Basta con gli sprechi

Campagna contro gli sprechi nell'amministrazione pubblica

Brutta fine per le auto elettriche all'asta a Palermo per 100 euro

 

Il comune comprò nel 1998 ottantotto Seicento Elettra per 3,4 miliardi di lire. Oggi non funzionano più e le mette all'asta per una cifra ridicola

 Repubblica, 17 giugno 2007

Ecologia? No grazie: ecco la brutta fine dell'auto elettrica, messa all'asta per 100 miseri euro. Ma andiamo per gradi. Grazie a fondi comunitari il comune di Palermo acquistò nel 1998 ottantotto Fiat Seicento elettriche con lo scopo di farle circolare in centro città per abbattere il tasso d'inquinamento.

Ora quelle vetture, abbandonate in un autoparco da due anni, sono state messe all'asta per 100 euro ciascuna, a fronte di una spesa che nel 1998 fu di 3,4 miliardi di vecchie lire (1,76 milioni di euro), poco meno di 40 milioni di lire per ogni vettura.

All'autoparco sono giunte finora 111 offerte, tra le quali quelle di piccoli comuni, ma soprattutto di tanti cittadini interessati alle auto. "Si tratta di vetture che così come sono non possono essere usate - dice però Giovanni Avanti, ex assessore all'Ambiente del comune nella precedente giunta Cammarata - Furono comprate nell'ambito del progetto 'Zeus' dall'allora giunta di Leoluca Orlando e utilizzate in via sperimentale".

Le auto furono usate soprattutto da dipendenti pubblici fino a quando fu valido il contratto di manutenzione della Fiat.

"Dal 2001 in poi la manutenzione fu a carico del comune - ricorda Avanti - Per ripararle dovevano essere portate in Campania con costi eccessivi e allora non si utilizzarono più, anche perchè spesso l'impianto elettrico dava problemi. La Fiat tra l'altro smise di produrle nel 2002'".

Avanti ricorda che "l'amministrazione smise di utilizzarle due anni fa". "Abbiamo cercato di cederle in permuta - conclude - ma non le ha volute nessuno, allora è stato deciso di metterle all'asta. Chi le compra probabilmente lo farà per la carrozzerie, riparare l'impianto elettrico ha un costo elevato".
(17 giugno 2007)
 


Lounge presidenziale da 3 milioni di euro

 

Come più volte annunciato dal Presidente Formigoni, entro il 2010 sarà costruita la nuova sede della Regione Lombardia per un costo complessivo  finale di 580 milioni di euro: il faraonico progetto prevede spazi aperti al pubblico, altri di carattere ludico ricreativo e punti di ristoro.

Ma  tre lunghi anni in un edificio inadeguato alla vita dello staff presidenziale  non sono stati ritenuti sopportabili, e di fronte al progetto Inside the Beauty, la Giunta non ha esitato:  parere favorevole allo stanziamento, attraverso la società Infrastrutture Lombarde, della bellezza di 2.718.000 euro per piccoli ma fondamentali ammodernamenti.
Non c’è infatti una regione al mondo per non costruire, nel ristrutturando  trentunesimo piano dell’attuale sede di Palazzo Pirelli, una buvette, una lounge presidenziale, uno spazio per colazioni con spazio espositivo, uno spazio conferenze ed infine un indispensabile belvedere, tutti all’interno di una struttura in vetro opalino.
Non era proprio immaginabile di risparmiare questo denaro pubblico, sacrificandosi ancora per qualche anno, in attesa della nuova sede regionale?
 
In cima al Pirellone una buvette e webcam in diretta sulla citta'
Di Olga Piscitelli, Corriere della Sera, 17.07.2007
Previste anche esposizioni d’arte e concerti. Oltre 2 milioni e mezzo la spesa. Critica l’opposizione
Cupola di vetro al 31° piano. Ospiterà un ristorante e immagini su Milano

Una nuvola di vetro sul 31° piano del Pirellone. Un guscio in parte opalino in parte trasparente per aumentare le sfaccettature di Milano. E sul pavimento di quello che per Gio Ponti doveva essere un belvedere aperto al pubblico, molti schermi che rimandano in diretta le immagini dalla città: l'ultimo cantiere aperto, le circonvallazioni, il Duomo, "il brusio multiforme della metropoli", chiosano i progettisti.

