tutti parlerebbero di scorrettezza, di mancanza di dialogo, di democrazia… ma leggete il brano e ditemi, in tutta sincerità, se questo racconto non vi suscita commozione e una voglia di uscire urlando: non siamo tutti morti!!!
 
Mamma Togni
“Mamma Togni…. Mamma Togni, i fascisti sono in piazza su a Monte Beccarla, vogliono parlare in piazza!” Due ragazzi da in fondo alle scale i sont vegnüd  a ciamàmm…”
“Chi l’è che parla? Chi è sto fascista?”
“Servello”.
“’Sto bastardo! Andùma… andiamo! ‘Spetta che prendo il bastone… che ci ho la caviglia gonfia e mi devo appoggiare”.
Adesso ho capito perché i sont vegnüd quei due compagni del partito, volevano essere sicuri che nessuno era venuto ad avvisarmi… Dicono: “Sei vecchia, non metterti in mezzo… ti può far male… e poi soprattutto, non farti strumentalizzare. Stai a casa… non ti mettere in mezzo!. Andùma, andùma, per i fascisti non sono mai vecchia! E cos’è che mi vengono a dire che mi faccio strumentalizzare? Contro i fascisti? ‘Sti neri bastardi che hanno il coraggio di venire a sputare discorsi di merda in una piazza dove hanno ammazzato quattordici ragazzi davanti alle loro madri, Andùma, Andùma!!
Quando sono arrivata su alla piazza, intorno al palco c’erano quattro gatti e tutt’intorno i baschi neri, carabinieri. Io ho detto ai ragazzi che mi accompagnavano: “Voi fermi qui, guai chi si muove”.
“Ma no, manma Togni, veniamo con te”. 
“No, zitti, e fermi lì, sennò torno indietro. Vado da sola che a me non mi toccano”.
Vado zupìn zupètta col mio bastone… arrivo sotto il palco… “Permesso, permesso…” Sopra, ‘taccato al microfono che pareva che se lo mangiava, c’era il Servello-bastardo che vociava e sbracciava come un vigile all’incrocio nell’ora di traffico. 
Io col bastone gli do un colpo sulla canna del microfono che la testa del microfono gli sbarlòcca in bocca da fargli crodare tutti i denti, e poi mi metto a cantare:
Fascisti bastardi e neri 
ci avete scannati ieri
di nuovo siete qua! 
 
Quello si ferma di sbragare al microfono, el me guarda e un po’ riattacca. Io canto ancora, lui si impappina. Dal fondo della piazza sotto i portici cantano anche i ragazzi! Poi col bastone gli mollo una stangata proprio sul ginocchio che lui, il Servello, s’è messo a sbragare come un gatto quando lo castrano! 
Il capitano dei carabinieri mi viene vicino, mi prende per il braccio e mi dice: “Ma signora, è impazzita? Che fa, ma non lo sa che è proibito cantare? Disturba il comizio!” 
“No, caro il mio tenente, - l’ho degradato subito, - è il comizio che disturba me, perché questi qua sono gli assassini di appena l’altroieri, quelli che qui in questa piazza hanno accoppato come cani dei ragazzi che non gli avevano fatto niente… per rappresaglia”.
“Va bene, va bene, ma adesso… questi hanno l’autorizzazione…”
“L’autorizzazione da chi, dalle mamme dei fucilati? Ehi, gente, mamme di Monte Beccarla, vi hanno chiesto l’autorizzazione per venire qui a fare ‘sta porcata? Dico a voi! Venite fuori da sotto il portico… su.. stremì, fœra! Parlì!”
“La prego signora, la smetta altrimenti sarò costretto a portarla via di peso”.
“Ah, sì? Provi a mettermi una mano addosso e io casco giù per terra… faccio la svenuta e lüe l deve far venir qui a sollevarmi almeno dieci uomini che io sono novanta chili… all’ombra! L’avverto”
“Se è per quello, posso disporre, - mi fa il capitano, - posso disporre anche di settanta uomini”.
“Settanta uomini? Bravo, e lei per far parlare ‘sto bastardo schifoso assassino viene qui con la difesa di settanta uomini! Ma guardi che qui le persone oneste mica hanno bisogno di esser protette se i voeren parlà… Noi comunisti qui parliamo a tutte le ore e senza gendarmi! Il fatto è che voi ce lo imponete con la forza ‘sta faccia di merda del Servello”.
“Non dica così, è un senatore”.
“Senatore? Senatore della Repubblica nata dalla Resistenza? Donne, ehi gente, avete sentito a che cosa son serviti i nostri figli, i nostri uomini accoppati morti ammazzati per la liberazione? A fare una Repubblica con il Senato dove ci vadano a sbragarsi ancora ‘sti figli di puttana…”
“Adesso basta signora, sono costretto ad allontanarla”.
“No, se lei è un uomo onesto, lei allontana quel bastardo, sennò lo allontano io a bastonate. Perché se voi avete il fegato e il cuore di semolino bollito… parlo a voi donne e uomini di Monte Beccarla, io vi dico che non ci sto a farmi insultare e a fa insultà el me fiò che l’hanno ammazzato proprio come se fosse l’altroieri e mio marito che nel ’23 a bastonate gli stessi fascisti gli hanno fatto vomitare i polmoni!” E gridavo, e non so più che cosa ho detto. Fatto sta che dal fondo sono venuti avanti due o tre uomini e poi qualche donna… e i ragazzi… che io gli avevo detto di non muoversi…. E allora ‘sti baschi neri non gli è sembrato vero… Sono partiti a fare la carica contro i ragazzi e giù a pestare con una rabbia, senza che ci fosse ragione. E il capitano e due guardie che mi spingevano via a spintoni che ormai nella confusione nessuno ci faceva più caso, e mi  hanno fatto dei lividi alle spalle e alla schiena che ce li ho ancora adesso… ma in quel momento manco li sentivo… Ero preoccupata per quei ragazzi… Gridavo: “basta!! Carogne!! Maledetti!!! Cosa c’entrano loro, cosa vi hanno fatto? Perché ve la prendete con loro? Nazisti! Pi esse esse, pi esse esse!” 
Ce n’erano tre o quattro che erano finiti per terra, di ragazzi, con la testa che sanguinava e li prendevano lo stesso a calci. Poi, come sacchi li hanno sbattuti dentro una camionetta, tutti e undici. 
“Dove li portano? Cari i miei fieu… Giù alla caserma… Andùma… Una macchina… portém giò in caserma… presto… E viàlter andate a chiamare qualche avvocato dei nostri…”
Arrivo giù, davanti alla caserma, e lì, con uno del partito, un assessore, cerchiamo di convincere il maresciallo a lasciarci parlare con il questore, con qualcuno, per dirgli come erano andate le cose. Di botto il maresciallo fa finta come se qualcuno gli ha dato un pugno e cade per terra facendo lo svenuto! Io ero lì a un metro, nessuno lo aveva toccato. Ma come una valanga arrivano una cinquantina di baschi neri e giù botte da orbi sulla testa dell’assessore che crodava sangue dappertutto… Io mi metto a gridare: “Porci, l’avete combinata, e tu figlio di una cagna d’un maresciallo, che hai fatto la commedia…. Assassini… fascisti!” Mi prendono di peso, m’impacchettano e mi portano dentro.
Processo per direttissima. 
Intanto che mi facevano le generalità sento la gente giù in piazza, i compagni che gridavano: “Fuori! Fuori mamma Togni… fuori mamma Togni! E io a sentire come mi volevano bene… ero così contenta… che ci avrei fatto la firma a farmi arrestare tutti i giorni! E il commissario che era appena entrato, che non s’era accorto che io ero lì coperta dalla porta, ha detto: “Chi è quello stronzo che sbattuto dentro la Togni? Ma cosa gli è venuto in mente? Ci combinava meno casino se arrestava il presidente della Repubblica in persona!!” E io come se niente fosse ho cominciato a cantare come fra me medesima: 
Bastardi fascisti neri
Ci avete scannati ieri 
Di nuovo siete qua!
Tutti zitti sono usciti quasi in punta di piedi, che non ce la facevano a stare lì. L’unico che è rimasto era un maresciallo piuttosto giovane che mi guardava con un mezzo sorriso come intimorito.
“Io, - mi fa, - a lei la conosco signora, perché il mio papà era comandante partigiano sulle montagne della Liguria”.
“Era nella terza formazione garibaldina ligure?”
“Sì”
“Ah, quella dove c’era il Lazagna? E come si chiamava tuo padre?”
“Mirko… Mirko era il suo nome di battaglia”. 
“Ma è morto il Mirko, lo hanno fucilato!...”
“Sì, è così… io avevo solo tre anni quando l’hanno ammazzato”.
“Era bravo tuo padre, bravo partigiano il Mirko… E tu sei entrato nei carabinieri? Bravo! Ti sei messo il vestito della festa per i padroni!”
Ha abbassato gli occhi, è diventato bianco… o forse m’è sembrato… che in quel mestiere lì ci vien la pelle col color fisso. Be’, poi il processo è stato tutto da ridere. Il giudice era preoccupato di sbolognarmi via, di tirare dentro i ragazzi, di incastrarli da soli, soltanto loro, faceva fin pena. 
“Lei signora, si è certamente trovata lì nella piazza per caso…. Vero? Passava… ad ogni modo, - cercava d’aiutarmi, mi dava l’imbeccata, - quel colpo di bastone sul microfono e sul ginocchio del senatore del Msi è stato del tutto fortuito….”
“No, no, che fortuito! Glielo ho dato proprio giusto, di volontà, che ce l’avrei dato volentieri anche in testa, che la prossima volta gliela spacco la testa, se viene ancora, ‘sto maiale d’un fascista”.
“Ma la prego non si esprima così… Capisco che lei è sconvolta….”
“No, no, io sono calma!”
“No, lei è sconvolta, come era certamente sconvolta quando ha gridato porci e fascisti ai poliziotti e ha così eccitato quegli scalmanati di ragazzi!”
“No, prima di tutto scalmanati erano i poliziotti e non i ragazzi, e poi ci hanno una strana maniera di fermare la gente quei poliziotti lì… a calci e a botte in testa, come se giocassero alla lippa!”
“Va bene, d’accordo, ma il fatto di gridare fascisti porci lo sa che è reato?”
“Certo che lo so… Al tempo che eravamo in montagna, quelli che li sbattevano contro il muro, crepavano convinti che dopo la liberazione, quelli che li stavano ammazzando non ci sarebbero stati più… e invece sono lì tutti a comandare i corpi speciali della polizia. Io li chiamavo porci fascisti allora e adesso li chiamo ancora porci e fascisti!”
El giudice sbianchiva... S’impappinava, ma io avevo capito che l’unico mezzo per tirar fuori gli undici ragazzi era quello di pestare forte io. A me non ce la facevano a condannarmi, si sputtanavano troppo. E così hanno dovuto sbattere all’aria il processo e lasciarli liberi tutti… almeno per adesso.
Che festa quando siamo venuti fuori, tutta la gente, i compagni che ci baciavano... e canzoni. Mamma Togni di qua, Mamma Togni di là… e chi mi tirava per la manica e chi mi salutava col pugno chiuso. Che bello, pareva come la liberazione… una festa! Peccato che non ci sia qui il mio ragazzo, mio figlio a vedere ‘sta festa. 
“Mamma, mamma, se io non torno, tu resti coi compagni finché finisce, tu resti con loro”
“Sì, caro, io resto”
E come facevo a lasciarli! Io facevo l’infermiera, ero diplomata… senza vantarmi ero brava. Avevo da curare fino a cinquanta feriti nella mia infermeria. Mi ricordo quando c’è stato il rastrellamento dei mongoli… volevano che io me la squagliavo in ospedale… che m’avevano trovato un posto, ma io, piuttosto crepare… mi son presa i miei trentadue ragazzi feriti e pasin pasin… Quello zoppo s’aiutava con quello con l’occhio tappato, quello con la ferita nella pancia lo portavano in barella due che erano feriti di striscio alla testa…. Sembravamo la carovana dei disperati, ma andavamo avanti e con me si sono salvati, li ho salvati tutti. Il guaio era trovare da mangiare, mangiare per trentadue e ogni giorno… Io li sistemavo in una cascina o sotto un ponte e poi andavo alla cerca. Casa per casa. E dappertutto, ‘sti contadini, ‘sti montanari, con tutto che non avevano quasi più niente, si tiravano via la roba dalla bocca per aiutarci… stracciavano le lenzuola per darmi delle bende per i feriti… lenzuola belle, di corredo. Invece capitava che magari andavo a chiedere in qualche famiglia di sfollati, gente benestante, dentro le villette, e quelli dicevano: “No, non possiamo dare niente”. E allora io tiravo fuori di botto la mia P38 quindici colpi e gliela picchiavo sotto il naso e gridavo: “Visto che sei così taccagno, allora sputa fuori tutto quello che ti chiedo, sennò ti ammazzo, pidocchio! E vergognati, che ‘sti ragazzi muoiono anche per te!”
Sì, ho fatto anche delle rapine per salvare quei ragazzi… i miei ragazzi. C’è qualcosa da dire? E lo farei ancora oggi. I miei ragazzi… ero la loro mamma… mamma Togni, guai a chi toccava mamma Togni. L’Americano, il comandante diceva: “A mamma Togni non si dice mai di no!” 
E tutti mi ubbidivano!
Quando quel giorno di primavera del ’44 mio figlio era andato giù che dovevamo prendere la caserma dei briganti neri, dopo un’ora vedo tornare il Ciro, bianco, che mi dice: 
“L’hanno ferito, tuo figlio è ferito…”
“Fermo lì, guardami Ciro, io non piango, non grido, guardami in faccia, io non piango… E’ morto vero? Lo so che è morto”.
“Sì”.
Me l’hanno portato su in braccio, in due. 
Mi sono messa seduta e me l’hanno messo sulle ginocchia, aveva un buco piccolo qui, sul collo. Poi i compagni me l’hanno portato via… l’hanno portato sotto il portico.
Io sono andata dentro nello stanzone dove c’erano tutti i miei ragazzi feriti e gli ho detto: “Fieui, ragazzi, mio figlio è morto, adesso non ho più nessuno che mi chiama mamma.. e io.. ho bisogno…”
Gh’è sta un gran silenzio e po’: “Mamma, mamma, - si son messi a gridare tutti, - mamma” e urlavano con le lacrime :
“Mamma, mamma!”
E per tutti son rimasta la Mamma Togni. 
E non mi fanno su di me: “Sei vecchia, non metterti in mezzo, il tuo dovere l’hai già fatto”.
No, finché gh’è ‘sti assassini d’intorno, ‘sti fascisti, bisogna andare in piazza, insegàgh a ‘sti giovani, ‘sti fieu, Star con loro, dirgli cosa è successo allora sulle montagne perché così imparano. No, non mi vengano a dire sta’ a casa che sei vecchia. 
E’ vecchio solo chi se ne sta a casa coi piedi al caldo e magari con la berretta in testa, una berretta che gli ha imprestato la Dc di Fanfani e Andreotti.
Quelli sì son vecchi, anzi son già morti!!!
 
