foto: archivio Corriere della Sera
Le ferite ancora aperte nella storia afghana dell’ultimo secolo sono un’economia necrotizzata dalla guerra, con irrisolta dipendenza dagli aiuti internazionali e la piaga del mercato dell’oppio.
L’Afghanistan è, come noto, una regione poverissima, con picchi di inflazione al 240%. In passato il bilancio interno si è in qualche modo fatto forza dei pochi frutti della terra, ortaggi, datteri, noci e poco altro. Oggi l’Afghanistan è un lembo di terra arso dal fuoco dei bombardamenti; dove contadini e allevatori sbarcano il lunario coltivando papaveri oppiacei. Invasioni sovietiche, guerre civili, occupazione talebana, intervento militare americano, nulla è riuscito a scalfire la produzione dell’oppio, perché nel corso del tempo è diventato la moneta di scambio delle varie fazioni religiose- tribali e dei signori della guerra per alimentare i conflitti, incassando proventi da investire in armi e assurgendo a strumento di ricatto nelle relazioni internazionali. Ma questo non è che un lato della medaglia; perché dall’altro, offre ai moltissimi afghani che vivono sotto la soglia di povertà una delle poche possibilità di sussistenza.
I bombardamenti hanno lasciato una pesante eredità: terreni sconquassati e servizi di approvvigionamento idrico distrutti: anche chi volesse coltivare sui propri terreni uva, pomodori o noci, non può più farlo, l’unica alternativa, senza la ricostruzione civile, è piantare papaveri: crescono ovunque, necessitano poca acqua, e il raccolto è l’unico che viene retribuito dai capi-tribù locali, i quali concedono ai contadini, con un sistema simile a quello feudale, un lembo di terra per la coltivazione di oppiacei e un piccolo spazio per la sussistenza.
L’agricoltore entra così in una spirale: la pratica del salaam fa si che i trafficanti concedano un credito ai contadini, acquistando l’oppio prima che venga raccolto, ma se la produzione non copre la cifra, il debito viene trascinato di anno in anno, creando una rapporto di dipendenza economica. Tanto è diffuso questo sistema che sono state abbattute il 55% delle foreste di cedri, prima dedicate alla produzione di legni pregiati, per fare spazio ai papaveri rossi.
Tradizionalmente, le province più compromesse nella produzione sono l’Helmand, il Nangarhar e il Badakshan e le fasce sociali maggiormente coinvolte sono quelle più povere (e numerose): donne, bambini ed esuli.
L’oppio garantisce la sussistenza di tutti coloro che non vivono nelle città, al di fuori delle quali non è assolutamente riconosciuta l’egemonia del Presidente Karzai, e il codice di comportamento viene ancora dettato dalle regole non scritte religiose ed etniche. Secondo il World Food Programme, 4,3 milioni di abitanti delle zone rurali sono al di sotto delle condizioni minime di sopravvivenza, solo il 23% della popolazione dispone di acqua potabile, e solo il 12% po’ usufruire di strutture sanitarie adeguate. Per quanto riguarda i bambini, la mortalità infantile è altissima, il 60% risulta essere cronicamente malnutrito, e il 60% dei decessi infantili sarebbe facilmente evitabile.
Percorrendo la scala sociale e gerarchica fino al governo centrale, si trova ovunque un alto tasso di corruzione, che fa perno proprio sul mercato dell’oppio e sul traffico d’armi, capace addirittura di dirottare in alcuni casi anche i fondi internazionali per la ricostruzione in favore dei mercati illeciti. Non c’è fazione politica che non abbia tratto vantaggio dai proventi dell’oppio; ed è quindi intuibile il motivo per cui gli aiuti internazionali sono riusciti a coprire solo una minima parte delle esigenze della popolazione.
Il problema è talmente radicato nel tessuto economico-sociale che il suo contrasto è stato inserito fra i principi della carta costituzionale afghana. Facendo un paio di conti, escludendo gli aiuti internazionali, solo il 7% del fabbisogno economico è coperto dalla produzione locale, il resto è quell’area grigia che sottende ad oppio e traffici illeciti.
Insomma, senza questo mercato l’Afghanistan subirebbe un tracollo economico senza pari.
A livello internazionale ci si è interrogati su come spezzare questa catena che alimenta direttamente la guerra civile: gli Stati Uniti hanno optato per una linea dura, attuando un severo programma di sradicamento e repressione, congiunto ad assistenza all’agricoltura, che ha causato inizialmente un abbassamento della produzione d’oppio, ma sul medio termine si è poi dovuto riconsiderare a ribasso questo risultato, che ha portato in realtà solo ad uno spostamento della produzione nelle campagne lontane dal controllo USA, sotto l’egida dei capi-tribù.
I fondi internazionali non sono sufficienti: l’80% è dedicato ai contingenti militari e alla sicurezza, il restante 20%, non sono che briciole da dedicare alla ricostruzione civile: infrastrutture, e sussidi all’agricoltura.
Nel corso del 2006 la sola provincia dell’Helmand è diventata roccaforte dell’oppio e seconda produttrice mondiale, pare a causa di un utilizzo "improprio" da parte dei contadini dei nuovi fertilizzanti distribuiti dalle autorità governative originariamente destinati allo sviluppo di colture alternative al papavero.
Quello che appare sempre più evidente è la mancanza di uno sviluppo alternativo con un sistema di diritto e di garanzie, unitamente a una ricostruzione civile che garantisca ai cittadini la sussistenza. La presenza internazionale sul territorio afghano sembra sempre più fragile nel portare avanti queste istanza, essendo sempre più focalizzata in qualcosa di simile alla guerra che alla "missione di pace".
E’ cronaca di questi giorni l’invio di ulteriori mezzi militari d’attacco alle truppe italiane, e lo stanziamento di fondi che al 70% coprono necessità militari-belliche, e solo nella restante parte vanno in sostegno dei civili e della ricostruzione.
Tutta quest’esportazione di democrazia che s’è fatta, questi disastrosi anni di guerra, hanno lasciato un Afghanistan diverso, ma ugualmente povero, devastato, inginocchiato ai signori della guerra e della droga, dove il 50% dei lavoratori percepisce un reddito annuale che non supera i 500 dollari, poco più di un dollaro al giorno, con nuclei familiari di 10 persone. Il salario medio di uno statale ammonta a 40 dollari, e dei 400.000 dipendenti un quarto è colluso col narcotraffico.
Oltre il 70% della popolazione non h un lavoro legale, il 60% non ha elettricità, e tanta è la povertà che in molti sono costretti a vendere i propri figli per saldare i debiti.
Si tratta di statistiche che definiscono un bilancio amaro della nostra presenza in Afghanistan, dimostrando che saremmo indispensabili nel dare una svolta nella lotta alla guerra e alla corruzione partendo proprio dalla ricostruzione civile ed in particolare quella rurale. Se i fondi che l’Italia utilizza per fini militari fossero in parte dirottati in sostegni alle fasce sociali più povere e a quelle rurali, con incentivi all’agricoltura e una campagna di sradicamento che offra alternative plausibili atte a garantire il mantenimento delle famiglie di braccianti, offriremmo loro la possibilità di rompere le catene che li legano ai signori della guerra.
Sarebbe anche questo un modo di reprimere le recrudescenze etniche, alimentando una cultura di pace. Ci sarebbe quindi molto da fare, senza elicotteri mangusta.