Il disegno ispirato al tema della "città infinita" e firmato da Mauro Piantelli dello studio De8 ed Enrico Gardin di 2 Architetti è approvato. Al 31° piano che rimarrà open space, grazie a un sistema di pannelli mobili, sorta di quinte teatrali, troveranno spazio "la buvette presidenziale, un’area destinata a esposizioni di arte, una per concerti o conferenze, una zona ristorante per colazioni ufficiali, un lounge per riunioni e pranzi di rappresentanza". Era dal 2006 che al Pirellone si studiavano soluzioni per il Belvedere, da quando, restaurato il grattacielo, dopo l’incidente aereo che sventrò il 26° piano, la Infrastrutture lombarde lanciò il concorso. Poi la valutazione dei progetti, le gare d’appalto, la burocrazia delle carte.

Ora tutto è pronto. Anche le polemiche. Per 1.260 metri quadrati, tanto misura l'area del tetto di Milano, la previsione di spesa è di 2 milioni 718 mila 933 euro. Troppo secondo la segnalazione arrivata al sito www.sprechilombardi.org. "È la buvette di Formigoni?". Tanto da indurre Carlo Monguzzi e Marcello Saponaro, capogruppo e consigliere regionale dei Verdi a presentare un’interrogazione.

"In vista del trasloco degli uffici, fissato per il 2010, perché—chiedono — si spendono questi soldi per fare un Belvedere nella sede del Pirellone? Non era più economico realizzare buvette e terrazze nella nuova sede?".I lavori del risanamento conservativo del 31¢ª piano dovrebbero concludersi nel 2008. Antonio Giulio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture lombarde spiega: "L’idea sarebbe quella di lavorare a uffici chiusi, per non intralciare l’attività istituzionale, di notte e durante il fine settimana". Il cantiere potrebbe partire tra la seconda metà di agosto e settembre.

"Il progetto — dice ancora Rognoni—è molto rispettoso dell’idea di Gio Ponti: è stato approvato, tra gli altri, anche da Egidio Dell’Orto, unico progettista vivente del pool di architetti e ingegneri che ha realizzato palazzo Pirelli.

Il 31°piano potrà essere affittato; gli introiti in un anno, prevediamo, copriranno la spesa".

Inside the Beauty, questo il nome in codice del disegno nato in uno studio di Orio al Serio, vicino a Bergamo, comprende anche un’idea per la trasformazione del 26°piano in "spazio della memoria". La sala riservata agli incontri politici sarà trasferita nella bolla di vetro. Il Belvedere, insistono i progettisti, "sarà aperto al pubblico. Il presidente lombardo e la sua giunta potranno muoversi dentro il guscio di vetro; i visitatori tutto intorno".

 

LIBRO VERDE: ECCO DOVE SI ANNIDANO GLI SPRECHI

Anticipato dal Ministro Padoa Schioppa, è finalmente stato pubblicato il libro verde che mostra quali sono i buchi dai quali scappano consistenti somme di denaro pubblico, come ottimizzare la spese e in che settori.
 
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 dal Sole 24 Ore
 
Conoscere per deliberare. Con questo intento il ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa ha presentato il «Libro verde sulla spesa pubblica», preparato dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica, con le prime indicazioni per spendere meglio. Dalla dinamica della spesa pubblica ai principali tentativi di governarla. La parola d'ordine è, proprio, spendere meglio, eliminando gli sprechi, correggendo i fenomeni di cattivo costume, riducendo i costi della politica, incidendo sull'organizzazione degli uffici, adeguando le strutture ai nuovi bisogni e dando un taglio netto a funzioni anacronistiche. C'è il rischio, dice Padoa Schioppa, che l'inefficienza della spesa pubblica «si incanali verso una inqualificata protesta fiscale». Sempre a proposito di fisco, il ministro ha ricordato che in Italia l'evasione fiscale è eccezionalmente elevata (e cioè nell'ordine di 100 miliardi l'anno, circa il 7% del Pil).