Questo pezzo è contenuto nel volumone di Dario Fo Teatro
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[VIDEO] Dario Fo e Franca Rame “Celentano c’è?” 14a puntata di Servizio Pubblico

Dario Fo: "noi attori sappiamo distinguere lo spettacolo improvvisato e quello organizzato dagli alti dirigenti. Celentano è il Candido di Voltaire: ride dopo essere stato deriso".
 
Franca Rame: "Celentano è il temporale della libertà."

 

www.ilfattoquotidiano.it - 23 febbraio 2012 - 14a puntata di Servizio Pubblico dal titolo “Celentano c’è?” 

fonte: katerpillar.it

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[AUDIO] Collettivo Teatrale La Comune - Canzone Del Potere Popolare

Registrato nell'ottobre del 1973, cioè un mese dopo il golpe dei militari in Cile.
 
Si tratta di uno spettacolo del Collettivo teatrale La comune, scritto da Dario Fo e messo in scena in quel periodo.
Dario Fo e Franca Rame, assieme ad altri attori, recitano e cantano canzoni scritte da loro e, nel finale, "La canzone del potere popolare".
 
(Advis-Rojas) - Offerta da "Archivio Abastor".
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[STAMPA] Dario Fo: «Tifo per Celentano. 
E' libero contro gli ipocriti»

 

«E con questo, credo che Celentano sia fuori per sempre, dalla Rai e non solo, data questa Italia. La tribù degli ipocriti può legittimamente ritenere di aver eliminato Adriano, una medaglia, secondo loro, da appendere al petto in questi mesi di fine stagione, la volevano prima di uscire di scena e l'hanno avuta». Ed ecco un tifoso non proprio scontato nelle file che oggi si stringono attorno al re del rock tricolore: è Dario Fo, l'uomo che probabilmente deve una parte del suo meritato Nobel ad un Mistero che celebra la bontà di un Cristo uomo-dio e mette alla berlina quella «trascendenza» papale che spesso è stata dedicata all'altare del potere e della ricchezza materiale.
Eppure, proprio Celentano l'altra sera ha rincarato la dose che già gli era costata la «scomunica» di parte del pubblico forse, dei poteri forti, porporati e no, di sicuro. 
 
Dario, giullare di un dio caro e giusto ma fatto di carne e sangue come un uomo, scende in campo per affermare la tenerezza di un altro uomo che di fronte a milioni di spettatori ha invocato per la Chiesa più trascendenza, più Paradiso, andando a sbattere contro la potente Conferenza episcopale italiana, gran Cancello dei Cieli, scala mobile efficace, insieme, della politica italiana. Veramente, è andato a sbattere anche contro la direttrice generale della Rai, la signora Lei, ma questo non è il nocciolo della nostra storia... 
 
Hai un bel dire, Dario. Stai percorrendo un sentiero sottile come una lama... 
 
«Io l'ho visto, l'ho visto. E sai che ti dico? Che non c'era tra i presenti alla gran serata televisiva nessuno che avesse in sé la grazia di un animo buono, nessuno come Adriano. Non c'era aggressività in lui, non c'era ruffianeria, non c'era calcolo. Voleva dire quello che ha detto? Forse sì, forse non del tutto, perché ha avvicinato temi mostruosi da versanti molto difficili. Ma conta come diceva e ciò che aveva in cuore era sofferenza vera e testimonianza di pace...» 
 
Quindi, ciò che ci salva è una visione. Tu hai capito, molti altri hanno compreso, ma non era facile, ammetterai... 
 
«Infatti, era difficile, ma gli animi gentili non lo condanneranno mai. È stato giustiziato, in piazza come si voleva, lì nel teatro, davanti a milioni di testimoni sbigottiti. Hanno agito le truppe d'attacco, quelli che lo hanno fischiato, insultato perché così prescriveva il copione degli ipocriti. Lui qualche errore lo ha commesso, ma per santa ingenuità. Fosse stato più scaltro, meglio informato, reso più agile dalla furbizia, avrebbe aggredito quei temi in modo più lineare. Non ha detto una parola sui meccanismi bancari che rendono il Vaticano una potenza inattaccabile, sullo Ior, sul modo in cui la Chiesa ha taciuto per decenni su quel che faceva una parte del clero ai bambini. Ma bastava il fronte finanziario, quello che avvicina il Vaticano di oggi a quello di secoli fa, quando il Papa se ne andò ad Avignone portando con sé, a detta dei cronisti di allora, più banchieri che vescovi. È stato molto generoso a non parlare di questo, Celentano, lo dovrebbero apprezzare i suoi carnefici...» 
 
Condivido. Su tutto, passa il velo dell'affetto che non rende ciechi ma consente di capire. E tu vuoi bene a Celentano, si sente... 
 
«Sì, gli voglio bene, lo conosco da tanti anni, dai tempi del Santa Tecla dove si faceva musica quando eravamo giovani. Credo di sapere chi sia. Merita l'affetto sincero di milioni di italiani, così come merita il mio: oltre ad essere un grandissimo artista è un uomo intelligente e generoso, sincero e forse non è tempo di “santi” ingenui, per loro è carne da cannone...» 
 
Spiegati meglio, dove vuoi arrivare... 
 
«Dico che la tribù degli ipocriti lo ha venduto anche quando non era sul palco. Lo detestano, per la sua capacità di non essere ricattabile, quindi libero, non lo vogliono sul palco di Sanremo, lo odiano per quel che ha detto del regime berlusconiano, ma quando non c'è, fanno in modo che la sua assenza appaia un incidente transitorio: continuavano a ripetere che forse arrivava, forse sarebbe arrivato, tanto per tener su l'audience, sapendo che nella serata conclusiva lo avrebbero fatto a pezzi. Di Celentano non si butta nulla, nemmeno l'assenza. Tanto i picchi di ascolto li hanno fatti con lui...» 
 
E con Morandi, che è un bravo ragazzo quanto Celentano... 
 
«Giusto, infatti, se non mi sbaglio, lo hanno crocefisso assieme ad Adriano. Si vedeva bene che l'altra sera sul palco portava un peso intollerabile. Hanno picchiato duro, hanno bombardato il muro di affetti che ha sempre protetto sia Morandi che Celentano. Quei fischi, quelle contestazioni sono magnificamente accordate sulle parole con cui la direttrice generale della Rai ha intimato ad Adriano di badare a quello che avrebbe detto e fatto, come fosse un delinquente. Ma pensa un po', da che pulpito. Ma il gioco sporco è riuscito, temo. E Celentano ora lo sa, come lo sa Morandi...» 
 
Morandi ad Adriano ha rivolto un «grazie» denso e struggente, come si fa con il proprio compagno davanti al plotone d'esecuzione... 
 
«Visto anche quello. Ma sai che ti dico? Tempi nuovi stanno arrivando, per quella gente che serve la tribù degli ipocriti questo è davvero l'ultimo atto». 
 
fonte: unita.it - 20 febbraio 2012

 

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[STAMPA] Stuprata da un “ragazzo per bene”

 

2001 – Il titolo del giornale diceva: “Maria” anni 58 stuprata alle due del mattino sul ciglio della strada da un giovane, cosiddetto “per bene, di buona famiglia”.
La testimonianza di questa donna è stata da me raccolta, riscritta e rappresentata in numerose occasioni. E’ una storia tremenda non solo per la violenza subìta da questa donna ma anche per l’indifferenza dei passanti, di quelli che pur accorgendosi di quello che stava accadendo tiravano dritto… e sono passati ormai 11 anni, ma sembra ieri, anzi, molto probabilmente in qualche parte d’Italia proprio ieri una, dieci, cento donne sono state violentate. Per Maria e per tutte le Marie di questa terra.
 
Fin da piccola la mia passione è sempre stato ballare… Mi piace tanto il liscio. Sono separata da mio marito e vivo sola… adesso però mia figlia sta con me e mi aiuta a pagare le spese.
Quel sabato lì… sono andata come quasi tutti i sabati a ballare in un locale in piazzale Loreto. Di solito mi accompagna mia figlia, poi lì incontro le amiche. È un posto che frequentiamo da tanto tempo… ci conosciamo quasi tutti. Per rientrare, se non trovo un passaggio tra le mie conoscenti, prendo un taxi che mi lascia sotto casa. Quella sera lì, ero già all’ascensore: “Mamma mia che fame che ho! Quasi, quasi vado a farmi fare delle patate fritte… non ho sonno, poi mi figlia rientra tardi.”
Nella mia via a duecento metri c’è un pub. Anche se erano le due non avevo paura. “Cosa mi può capitare alla mia età.” Entro, vedo che è pienissimo di ragazze e ragazzi, saluto i camerieri che conosco – spesso ci vado con le mie amiche. Mi dirigo verso la cucina, a destra. Una ragazza mi saluta: “Oh signora, come va?… È andata a ballare anche ‘sta sera?” “Eh sì, però senti, ho una voglia matta di patatine! C’è tanto da aspettare? Come sono pronte le vado a mangiare a casa, qui c’è un sacco di fumo”.
 
Mentre parlo con la ragazza vedo un tipo giovane al banco che parla con alcuni camerieri e ride. Ho notato che mi guardava con insistenza. Mi sono detta: “ma guarda che insolente che è ‘sto ragazzo!” Io però non ci ho dato retta… e mi sono seduta. Quello continuava a fissarmi. “Che scemo… “ sono rimasta ad aspettare le mie patatine più di dieci minuti, quasi un quarto d’ora… mi ero un po’ agitata, infatti ho chiesto alla ragazza: “Ma sono pronte ‘ste patatine?” “Tra poco”.
Mi sono seduta di nuovo, ho preparato le £5000 e le ho messe sul tavolo ed ho pensato: “Così faccio prima!” Mentre aspettavo queste benedette patate il ragazzo mi fa segno di uscire. Mi sono spaventata, ma non immaginavo quello che sarebbe successo. Esce. Ho preso le patatine, ho salutato: “Buona sera” – “Buona sera”.
Vado.
 