La sfida consiste in un cocktail di tre ingredienti: l'aumento del contributo del bilancio alla crescita, la progressiva riduzione del carico fiscale per i contribuenti in regola, l'alleggerimento del debito pubblico, che per interessi costa al Paese 70 miliardi
l'anno. «Per vincere la sfida - sottolinea il ministro dell'Economia - occorre il concorso di molte volontà», visto che la massa di risorse che compone la spesa pubblica dipende da molti». Senza maggior crescita, avverte Padoa Schioppa, è arduo conseguire «maggiore equità sociale, perchè la ridistribuzione del prodotto esistente non può dare risorse sufficienti a sviluppare l'intervento in campi ancora poco curati». I prossimi passi saranno quelli di rendere strutturale la capacità di spendere meglio nelle amministrazioni centrali, applicare l'intesa su produttività e merito nel pubblico impiego e avviare il federalismo fiscale, visto che dagli enti locali dipende il 30% della spesa totale delle Pubbliche amministrazioni.

(...)

 La spesa per interessi è circa il doppio di quella di altre economie europee a causa dell'elevato debito pubblico e si registra un valore elevato sul fronte della spesa pensionistica. Risulta, invece, più basso il livello di altre prestazioni sociali. Dal libro emerge che una spesa per interessi e pensionistica in linea con le altre capitali europee potrebbe liberare circa 50-60 miliardi di euro (4% del Pil) da destinare ad altre finalità: dal pareggio di bilancio agli investimenti in infrastrutture e ricerca, dallo sviluppo degli ammortizzatori sociali alla riduzione del prelievo fiscale.

Sul fronte della sanità si registra una forte variabilità regionale, con una significativa mobilità dei pazienti. Il costo medio giornaliero di una degenza negli ospedali italiani, è di 674 euro, in linea con i prezzi di una matrimoniale a 5 stelle in un albergo, cifra che significa che la spesa media annua, per un posto nelle aziende ospedaliere italiane, supera i 200 mila euro. Ma la cifra giornaliera di cui si deve far carico il Servizio sanitario nazionale spesso è molto più elevata, con un picco in Piemonte con 932 euro, che scende in Toscana a 829 euro, nelle Marche a 819 euro, nel Lazio a a 801 euro e via via fino alla Liguria, dove la spesa pubblica è solo di 593 euro.
Eccone un riassunto (grazie francy!):
Giustizia
Spendiamo come l'Olanda ma i processi durano il triplo

L'Italia ha una spesa pro-capite per la magistratura pari all'Olanda, ma le cause di divorzio e quelle civili durano il triplo del tempo, mentre quelle di lavoro arrivano a durare, in media, ben 35 volte di più rispetto ai Paesi Bassi.
Tribunali
Le uscite dei tribunali sono cresciute del 140 per cento

Negli anni'90 la spesa per la giustizia è aumentata del 140 per cento, i magistrati del 15 per cento.
Le cause civili arretrate, però, sono triplicate, mentre la loro durata è aumentata del 90 per cento.
E la spesa continua a salire: +27 per cento solo per i magistrati tra il 2004 e il 2007.
Ministeriali
L'aumento in busta paga sorpassa quello dei privati

Le retribuzioni del pubblico impiego sono cresciute del 30 per cento dal 2001 al 2006, il 10 per cento in più del settore privato, più dell'inflazione e della produttività. Ma negli anni '90 avevano avuto "una dinamica sistematicamente inferiore rispetto all'industria".
Mobilità
Il posto resta fisso, nessuno cambia ufficio

"Favorire una effettiva e graduale riduzione del personale pubblico, fermare la creazione di lavoro precario ed al contempo garantire l'immissione di risorse giovani e qualificate". La mobilità, soprattutto nei Ministeri, non ha funzionato.
Università
La carica dei mini corsi. Poche borse di studio

Proliferazione dei corsi brevi, diffusione di piccole sedi, rapporto docenti/studenti inadeguato, borse di studio insufficienti, scarsa selezione degli studenti, assenza di meccanismi di valutazione. Anche per questo le Università costano molto e rendono poco.
Professori
Troppi professori e 21.000 ricercatori