Anche fuori, all’esterno del pub, c’era un sacco di gente, di ragazzi… e ho visto lui, che era girato sulla destra con un cellulare e parlava. “Non mi ha visto”, mi son detta. Ero un po’ preoccupata, agitata.  Ho preso le chiavi dalla borsetta e me le sono messe in tasca: “Così faccio prima”. Ho preso gli scalini – come scorciatoia- e ho accelerato il passo. Nella mia via, che a soli duecento metri dal pub, devo guardare a destra e a sinistra se arrivano macchine. Ho notato, con un gran respiro di sollievo, che ero sola. Nessuno mi seguiva. Come arrivo all’angolo, dove c’è una concessionaria di automobili, un cane abbaia… lo conosco questo cane, abbaia sempre quando passa qualcuno. Come ho girato l’angolo, ho sentito uno alle spalle… vicinissimo. Il cuore mi si ferma. Mi giro: è lui.
“Cosa vuoi? Perché mi vieni dietro?” Non mi ha risposto, mi ha preso per la gola e mi ha tirata sulla siepe. Io dicevo: “No! Lasciami!”
Lui non parlava e ha cominciato a farmene di tutti colori… picchiandomi, un pugno qua, uno là.  Me ne ha fatte di tutte: davanti, di dietro… per mezz’ora buona.
Ad un certo punto è arrivata una macchina. Ha fatto i fari e ha sentito che gridavo aiuto. Oltretutto il cane era come impazzito, ma nessuno ha aperto una finestra.
La macchina ha fatto manovra e se ne è andata… e lui andava avanti, bello tranquillo come fosse a casa sua, riempiendomi di pugni, in faccia, in testa, dappertutto… lividi ovunque… mi sbatteva contro la siepe, su e giù.
Poi si è arrabbiato perché non riusciva nei suoi scopi… mi ha strappato il cappotto, la giacca, la gonna… mi ha rotto tutto, proprio con rabbia perché non riusciva a fare i comodi suoi.
Ho pensato: “Per me è la fine!” Ero convinta di morire e gli ho persino detto: “Dai ti prego, fai il bravo, farò tutto quello che vuoi. Basta che non mi ammazzi.”
E lui mi diceva: “Zitta! Zitta!” E intanto mi picchiava. Io lì praticamente nuda sulla siepe e lui: “Forza, dai! Fammelo diventare duro!”
Io ad un certo punto gli ho detto: “Ma tu ce l’hai una mamma?” Quando gli ho detto “mamma”, mi ha dato un pugno secco in faccia… mi ha spaccato lo zigomo… mi sono sentita svenire.
In quel mentre, arriva un furgone e allora io ho pensato “Adesso mi violentano anche loro!”
Lui non si è neanche girato: continuava tranquillissimo come se fosse a casa sua.
Dal furgone sono scesi due ragazzi.
“Ragazzi aiutatemi! Aiutatemi  – avevo lui sopra – Mi sta violentando!” Loro hanno guardato proprio bene la scena, poi si sono tirati giù la cerniera e sono andati a fare la pipì… tutti e due a un passo da noi.
Lui si è rigirato… li ha guardati bene… poi si è alzato con comodo, si è preso la mia borsetta con quei pochi soldi che avevo e se n’è andato. M’ha pure scippata quel bastardo!
 
Sono rimasta lì, massacrata di botte che non riuscivo neanche ad alzarmi, mi trascinavo gattoni… prendo le chiavi dal cappotto. A questo punto ho chiesto nuovamente ai ragazzi.
“Ma vaffanculo, troia!” Rintracciati dai Carabineri diranno: “Credevamo fosse un albanese”.
Sono saliti sul furgone, hanno messo della musica a tutto volume… e se ne sono andati.
Mi sono fatta forza, mi sono tirata su… cadevo. Mi ritiravo su e cadevo… ho raccolto una scarpa qua, una là, il cappotto, l’orologio e la biancheria.
Nuda… a piedi sono riuscita ad arrivare al portone. Ho aperto, ho aspettato l’ascensore e sono salita in casa. Stavo morendo, stavo morendo… ho chiamato mia figlia al cellulare: non rispondeva.
 
Ho fatto il 113 e la centralinista che mi dice: “Signora si calmi… non capisco niente… cosa le è successo?”
“Mi hanno violentata. Aiutatemi, sto male… sto male! Sto per svenire, sto per morire!”
“Si calmi signora… non si capisce niente… parli piano…”
“Ho uno zigomo rotto… faccio fatica…”
“Dove si trova? Dove abita, in che via.”
Ho dato il mio indirizzo.
“Stia tranquilla… adesso arriva la Croce Rossa.”
Erano le tre e un quarto, le tre e mezza. Ho bevuto un po’ d’acqua, mi sono messa nel letto: piangevo e aspettavo.
Sono arrivati i Carabinieri insieme a quelli della croce Rossa e mi hanno portata al San Raffaele. Per tutta la notte, a vomitare… sono svenuta… mi hanno trovato uno zigomo rotto, lividi dappertutto, un taglio in testa, mi hanno medicato tutte le ecchimosi che avevo su tutto il corpo… avevo pure un occhio pieno di sangue. Dal San Raffaele mi hanno portata la notte stessa alla Mangiagalli per degli accertamenti ginecologici, tampone vaginale eccetera. Alle sette mi riportano al Pronto Soccorso del San Raffaele… lì da sola in corridoio, sulla barella, senza lavarmi, senza niente. Per molte ore nessun medico mi ha visitato nuovamente, solo un’infermiera mi ha sistemato le medicazioni. Dal San Raffaele all’ospedale San Paolo per fare una radiografia al viso per lo zigomo. Come mi hanno vista, hanno deciso di operami subito. Io ero agitatissima, per fortuna c’era mia figlia con me.
 
Poi sono arrivati i Carabinieri a interrogarmi. Stavo malissimo, piangevo disperata. Mia figlia mi teneva la mano e piangeva con me.
Dopo quattro giorni e una notte di ricovero trasferendomi da un ospedale all’altro, sono finalmente tornata a casa. Nel frattempo i Carabinieri di Cologno Monzese cercano lo stupratore. Fanno un’indagine al pub, vanno sul luogo e recuperano un pacchetto di sigarette e tramite il pacchetto riescono a risalire a questa persona in casa della quale trovano la mia borsetta e le mie cose… e altri vari oggetti femminili.
I Carabinieri in ospedale mi invitano al riconoscimento tramite delle foto.
Io me lo ricordavo benissimo… stava sopra di me, faccia a faccia, e l’ho descritto in maniera dettagliata.
Martedì mattina alle dieci i Carabinieri mi dicono: “Deve venire in caserma per il riconoscimento.” “Subito?” “Sì, subito. Abbiamo premura di prendere questo tipo.”
Io non stavo bene e non me la sentivo di seguirli “Signora, deve per forza venire con noi se no ci scappa!”
Sono andata in camicia da notte con sopra il paltò a vedere altre foto… mentre guardavo le foto su un libro… loro sono andati a prenderlo. Quando è arrivato ho dovuto fare il riconoscimento all’americana.
Una volta arrestato, lui sostiene di non ricordare niente.
Questo ragazzo è di una famiglia per bene, di chiesa… agiata. Una famiglia conosciuta qui a Cologno Monzese.
Ha detto: ”So di aver fatto del male a qualcuno però non mi ricordo niente.”
 
Te la caverai con poco, come tanti altri. Per quanto tu possa ripensare a quell’orribile momento… mai potrai capire quanto male mi hai fatto. Un male che brucia continuamente nel mio cervello… nel mio cuore… un male che nulla potrà mai cancellare.
Mi hai bruciato la vita, ragazzo.
 
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[STAMPA] Il teatro di Dario Fo e Franca Rame si studia alla Sorbonne

 

marina de juliPARIGI – Tutto il mondo considera ormai il loro teatro al livello di un “classico”: Dario Fo e Franca Rame rappresentano una delle più originali e complete esperienze di palcoscenico e drammaturgia del teatro contemporaneo.
La prova eclatante della loro rilevanza autorale fu il Nobel per la letteratura assegnato nel 1997 all’attore di Sangiano. Da allora, la consapevolezza culturale del loro ruolo si è progressivamente consolidata. Eppure, in Italia, fa ancora un certo effetto rendersi conto del (meritatissimo) credito scientifico del quale all’estero godono i nostri.
“Forse – prova a spiegare Marina De Juli, storica attrice della compagnia Fo-Rame – perché nel nostro Paese è sempre prevalsa la loro figura di interpreti e mattatori su quella di autori. E questo anche per l’esposizione civile e politica del loro teatro”.
Proprio Marina De Juli sarà ospite con ben due spettacoli al Centre Malesherbes di Parigi in occasione di una giornata di studi organizzata dalla Sorbonne: il 15 febbraio prossimo studiosi di teatro italiani e francesi si confronteranno su “Interpréter le théâtre de Dario Fo et Franca Rame. Approches théoriques et pratiques”.
 
“Per quanto riguarda la Francia – ci puntualizza Davide Luglio, responsabile scientifico, insieme a Laetitia Dumont-Lewi e Lucie Comparini, della giornata di studi – il loro teatro si è imposto progressivamente come classico da quando, nel 1974, José Guinot, con l’aiuto di Ginette Herry, lo fece venire in tournée con Mistero Buffo. Da allora, buona parte degli spettacoli di Fo e Rame è stata tradotta e rappresentata, ed è stato possibile cogliere sempre meglio ciò che fa l’universalità, la “classicità” della poetica di Fo. In una recente, bellissima testimonianza, Ginette Herry ne ha messo in evidenza i due aspetti centrali. Da una parte la funzione poetico-politica delle tracce mitiche o delle realtà storiche del conflitto tra «maggiorenti» e «poveri cristi». Si tratta, con esse, di far affiorare o di consolidare la consapevolezza della perennità degli oppressi e della legittimità delle loro lotte e delle loro utopie, dando a queste, magari, anche forza e vita. Dall’altra, la magistrale reinvenzione dell’attore-narratore che privilegia l’azione visiva e lo spettacolo piuttosto che la scrittura, facendo della letteratura non un punto di partenza ma un punto di arrivo”.
Marina De Juli, che in Italia porta in tournée da anni, con successo, una versione personalissima dei lavori di Fo e Rame, si confronterà per la prima volta con la recitazione in lingua francese del suo “Tutta casa letto e chiesa”, mentre “Johanna Padana a la descoverta de le Americhe”, riscrittura al femminile dell’anti-eroe di Fo, andrà in scena con la proiezione di un’inedita traduzione “grafica” realizzata dagli studiosi della Sorbonne.
 
“Molto spesso – aggiunge Marina –, all’estero, la fisicità del teatro di Dario è stata confusa con quella del clown o del mimo. In realtà, Fo è un «anti-mimo», il suo è un lavoro «a togliere». In altre parole, io in scena seguo la lezione del mio maestro: accennare le cose e lasciare alla fantasia dello spettatore lo spazio per completarle”.
Ma in cosa consiste l’elemento di maggior urgenza nel confronto con l’attualità della scrittura di Fo e Rame?
“L’attualità della drammaturgia di Fo è, ancora una volta -– secondo Luglio –, il prodotto della sua classicità. Nel rapporto stile-contenuto va osservato che l’uso che fanno Fo e Rame della storia è sempre un uso allegorico, sicché un fatto legato all’attualità degli anni Settanta o Ottanta nei loro spettacoli assume comunque un valore che supera la contingenza di quel dato momento. Nel 2010 Marc Prin ha portato in scena, al teatro Nanterre/Amandiers, «Clacson, trombette e pernacchi». È stato un grande successo anche se la pièce, strettamente legata alla storia italiana della fine degli anni di piombo, poteva sembrare ostica ad un pubblico francese. Invece, la sua dimensione allegorica ha permesso a Marc Prin di moltiplicare implicitamente i rinvii all’attualità di oggi, proprio perché non esiste epoca in cui non si riproduca, a questo o a quel livello, una dialettica oppresso-oppressore. Quanto all’attualità linguistica, essa è pure presente per lo spazio che occupa nel linguaggio scenico di Fo la visualizzazione gestuale del racconto. Sulla scena della Comédie française l’attore era, per così dire, solo e nudo, disponendo solamente della propria immaginazione per creare e visualizzare la storia che raccontava. E l’immaginazione di un attore è per definizione legata al suo tempo, al presente che vive e condivide con gli spettatori”.
 
15 febbraio 2012
Université Paris-Sorbonne – Salle des Actes – Paris
Giornata di studi
Interpréter le théâtre de Dario Fo et Franca Rame. Approches théoriques et pratiques
 
16 febbraio 2012 – ore 17
Centre Malesherbes, Grand Amphithéâtre – Paris
Johanna Padana a la descoverta de le Americhe
di Dario Fo, adattamento di Marina De Juli
con Marina De Juli
 
17 febbraio 2012 – ore 18
Centre Malesherbes, Grand Amphithéâtre – Paris
Tutta casa letto e chiesa
di Franca Rame e Dario Fo
con Marina De juli
 
Organizzazione:
Université Paris-Sorbonne
PRITEPS – Programme de Recherches Interdisciplinaires sure le Théâtre et les Pratiques Sceniques
ELCI-EA 1496 – (Équipe Littérature et Culture Italiennes)

fonte: etudesitaliennes.hypotheses.org

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[STAMPA] Dario e Franca: "169 anni in due. Quando inizieremo ad invecchiare?"

Alla fine è di nuovo tornato in scena in città ed è stato, come prevedibile, un successo. Tributo da tutto esaurito per la rappresentazione di "Mistero buffo"
 
Alla fine è di nuovo tornato in scena a Varese ed è stato, come prevedibile, un successo. «Dopo migliaia di rappresentazioni questo spettacolo è ancora più vivo che mai». La “giullarata” di Dario Fo e Franca Fame ha preso corpo oltre 40 anni fa e da allora Mistero Buffo è andato in scena migliaia di volte in tanti teatri del mondo. Senza perdere i suoi sentimenti e la passione. E il tributo che gli ha dedicato la platea da tutto esaurito del Teatro di Varese è stata la conferma della vitalità dell’esperienza teatrale del premio Nobel e della sua inseparabile moglie. «Abbiamo centossessantanove anni in due - ha raccontato l’attore coprendola di carezze affettuose - ma l’altra mattina Franca, guardandomi, mi ha chiesto: e noi quando iniziamo a invecchiare?».
E così eccoli ancora a Varese, dopo trent’anni dalla loro ultima rappresentazione di Mistero buffo in città e ancora di più dalla loro gioventù trascorsa per un periodo proprio in questa provincia (come ci segnala anche la Pro Loco di Azzate su facebook).
 
Di “Mistero buffo” si è detto e scritto ormai tutto, ma quando torna in scena su un palco merita sempre una pagina nuova. Perché Dario Fo ogni volta è capace di scompaginare la scena (fin dall’inizio dello spettacolo quando ha invitato il pubblico in sala a salire e sedersi sul palco per assistere), e poi perché è lo spettacolo che per eccellenza sbeffeggia il potere e i potenti e ogni volta ridà voce e vita a chi la storia se l’è vista passare sopra la propria testa. E spesso ne è rimasto schiacciato.
Prova ne è la pedata nel fondoschiena che nel teatro di Fo papa Bonifacio VIII agghindato di anelli e mantello, si prende da Gesù. È una delle scene più celebri, con le quali in un sol colpo Fo dissacra e sbeffeggia le gerarchie ecclesistiche dando rivalsa alla fede sincera e alla dignità di un popolo: quello degli oppressi di ogni tempo.
 
Sul palco varesino la coppia di attori ha portato quattro monologhi, le più celebri giullarate che compongono l’opera. A partire dalla resurrezione di Lazzaro, raccontata attraverso gli occhi di un becchino e di un popolano impegnati a scommettere sulla riuscita o meno del miracolo.
Subito di seguito, affidata a Franca Rame, è andata in scena la storia della nascita del primo uomo, una donna, Eva, secondo la versione dei vangeli apocrifi. La storia di come Eva ha proceduto Adamo nel momento della creazione e di come insieme hanno scoperto l’amore.
La terza rappresentazione è stata quella di Bonifacio VIII, dell’incontro di una Chiesa che vive nello sfarzo e Gesù che porta la croce. A chiudere la serata la rappresentazione di Franca Rame di Maria che piange suo figlio sotto la croce, mettendo in scena lo strazio e il dolore di una madre che soffre per la morte di un figlio, senza sacralità e liturgia ma carica solo di tanta umanità.
Uno spettacolo ricco e intenso dello studio e la passione che in tanti anni i due attori hanno infuso alla loro rappresentazione. Curato nella sua sincerità fin dalla lingua attraverso la ricostruzione dei dialetti del popolo che tra lombardo e veneziano caratterizzavano l’idioma dell’epoca della narrazione, in un filo che si è dispiegato e intrecciato anche con il presente. Con l’amministratore di Fiat Marchionne, papa Benedetto XVI, Silvio Berlusconi e altri personaggi di stretta attualità «aggancio indispensabile per il nostro lavoro - aveva detto Fo al nostro giornale -: la chiave di lettura per tanti aspetti del quotidiano: le furbizie, le corruzioni, le mascalzonate, la bagarre».

 
Tomaso Bassani
 

[STAMPA] La straordinaria coppia Dario Fo e Franca Rame sabato a Varese con “Mistero Buffo”.

Buffi,  vero, ma sempre di misteri si tratta. Quelli che Dario Fo e Franca Rame porteranno a Varese, sabato 18 alle 21 al Teatro di Varese a quarantatre anni di distanza dalla prima rappresentazione del testo teatrale: 1969, a Milano, “in un capannone di una piccola fabbrica dismessa dalle parti di Porta Romana”. Non è troppo affermare che Fo deve ad un’opera dei tardi anni Sessanta il suo Premio Nobel per la Letteratura del 1997. L’Accademia di Svezia sottolineò l’importanza dell’attore nel “fustigare il potere e riabilitare la dignità degli umiliati…”. Complice il corpo, il gesto, l’intonazione, lo sguardo. La compiutezza di un “grandissimo mimo”, come scrive Gianfranco Folena. Perché “Fo padroneggia da maestro le tecniche del discorso e della narrativa popolare”. Con Fo sul palco “potrete ottenere un’idea del tutto credibile di cosa fosse il teatro satirico dei giullari medioevali”, dice ancora Folena.
 