Troppi professori, 36.000 tra ordinari e associati, pochi ricercatori (21.000). E il Tesoro sottolinea la "sostanziale assenza di qualunque meccanismo di mercato che premi gli atenei meglio in grado di rispondere alla domanda di famiglie e imprese".
Sanità
Parti cesarei, 23 a Bolzano. Sono 59 in Campania

Promossa la sanità italiana. Il rapporto tra spesa e servizio, dice il Tesoro, è buono. Anche se si può ancora risparmiare. Perché a Bolzano ci sono solo 23 parti cesarei ogni 100, in Campania arrivano ad essere ben 59.
Ospedali
Un giorno in corsia costa fino a 932 euro

Un giorno di degenza in ospedale costa in media 647 euro. Ma si va dai 932 euro del Piemonte ai 593 della Liguria. Un dipendente della Sanità costa 38.000 euro in Veneto e 50.000 in Campania. In Piemonte sono 3,25 per posto letto, in Basilicata appena 2.


Padoa-Schioppa dà l´esempio via la carne dal menu del Tesoro

La Repubblica 30 AGOSTO di ROBERTO MANIA

Stretta alle spese della foresteria del ministero, ma si prepara il braccio di ferro con i colleghi di governo
Con i collaboratori colazioni di lavoro a base di riso e antipasti
La scure si è già abbattuta sulle sedi provinciali, le auto blu e i voli di servizio
«Ci siamo già indebitati; e abbiamo usato il credito per consumare e sprecare. Ora le risorse le possiamo reperire solo spendendo meglio, smagrendo strutture pubbliche ridondanti, spendendo meno in consumi correnti, con una politica di austerità delle retribuzioni pubbliche», scriveva dieci giorni fa il ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa in una lettera a Repubblica. Detto, fatto. L´austerità è arrivata davvero nelle sontuose sale di Via XX settembre. Anche in quella della foresteria, destinata ad ospitare le colazioni di lavoro dell´ex banchiere di Francoforte con i suoi più stretti collaboratori. A tavola, niente carne, né pesce. Salvo casi eccezionali, soprattutto in caso di ospiti. Ma non è una questione di dieta. È che (carne e pesce) costano troppo e che si deperiscono anche presto. Meglio il riso, allora. Con qualche antipasto.
La linea dell´austerity si è estesa anche alle cucine e al personale di servizio. La struttura è stata sostanzialmente dimezzata: è rimasto un solo cuoco e due camerieri. Nessun licenziamento, ovviamente. Trattandosi di finanzieri, sono stati adibiti ad altre funzioni.
Ora, Padoa-Schioppa si aspetta di essere imitato dai suoi colleghi del Consiglio dei ministri. E non solo a tavola. Da oggi, con il tradizionale fair play d´avvio, comincia il braccio di ferro sui tagli alle spese di tutti i ministeri. E questa volta sarà durissimo perché tutta la manovra che ha in mente il Tesoro è imperniata sui risparmi per finanziare altri capitoli della spesa pubblica, mantenendo fede all´annuncio di una manovra di «tregua fiscale». L´altro ieri è già uscito allo scoperto il titolare della Difesa, Arturo Parisi, per dire no a tagli al suo settore. Con meno nobili argomenti («le guerre esistono ancora») sarà imitato - c´è da scommetterci - da molti suoi colleghi.
Eppure la spesa corrente continua ad essere inarrestabile. Nei primi quattro mesi di quest´anno ha subito un´accelerazione di ben il 12 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. In valore assoluto circa 14 miliardi in più contro i 660 milioni di spesa destinata agli investimenti. È nella riduzione di questo divario la scommessa di Padoa-Schioppa. Che prima del menu ministeriale, aveva già agito di scure su altri fronti: per esempio su 80 sedi provinciali del Tesoro e della Ragioneria. E poi, sull´auto di servizio e sui voli per servizio: meno lussuosa e non blindata la prima; biglietti low cost per i secondi, nonostante la crisi della compagnia di bandiera. Austerity senza limiti patriottici.
 