Linguaggio dai mille dialetti padani, nato dal migrare dei buffoni-clown-giullari. Fonte di comicità, grottesco, anticlericalismo. Spregiudicata la parola e l’accentazione; diavolesco – quasi – il suo ritorcersi nelle pieghe del viso e del recitare. Il canto, in questo caso, è parola e verso. E il racconto – Mistero Buffo nasce come giullarata popolare basata in parte sui vangeli apocrifi e sui racconti del volgo sulla vita di Gesù – è espressione di vita consumata. Ma, soprattutto, desiderata e vissuta. Non si tratta, dunque, solo di buffonesca rappresentazione del Mistero, ma rievocazione mistificata di episodi esplosi in un grammelot – linguaggio misto e a volte inafferrabile – che trasforma il pubblico in protagonista, non passivo, dello spettacolo. E’ l’umanità intera a porsi in gioco. Sono i suoi dubbi, le sue fantasie, le sue illusioni. Forse, il bisogno di guardare ad una figura di Gesù che sia umana, dunque, sempre “credibile”.
 
Per Dario Fo, recitare non è un mestiere ma un divertimento. Anche quando si tratta di “buttare all’aria convenzioni e regole”. Eppure, in “Mistero Buffo”, le regole sono quelle di un’umanità che si interroga sul Mistero e che di questo vuole conoscere, sapere e condividere. Senza filosofie e teologismi. La sua accezione terrena, certo non facile per chi esercita un credo assoluto nella fede, rappresenta il lato provocatorio della storia. Addirittura dissacrante quando si tratta di mescolare le carte di fronte alla “Resurrezione di Lazzaro”, “Bonifacio VIII”, “La fame dello Zanni”, la “Storia di San Benedetto da Norcia” o “Maria alla Croce”. Certo: come può una madre accettare la morte di un figlio? Come può non chiedere spiegazioni all’arcangelo Gabriele dei suoi messaggi? La vita e la morte. E, nel mezzo, i miracoli, le sbornie, lo spettacolo di chi risorge, l’ingordigia di colui che vuole mangiare…anche se stesso.
 
“Mistero Buffo” è tutto questo: una parabola di creatività artistica nella quale il Bene e il Male si contendono in una confusione che può essere risolta solo nei codici atavici della coscienza. E di una curiosità spaventosamente umana.
 
Davide Ielmini
 
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[STAMPA] Franca Rame si racconta: "Senza teatro non posso stare"

franca rame
VARESE «Sono in una fase di vita eccezionale e bellissima, piena e appagante. Scrivo, rivedo lavori del passato, aiuto Dario nelle sue mille attività. E poi il teatro, finalmente, dopo tutti questi anni di silenzio».
 
Franca Rame parla con tono pacato, ma si capisce che la gioia è parecchia e si trasmette soprattutto al pubblico del nuovo “Mistero buffo”, che i due attori portano in scena nei teatri italiani con un'energia da trentenni. Domani, alle 21, saranno al teatro Apollonio di Varese, un altro ritorno, in una città che Franca abitò ragazzina con la sua famiglia di attori girovaghi, marionettisti fin dal Seicento, con papà Domenico capace di costruire e portare in giro un teatrino smontabile da 400 posti, «coperto e plafonato, con camerini, servizi d'acqua e luce elettrica, persino col telefono», come scrisse nel 1942 Giovanni Cenzato nel suo libro “Piccolo mondo provinciale”.
 
Una famiglia numerosa, tra genitori, figli e nipoti, «con un figlio, ora alle armi, allievo del Centro sperimentale di cinematografia, e un'altra che è detta “la piccola Duse», scrisse il giornalista e commediografo milanese. Franca era bellissima e, come tutti i figli d'arte, non temeva il palcoscenico. «Tutti gli attori quando vanno in scena, sono tesissimi, hanno le mani sudate. Io mai, proprio perché fin da bambina sono stata in scena. Mi mette molto più a disagio lo stare in un salotto con gente che non conosco».
 
Nata a Parabiago, «ma con il lavoro di papà i figli nascevano chi qua chi là», nel 1929, Franca Rame ha lavorato nella rivista, con Tino Scotti, nel cinema - la ricordiamo splendida e platinatissima in “Caporale di giornata”, film di Bragaglia del '58, con il “povero ma bello” Maurizio Arena - in televisione e ha girato parecchi sketch pubblicitari. A 24 anni le nozze con Dario Fo e il nuovo percorso artistico, la Compagnia Fo-Rame fondata nel 1958, gli spettacoli nelle fabbriche e nelle università occupate, la nascita di “Mistero buffo”.
 
«Dario lo scrisse tra il '67 e il '68 nella casa di mia madre sopra Cernobbio, dove abitavamo allora con nostro figlio Jacopo e i figli di mia sorella e mio fratello. Era un posto tranquillo, i ragazzi andavano a scuola e noi preparavamo le nuove commedie. Poi vendemmo la casetta, perché con tutti gli impegni teatrali ci si andava solo il fine settimana».
 
Il ritorno sulle scene di Dario e Franca «abbiamo quasi 168 anni in due», è stato voluto soprattutto da lei: «Sono stata io a spingerlo, mi sentivo disoccupata, la mia professione è il teatro, abbiamo fatto sette spettacoli in due mesi e ci arrivano richieste da ogni parte d'Italia. I teatri sono esauriti, il pubblico ci manifesta rispetto, stima e simpatia ed è splendido toccare con mano l'emozione della gente».
 
L'intervista completa alla grande Franca Rame sulla Provincia di Varese in edicola domani, sabato 18 febbraio
 
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[STAMPA] "C'è ancora quel teatro con le vele di tela?"

Mistero Buffo torna sul palcoscenico di Varese sabato 18 febbraio. Il premio Nobel anticipa che nel suo spettacolo non darà spazio a polemiche e politica locale: "Non vogliamo sporcare lo spettacolo con certe bassezze"

 

 
dario fo e franca ramePiù che uno spettacolo è una pietra miliare del teatro italiano. Mistero Buffo torna sul palcoscenico di Varese sabato 18 febbraio: biglietti a ruba e grande attesa per vedere nuovamente all’opera nella città giardino Dario Fo e Franca Rame con l’imperdibile piece giullaresca in lingua grammelot. Legati al territorio varesino (Fo è nato a Sangiano nel 1926, Franca Rame ha passato gran parte della sua infanzia nella nostra provincia), i due attori, drammaturghi e artisti a tutto tondo riportano al Teatro Apollonio il loro più famoso pezzo di teatro, studiato nelle Università e portato in scena in mezzo mondo. «Saranno trent’anni che non rifacciamo Mistero Buffo a Varese – racconta Dario Fo a VareseNews -. L’ultima volta che siamo venuti in città siamo stati in quel teatro con le vele di tela. C’è ancora quello?». Lo rassicuriamo che nulla è cambiato e che di teatro stabile si è tornati a parlare da poco: «D’altra parte Bossi e compagni per la cultura non mi sembra abbiano mai avuto un grande interesse», aggiunge Fo, che ricorda come in tempi passati ci siano stati grandi assessori alla Cultura come «il mio amico Baj: lui ebbe grande attenzione per la cultura, ma durò poco. Farò una mostra di pittura a Milano a Palazzo Reale dove saranno esposte anche opere sue (“Lazzi sberleffi e dipinti” e “Addio Anni '70, Arte a Milano”, celebrazione degli anni della contestazione con “I funerali dell'anarchico Pinelli” di Enrico Baj). Mi piacerebbe portarla a Varese, pensa che sconquasso verrebbe fuori».
dario fo e franca rame
 
Della sua infanzia e gioventù nel Varesotto Dario Fo ha parlato più volte, ricordando la sua formazione artistica e aneddoti diversi, come quello che ci regala oggi: «È la provincia dove ho vissuto da piccolo e dove è cresciuta anche Franca: ci sono tornato decine di volte per passeggiate, visite e abbiamo portato qui tutti i nostri lavori nel tempo. Dei miei amici di allora non ce ne sono quasi più, è una gara di resistenza paradossale – scherza dall’alto dei suoi 86 anni da compiere il 24 marzo prossimo -. Mi ricordo di quando un mio compagno di Università al Politecnico, che avrà avuto dieci anni più di me (lui 30, io 20) mi portò all’Aermacchi a visitare la fabbrica dove lavorava e rimasi colpito dallo splendore della bellezza di quegli strumenti di morte: un senso di potenza assoluto, quasi surreale. Delle vere opere d’arte nella loro malvagità. Mi disse che gli americani appena finita la guerra si erano informati ed erano venuti a studiare la tecnica italiana. Io ne rimasi affascinato e colpito allo stesso tempo».
 
Mistero Buffo è uno spettacolo sempre in evoluzione, nato nel 1962, mai uguale a sé stesso. Anche questa volta Dario Fo e Franca Rame metteranno sul palcoscenico aspetti della quotidianità politica di questa nostra Italia affidata ai tecnici per salvarsi dal default economico: «Non possiamo farne a meno – spiega Fo -. L’attualità è l’aggancio indispensabile per il nostro lavoro, la chiave di lettura per tanti aspetti del quotidiano: le furbizie, le corruzioni, le mascalzonate, la bagarre. Ci sarà un po’ di tutto, mescolato e riadattato nel nostro spettacolo». Non ci sarà spazio per le piccolezze della politica nostrana però: «A trote e altri aspetti di bassa macelleria non ci voglio nemmeno pensare. Non vogliamo sporcare la nostra opera con queste bassezze».
dario foDa premio Nobel (vinto nel 1997), il giudizio sullo stato della cultura nostrana è tranchant: «È un periodo nero, nefasto. Si trattano la cultura e gli intellettuali come fossero operai senza diritti. I nostri governanti tagliano quello che ritengono superfluo o pericoloso, come la cultura e la satira, ma così fanno del male a tutto il sistema – chiosa Fo -. Fino a vent’anni fa era più facile fare cultura, c’erano spazi e risorse maggiori: tanti attori che si sono formati con me e Franca hanno avuto possibilità che i giovani di oggi si sognano. In giro per l’Europa non è così, sebbene ci sia la crisi anche là: in Francia, Germania, Inghilterra c’è più spazio, più possibilità di iniziativa. Lo vedo andando in giro. Qui da noi manca la volontà, oltre che le risorse. In Italia questa crisi produce silenzio, e il silenzio è uguale a morte».
 
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La casa editrice...

Ho messo in piedi nel 1975 una piccolissima casa editrice, pubblicavo unicamente i testi che mettevamo in scena. Lavoravo tantissimo. Con frenesia.
Ero l’editore, il direttore, il segretario, il correttore di bozze. Tutto da sola. Sempre al computer.
 
Come mi organizzavo?
Prima mossa: aggiornamento del copione rispetto all'ultima rappresentazione, didascalie, foto e documentazione.
 
E la punteggiatura?
E’ importantissima per un testo teatrale. Serve per dare le intonazioni. Conosco: i ritmi, i tempi, la sintesi indispensabile quando si recita.
 
Mi piace la carta, ne compero 12 risme per volta. Un pesooooo!
I fogli usati da una sola parte  li conservo per appunti, colpa della mia mamma che m'ha insegnato l'economia. Non ad essere economa, proprio "l'economia”.
 
Quando il testo era pronto lo consegnavo alla tipografia scegliendo carta, caratteri, impaginazione. Correggevo le prime bozze, le seconde, decidevo la copertina, se ero fortunata Dario mi dava una mano per la scelta del colore e il disegno da metterci sopra… questo lo faceva immediatly!
 
Quando usciva il libro, lo guardava come fosse un miracolo: "Bello! Brava!" E stop. Il suo interesse finiva qui… con un bacio sul naso.
Questo non significava che non gliene importasse niente.  Anzi, gli faceva molto piacere vederli ben allineati sul nostro banco di vendita durante gli spettacoli con me dietro che li decantavo.
"Li ha fatti Franca" diceva e dentro c'era anche orgoglio per me.
 
Che piacere mi faceva!!
 
Ma se fosse per lui non avremmo nulla in archivio, nulla stampato, nessuna registrazione degli spettacoli.
E' fatto così.  Non ha interesse per il suo "passato prossimo".
 
Dopo tanti anni di vita in comune, ma sopratutto di lavoro in comune, dopo mille arrabbiature per tanta indifferenza verso le sue "cose", sono arrivata alla conclusione di aver vissuto con l'uomo meno ambizioso della terra.
 
Un testo gli interessa quando nasce… crearlo, costruirlo, muoverlo, dipingerlo.  E quando è passato, è passato!
 
Fantastico Dario!
 
Franca Rame
 
 
Argomento: 
Anno: 

[STAMPA] La vita e il Teatro fuori dalle regole - 2° parte

Continua dalla prima parte
I detenuti, come  descrivevano nelle loro lettere, passate di nascosto ai familiari, stavano rinchiusi in celle minime, con una luce tenue che entrava a fatica dalla finestrella dalle pesanti grate. Arrivati al porto d’Alghero troviamo un motoscafo ad attenderci. Sole, aria tra i capelli… libertà.
 
Respiro a fondo. La vita non mi sorride. Una mano pesante mi preme l’anima. Arriviamo all’imbarcadero dell’isola: ecco Cardullo, il signor direttore ad attenderci. Stringo una mano umida senza un sorriso. Non mi viene. Per arrivare alla zona carceraria,  saliamo su di una jeep. Balliamo senza divertirci, sulla strada bianca che sembrava un gruviera.
Ero un po’ agitata. Nervosa e agitata.
Finalmente mi troverò faccia a faccia con persone che seguo da tempo per corrispondenza.Eccoci arrivati ai fornelli. Scendiamo.
Il dottor Cardullo: “Vi accompagna il maresciallo. Vi aspetto qui.” E si siede sul bordo di una fontanella. Lo sento molto teso.
 
Entriamo uno stabile a un solo piano: lunghi corridoi con porte di legno annose: marrone bruciato, lucchettate. Mamma mia quante!
“Chi vuol vedere signora?”
“Tutti.”
Le porte di legno vengono spalancate: mi trovo davanti altri cancelli con sbarre di ferro. Il maresciallo: “Qui c’è Sofia, qui, Franceschini, qui… e qui…
Mi avvicino alla cella semibuia di Franceschini.
Si sta facendo la barba.
Lo chiamo: Roberto…
Gira la testa appena per un attimo e riprende a radersi.
Alzo la voce. “Non mi saluti?”
Si avvicina lento.
Arriva alle sbarre, allunga una mano, che stringe con calore la mia.
“Scusa… pensavo fosse un miraggio…”
In un attimo tutti sanno che sono lì.
Con loro.
 
Un coro di voci, di parole affettuose, d’incredulità… Mi si chiude la gola. Ehhh sì… mi viene da piangere. Una dopo l’altra stringo tante mani… baci affettuosi tra le sbarre.
Gran momento.
Ho sempre scritto ai miei detenuti per reati politici “Non potrò mai condividere le tue scelte, ma difenderò con tutte le mie forze il tuo diritto ad avere colloqui con la tua famiglia, visita medica, gli occhiali se non ci vedi ecc.”
Pietro Sofia ha il viso gonfio. “Che è successo?”
“Mal di denti… ma il dentista non c’è.”
“Come passi la giornata?”
“Abbiamo un’ora d’aria in un cortiletto qua dietro… ma le pareti del muro sono bianche che più bianche non potrebbero essere… abbiamo tutti male agli occhi, dobbiamo ripararli con le mani…”
Pareti bianche: la stessa tortura era stata usata nelle carceri di massima sicurezza in Germania per i componenti del gruppo Baader Meinhof.
 
All’uscita dai fornelli, torniamo, caricando sulla jeep il Cardullo. Veniamo  accompagnati nella elegante abitazione del direttore dove ci attende la moglie elegantissima in un abito fresco a fiori bianco e nero lungo sino ai piedi. Che eleganza, mi sembrava di essere al Grande Hotel di Cesenatico.
Il pranzo è pronto.
Con il mio amico senatore c’eravamo detti:  “Non possiamo rifiutare l’invito a pranzo – che ci era stato preannunciato – ma mangiamo pochissimo…” Ci accomodiamo alla tavola imbandita con molta ricercatezza e ci vengono serviti spaghetti che solo al ricordo, mi si riempie la bocca di saliva: fantastici!
Scambio un’occhiata assassina e minacciosa con XX e inizio a mangiare. Una forchettata… due… e smetto.
Mi imita tristemente il mio povero senatore.
 
Terminato il pranzo riprendiamo il motoscafo e si ritorna ad Alghero commentando sconvolti quello che abbiamo visto.
Come scendiamo all’imbarcadero troviamo il dott. Bondonno che lavorava presso il Ministero di Grazia e Giustizia a Roma. Informato della nostra visita si era precipitato  all’Asinara in aereo. Si presenta facendoci una grande festa… come fossi una sua vecchia amica.
Ho sete e appetito. Andiamo in un bar. Parlo, parlo, parlo. Sono indignata. Turbata.  Bondonno si meraviglia di quanto racconto. “Possiamo darci del tu? Sono socialista. Cosa posso fare? Potrei mettere dei bigliardini nelle celle..”
Lo guardo interdetta.
“Posso fare una telefonata al carcere?” chiedo.
“Ma certo… con chi vuoi parlare? Col direttore?”
“No, con un detenuto: Pietro Sofia.”
Passa una mezz’oretta e drin: eccolo al telefono.
“Pietro…” “Che succede?” è agitato. “Nulla… volevo salutarti… sono col dott. Bondonno… ti serve qualcosa?”
“Sì… una pastiglia per il mal di denti…”
“Farà di meglio il dott. Bondonno… ti manderà dal dentista.”
Immediatamente il ministeriale chiama il Cardullo e dà l’ordine.
A qualcosa la mia visita è servita.
 