PARADISI FISCALI MADE IN ITALY PER GLI OCCUPATI FRONTALIERI

La Repubblica, di Luisa Grion
 
 
Non è detto che per beneficiare di un fiscoaagevolato si debba, per forza, trasferire la residenza a Londra o Montecarlo e iscrivere la propria azienda nei registri delle isole Cayman. Basta un po’ guardarsi intorno per scoprire che i “paradisi fiscali” non sono poi così lontani. Anzi sono addirittura fra noi, basta vivere a Campione d’Italia, per esempio, a lavorare al Vaticano o ancora scegliere come sede dei propri affari la Repubblica di San Marino. Basta attraversare le frontiere tutte le mattine per recarsi in ufficio.
 
L’esenzione, certo, non sarà totale, ma i vantaggi sono notevoli.
A chi lavora oltre confine, infatti, è lo stesso fisco italiano che concede una franchigia. Lo sconto, ad ogni Finanziaria, viene messo in discussione. Ma fino ad ora è sempre sopravvissuto: sia la manovra 2006 che quella 2007 hanno fissato tale tetto per l’Irpef a 8 mila euro, più la deduzione dei contributi obbligatori di assistenza sanitaria. Il che, per i lavoratori frontalieri, va ad aggiungersi alla “no-tax area”. Dunque tutti coloro che percepiscono un reddito fino a 15.000 euro, di fatto, non pagano l’Irpef e la somma complessiva esente dei tributi può anche essere più alta se ci sono detrazioni per carichi di famiglia.
Ora va detto che i frontalieri non sono poi così pochi: viene considerato tale chi risiede in Italia e quindi non soggiorna all’estero ma lavora in “via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto nelle zone di frontiera e in altri paesi limitrofi”. Quanti sono? Non è facile da fare, ma si sa che in Svizzera lavorano circa 28 mila italiani residenti nelle province di Como, Varese, Verbano, Cusio e Ossola. Altri 2.500 si spostano dalle province di Sondrio, e in piccola parte da Bolzano, verso il cantone dei Grigioni, altri mille nel Vallese. E verso al Francia e il Principato di Monaco si dirigono, per motivi di lavoro, circa 3.500 italiani.
Ci sono poi i 5 mila connazionali che dall’Emilia Romagna e dalle Marche si recano in ufficio nella Repubblica di San Marino. Qui il discorso si fa più completo perché i “regali” fiscali elargiti alla Rocca non si limitano ai frontalieri, ma riguardano chiunque faccia della “Lilliput economica” il suo centro d’affari. E sono tanti: nei 60 chilometri quadrati che formano il piccolo stato attorno al monte Titano, ci sono oltre 5 imprese, la gran parte di provenienza italiana, sulle quali l’agenzia delle Entrate sta intensificando i controlli.
Ad attrarle è stato soprattutto la politica fiscale che, anche se non da di San Marino un vero e proprio “paradiso”, abbatte l’imposta sui redditi al 19%, garantendo un sistema di agevolazioni alle imprese decisamente favorevole. Molto fortunati sono anche i residenti della Città del Vaticano che le tasse non le pagano proprio, come peraltro, i cittadini italiani che lavorano in varie strutture del vaticano pur se al di fuori dai suoi confini (come il Bambin Gesù).
L’esclusione totale è prevista fin dai Patti Lateranensi. E poi ci sono gli sconti concessi a Campione d’Italia, enclave italiana in territorio svizzero con circa 3 mila abitanti dove, su diverse transazioni, non si versa l’Iva. Dove si gode di facilitazioni per il pagamento degli oneri sociali e dove non si rischiano nemmeno i punti della patente (che è elvetica).
Eppure siamo in provincia di Como. Contabilizzando questi ed altri vantaggi si arriva ad uno sconto fiscale rispetto all’Italia valutato fra il 20 e il 36%.


RESORT E HOTEL A 4 STELLE MA PER LO STATO SONO ESENTASSE di LUCA lEZZI, REPUBBLICA

 Curarsi, viaggiare, studiare. Basta aggiungere il marchio della fede per svolgere queste attività in un mondo à parte: regolato meno e più favorevolmente. La legge riconosce privilegi a tutte.le attività connesse alla religione: ciò che serve per alloggiare, sostenere, assistere e formare i fedeli non può essere tassato come un' attività a fini di lucro. Chiaro in teoria, ma nella pratica la linea di confine diventa abbastanza confusa: ostelli per pellegrini che diventano alberghi a quattro stelle, conventi che diventano resort alla moda; ospedali che godono dell'extraaterritorialità eppure a cui lo Stato riconosce finanziamenti direttamente in ogni Finanziaria.

L'inchiesta dell'Ue sui regimi fiscali riporta al centro l'attenzione soprattutto la questione immobiliare. Un vero e proprio ginepraio: al vertice c'è l'Apsa, sigla che sta per l'Amministrazione patrimoniale della sede apostolica che gestisce gli immobili della città del Vaticano e tutta una serie di fabbricati specie a Roma. Per molti di loro bisogna rifarsi ai Patti Lateranensi e diversi regimi di extraterritorialità Ma l'Apsa controlla anche proprietà "normali" in territorio italiano sottoposte specie negli ultimi anni a "normale" speculazione edilizia spesso attraverso società lussemburghesi e quindi lontano dalle grinfie dell'Erario. Tutta italiana poi la questione degli immobili di proprietà di enti religiosi e quindi "esentabili" dall'Ici. Visto che la legge impone il tributo solo nel caso l'attività sia «esclusivamente» commerciale il meccanismo più utilizzato è quello di affiancare e riconvertire solo una parte ad attività economica. La doppia attività ha trasformato conventi e seminari di pregio in hotel a quattro stelle o comunque centri famosi e ricercati dove si accettano visite e denaro da fedeli e non. Esempi di accoglienza "di lusso" si possono trovare a pochi passi dal Castel S. Angelo a Roma dove i Carmelitani condividono un albergo da 83-120 euro a notte con Tv satellitare, frigo bar e aria condizionata. Più esclusive le 7 camere dentro uno dei monumenti più famosi di Milano: l'abbazia di Chiaravalle. Sempre in tema di ospitalità monastica d'alta gamma da segnalare il monastero di Camaldoli in provincia di Arezzo che attira intellettuali, politici o semplici turisti che amano la Toscana. A Cortina poi una vera e propria istituzione sono le Orsoline che da mezzo secolo danno ospitalità a prezzi modici in un ex albergo a vip e turisti. Culto dell'ospitalità, ma anche valutazione dell'unicità della propria offerta. Offerte per ritiri spirituali e gruppi di fede, ma anche per il turista straniero, (di qualsiasi fede) che vuole soggiornare in una città d'arte. Tra case ferie, seminari e casa accoglienza le strutture che in Italia sono oltre 1000, tutte "parzialmente" riconvertite, e quindi al riparo dall'Ici, molte di loro sono facilmente rintracciabili su Internet. In alcuni casi la gestione passa a società laiche, ma la proprietà rimane all'ente religioso. Quello del turismo religioso è un vero e proprio network parallelo e capillare, spinta dalle numerose ristrutturazioni realizzate in questi anni spesso con l'aiuto pubblico. Il business dell'ospitalità genera 40 milioni di clienti l'anno scorso: 250 mila posti letto e oltre 4000 strutture. Gran parte del traffico è gestito direttamente dal tour operator e vaticano l'Opera Romana Pellegrinaggi che conta 2500 agenzie convenzionate e offre pacchetti completi, viaggi aerei, pernottamenti sia in alberghi normali che in quellì religiosi.

Regimi particolari anche nella Sanità, con le strutture (per lo più di eccellenza) nate da iniziative religiose che invariabilmente ci guadagnano nei rapporti can il Servizio Sanitario nazionale. Il Bambin Gesù, uno degli ospedali pediatrici più famosi d'Italia, vede i suoi rapporti con lo Stato italiano regolati da un trattato internazionale con tanto di ratifica sulla Gazzetta Ufficiale (fu donato nel 1924 direttamente, al Papa dai fondatori; la famiglia aristocratica Salviati). Gode di finanziamenti pubblici nazionali per la sua attività di ricerca, e dei rimborsi dalla Regione Lazio per l' attività quotidiane in quanto struttura convenzionata, ma non ogni modifica alle sue prerogative deve essere contrattata con il Vaticano dal ministero degli Esteri. Insomma una situazione in cui lo Stato paga ma non comanda. Anche per 7 ospedali "classificati" tenuti da religiosi nel Lazio vale un regime particolare: espressamente convenzionati nel 1978 (all'istituzione del Ssn) non possono perdere questa qualifica indipendentemente dalle necessità della Regione.