Tornata a casa scrivo immediatamente tutto quel che avevo visto. Il mio articolo esce su Repubblica.
Cardullo dopo qualche tempo è stato messo sotto inchiesta per ammanchi nell’amministrazione… ma niente carcere che io sappia.
Quante sono state le denuncie di orrori, di vere e proprie torture perpetrate nelle varie carceri, nelle carceri speciali, braccetti della morte, manicomi criminali, veri mattatoi degli inermi che ho portato a conoscenza dell’opinione pubblica? Quante sono state le campagne, perché i diritti civili (carcere e mondo) degli individui fossero rispettati?
Quanti sono stati gli spettacoli, gli interventi nelle fabbriche che con Dario abbiamo tenuto in sostegno a lotte rivendicative?
Quante sono le persone disperate che si sono rivolte a noi per aiuto, morale e finanziario?
Tante, tante, tante.
 
Ho avuto una lunga vita, e sono felice all’alba dei miei 83 anni, di averla vissuta come l’ho vissuta: entusiasmo, disponibilità, partecipazione, e disperazione.
Quando non riesco prender sonno, ripasso nella mente tutte le persone che ho avuto la fortuna d’incontrare… modeste, umili, sorridenti e piangenti… bisognosi anche solo per un conforto… poter parlare, sfogarsi con qualcuno che li stia ad ascoltare con amore. Tante.
Ho conosciuto anche i cattivi i violenti, gli stupratori, gli assassini.
Ho conosciuto, ovviamente anche qualche furbo… ma quelli si eliminano da soli.
Persone, ragazze, donne uomini… madri disperate, tossicodipendenti… insomma… il mondo.
 
Ma che bella vita!
 
Franca Rame
 
Anno: 

Le elementari ..."Sguercina!" .."Marchiata da Dio!"

A scuola ero sempre un po’ isolata a causa della mia famiglia.  Parlando di me, le mie compagne dicevano: è quella del teatro… e non suonava come un complimento.
C’era disprezzo.
Cosa significasse per quelle bimbe di 7-8 anni essere "quella del teatro” non lo saprò mai. Non ho mai osato chiederlo. Comunque, doveva essere giudicata una cosa non bella…  forse, “disonorevole”. Ero a disagio.

Guardavo la mia famiglia tanto unita… la mia bellissima mamma, mio padre con i suoi capelli bianchi… (li aveva così sin da giovane) mio fratello, le sorelle, i miei parenti e non vedevo nulla di diverso dalle altre famiglie. Quella ha il babbo che fa il droghiere, l’altra il calzolaio, l’altra il tappezziere… IL  medico, ill parruchere… i miei genitori facevano il teatro. E allora?
Ero vestita come le altre, tirata a pomice dalla mia mamma… educata, gentile.
Niente. Nessuno mi guardava.
Non riuscivo a farmi nessuna amica.
 
Il fatto è che io non ero nata in quel paese, venivo da fuori. Noi si stava fermi, con casa e tutto per un periodo, poi ci si spostava… Attori girovaghi.
Un giorno mi sono avvicinata ad un gruppetto di bambine, ero in terza elementare… parlavano fitto… poi sono scoppiate a ridere. Non sapevo perché, ma ho riso anch’io… forte, per farmi notare pensando anche di far loro piacere. Si zittiscono.
Una, la capa, mi guarda con vera antipatia e mi sibila un: "Vattene sguercina!". “Marchiata da Dio!” mi dice un’altra, senza sorridere.
Mi sono allontanata senza capire.
“Marchiata da Dio!” “Sguercina?”. Perché?  Cosa vuol dire? L’ho chiesto alla maestra… ho in mente una anziana  signora severa… ho avuto difficoltà ad esprimermi… ero agitata.
 
Mi guarda imbarazzata.
Con delicatezza accenna al mio strabismo.
Non sapevo nemmeno di esser strabica. Nessuno in famiglia mi aveva mai detto niente.
Ma non farci caso, sono cattive e tu sei una bellissima bambina.
In quel momento ho realizzato nella carne che ero diversa dalle altre. Dagli altri.
Ho gli occhi storti. “Marchiata da Dio!”
Oddio,che faccio? Ero sconvolta.
 
Sembra niente… ma vi assicuro che improvvisamente avevo perso la voglia di ridere, parlare, studiare.
M’era presa la vergogna di essere al mondo, di essere guardata.
Entravo in classe tenendo gli occhi chiusi, raggiungevo il mio posto toccando i banchi, mi sedevo e non c’ero più. Uscita, assente. La maestra viveva il mio dolore e non sapeva come aiutarmi.
Mi chiamava per interrogarmi, andavo alla cattedra sempre da cieca, e pur conoscendo la risposta, stavo zitta.
Lei insisteva appena e poi – “tranquilla… riproviamo domani. Ti ho portato un regalino…” e mi dava 2 caramelle.

Mentre tornavo al posto  sentivo i suoi occhi che mi seguivano e al tempo stesso guardavano  le altre bambine con disapprovazione. Ne ero certa.
Ogni giorno uguale all’altro.
Ero in sciopero dalla vita.
 
Parlo pesante, ma ho veramente vissuto tutto questo.
I tentativi della maestra di sbloccare il groppo che avevo in gola, non servivano. Nell’intervallo (io me ne stavo per mio conto con gli occhi chiusi appoggiata al muro) una della mia classe mi si avvicina… sbircio appena… lei mi sorride, mi prende una mano e mi ci mette sopra una caramella. Non  sono riuscita a dire nemmeno grazie.
Me la sono ficcata in tasca e l’ho conservata non so per quanto tempo. Mai mangiata.
Persa.
I traslochi.
Peccato.
Quella caramella, quel gesto  m’ha dato molto da pensare. Sì mi avevano detto sguercina, e “Marchiata da Dio!” ma forse non era una cosa così brutta come pensavo...
La caramella donata all’improvviso, mi aveva messo in crisi.
Erano state cattive… o ero io ad essere permalosa oltremisura, come mi diceva sempre la mia mamma? A quella età non si misurano le cose con il giusto metro. Né da una parte, né dall’altra.
Forse ho esagerato a prendermela tanto… sì devo proprio aver esagerato… mi ero anche chiusa come un riccio… forse ero diventata proprio antipatica… anche la maestra così gentile e io sempre a non rispondere alle interrogazioni…
Che fare? Penso. Deciso. Natale. A natale…
 
Lavoro sodo con carta velina colorata e forbici. Una certa mia zia Ida, mi aveva insegnato a fare cose miracolose con la carta velina. Taglia, incolla, taglia-incolla carta colora… forza…
Quante me ne mancano?
Finalmente: finito!
 
Arrivo a scuola con addosso l’incertezza di quanto stavo per fare… non mi sentivo sicura di niente. Insomma, piena di complessi sin d’allora, vado al  mio posto con gli occhi semichiusi… e mi si ferma il cuore.
Il mio banco era pieno di caramelle, bigliettini di tutte le forme… a cuore, dorati… disegnati… gentilezze insomma.
Che potevo fare dopo tanto tempo di disperazione e silenzio se non scoppiare a piangere?
Emotiva fin da piccola.
Tutte le bimbe mi vengono intorno,  mi abbracciano, si stringono a me… arriva anche la maestra… anche lei mi abbraccia. “buon natale!!!!”.
Estraggo dalla cartella i, credo 12, pacchettini, più uno per la signora maestra: “buon Natale anche da parte mia” bisbiglio.
Curiose scartavano il mio regalino. Esclamazioni di meraviglia. Cosa avevo fatto? Avevo per ognuna intagliato nella carta velina il nome, poi l’avevo dipinto con fiorellini d’argento, d’oro, rosati... Per la maestra avevo intagliato 13 testoline con i nomi di tutte le sue alunne.
Pace era fatta.
Contentaaa!   

A 9 anni, mia madre mi portò a Novara dove un certo dott. Boccia, mi ha operato per raddrizzarmi l’occhio sinistro.
No, non è andato bene l’intervento. Fatto si è che cresco. Ogni anno cambiavo paese e scuola. Credo di non aver più fatto caso alla gente che mi stava intorno… non ricordo nulla di particolare.
Collegio san Ambrogio di Varese.  Media borghesia, ricchi e riccotti.
Lì non sentivo emarginazione a causa del lavoro della mia famiglia. Mi trovavo bene tra tanta gente. Eravamo in tante… mi ero fatta un’amica, ma proprio amica. Era una ragazzina minuta, i capelli corti, molto timida. Con me parlava.
Allora non lo potevo capire. Ne sentivo solo il peso.
 
Franca Rame
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