Per il Policlinico Gemelli e l'Università Cattolica ad esso collegate vale invece il trattamento delle strutture private per Sanità e istruzione. Un settore quest'ultimo che ha già suscitato polemiche da quando lo Stato ha iniziato a finanziare gli istituti privati. Il mondo cattolico non più di tre giorni fa ha accolto con piacere l'annuncio di un innalzamento a 500 milioni di euro da parte del ministro per la pubblica istruzione Giuseppe Fioroni degli stanziamenti per le scuole non statali dove le istituzioni cattoliche la fanno da padrone.


Casa Nostra - di Marco Lillo - l'espresso

Ci sono ministri e leader di partito, ex presidenti del Parlamento e della Repubblica, magistrati e giornalisti. La nazionale dell'acquisto immobiliare scontato è talmente vasta e assortita che ci si potrebbe fare un ottimo governo di coalizione. Si va dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ai presidenti della Camera e del Senato del primo governo Prodi: Luciano Violante e Nicola Mancino.

Dalla famiglia del presidente dell'Udc Pier Ferdinando Casini a quella del ministro della Giustizia Clemente Mastella passando per la figlia del deputato di An Francesco Proietti. C'è il candidato leader del Partito democratico, Walter Veltroni e il presidente del Senato Franco Marini. Non mancano la Borsa, con il presidente della Consob Lamberto Cardia e il mondo del lavoro con il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. C'è il senatore Udc Mario Baccini e il responsabile della Margherita in Sicilia Salvatore Cardinale. Situazioni diverse tra loro che talvolta convivono nello stesso palazzo.

Prendiamo lo stabile Inpdai di via Velletri, a due passi da via Veneto. Al primo piano la moglie di Walter Veltroni ha comprato più o meno allo stesso prezzo pagato dall'ex sottosegretario Marianna Li Calzi che abita al quarto. Ma le due storie sono diverse. Li Calzi ha ottenuto il suo attico alla vigilia della svendita a seguito di una discussa procedura pubblica. Veltroni invece è nato nelle case dell'ente previdenziale dei dirigenti. L'Inpdai aveva affittato sin dal 1956 un appartamento al padre, dirigente Rai. Nel 1994 i Veltroni restituirono all'ente i due alloggi nei quali vivevano Walter e la mamma per averne in cambio uno più grande, il famoso primo piano di via Velletri da 190 metri quadrati che nel 2005 è stato acquistato dalla moglie del sindaco, Flavia Prisco, per 373 mila euro. Il prezzo è basso per effetto non di un'elargizione personale ma per il meccanismo degli sconti collettivi concessi a tutti allo stesso modo. Altra cosa ancora sono gli acquisti delle case dell'Ina ora finite a Generali e Pirelli. Questi colossi privati in alcuni casi si sono comportati come spietati alfieri del libero mercato.

 
Altre volte hanno fatto prezzi bassi per blocchi di appartamenti finiti poi a famiglie dai nomi noti come Mastella e Casini. Scelte discutibili per società quotate in Borsa come Pirelli e Generali che dovrebbero puntare solo al profitto e che, evidentemente, hanno pensato di fare gli interessi dei propri azionisti cedendo appartamenti ai politici e ai loro amici a valori bassi. Insomma, ci sono differenze radicali tra venditore privato e ente pubblico ma anche all'interno delle due categorie. Se non bisogna far di tutta l'erba un fascio però ci sono due cose che accomunano i protagonisti della nostra inchiesta: sono potenti che hanno pagato troppo poco ieri per l'affitto e oggi per l'acquisto.
Inoltre nella maggioranza dei casi in quegli immobili sono entrati grazie a conoscenze, entrature e amicizie. Questa disparità di trattamento con i comuni mortali non è una novità. Emerse con violenza populista nel 1996 durante il primo Governo Prodi grazie alla campagna 'Affittopoli' de 'il Giornale' di Vittorio Feltri. Oggi quegli stessi immobili affittati dieci anni fa ad equo canone sono stati svenduti definitivamente e il privilegio è stato reso eterno.
Per fare qualche esempio: Lamberto Cardia, presidente Consob, pagava 1 milione e 100 mila lire al mese di affitto nel 1996 e ha comprato nel 2002 a 328 mila euro 10 vani e due posti auto a due passi dal Palaeur. Maura Cossutta, onorevole dei Comunisti Italiani, pagava 1 milione e 50 mila lire allora e compra nel 2004 quattro camere, due bagni e balconi a due passi da San Pietro a 165 mila euro. Franco Marini pagava 1 milione e 700 mila lire allora e compra nel 2007 a un milione di euro due piani ai Parioli. A rendere 'svendopoli' ancora più odiosa di 'affittopoli' c'è il peggioramento drastico del mercato della casa. Il trattamento di favore diventa un'offesa insopportabile per chi è costretto a combattere ogni giorno con l'ufficiale giudiziario che vuole sfrattarlo.
Per capire 'svendopoli' bisogna iniziare il nostro viaggio da via Clitunno, nel quartiere Trieste. In questa strada immersa nel verde, ci sono due palazzi che facevano parte del patrimonio Ina-Assitalia e che rappresentano bene il confine tra i sommersi e i salvati delle dismissioni. Lì abitava, prima della separazione, Pier Ferdinando Casini con la prima moglie Roberta Lubich e le due figlie minorenni. Nello stabile accanto abitava una coppia di dipendenti Assitalia: Davide Morchio e la moglie Maria Teresa.

Negli anni Novanta le famiglie Morchio e Casini sono uguali: entrambi inquilini delle Generali, pagano un canone basso e sperano di poter comprare l'appartamento con lo sconto. Poi arrivano le vendite tanto attese e l'uguaglianza svanisce: la famiglia Lubich-Casini rileva a prezzi di saldo tutto il palazzo. Morchio insieme ad altre 19 famiglie deve andar via. Nessuna offerta per lui dalla nuova proprietà, che per ironia della sorte è Caltagirone, il nuovo suocero di Casini. Gran parte degli inquilini, come l'ex ministro verde Edo Ronchi che può permettersi di comprare lì vicino, lascia il campo. La famiglia Morchio invece resiste all'ufficiale giudiziario che chiede l'intervento della forza pubblica. "Abbiamo un contratto che ci dà il diritto di prelazione", spiega Davide Morchio, "ed è stato ignorato. Nel palazzo vicino hanno potuto comprare a prezzi di favore. È un'ingiustizia".

Anche l'immobile dove vive la prima moglie di Casini è stato ceduto in blocco ma con una procedura atipica. Ha comprato a un prezzo basso, 1 milione e 750 mila euro, la Clitunno Spa, società creata appositamente da un manager bolognese di area Udc, amico di Casini e della prima moglie. Si chiama Franco Corlaita e ha già rivenduto tutto. Indovinate a chi? Alla famiglia Lubich. Nel novembre del 2006 la mamma di Roberta compra per 586 mila euro il secondo piano. Ad aprile del 2007 la prima moglie di Casini compra il piano terra, a 323 mila euro. Passano due mesi e il 21 giugno scorso l'operazione si chiude con la cessione alle due figlie minori di Casini del terzo piano (306 mila euro per 5 vani catastali) e del primo piano (8,5 vani per 586 mila euro).

Casini partecipa all'atto (mediante un procuratore) in qualità di genitore anche se il notaio precisa che paga tutto la moglie. Per convincere il giudice tutelare ad autorizzare la stipula dell'atto, i genitori presentano una perizia da cui risulta che l'acquisto è 'molto conveniente'. Generali non fa una piega. Inutile dire che gli inquilini del palazzo vicino sono infuriati e ipotizzano una simulazione dietro questo strano giro. Nella sostanza, dicono, la famiglia Casini ha comprato con lo sconto e noi no. Alla beffa contro i vicini, si aggiunge quella agli inquilini, senza alcuna distinzione di rango. Al primo piano del palazzetto Lubich-Casini vive in affitto Roberto Barbieri, senatore del centrosinistra e presidente della Commissione parlamentare sui rifiuti. Paga un canone di ben 3 mila euro ma è stato trattato come gli altri. Nessuno gli ha detto che il suo appartamento è diventato della figlia di Casini. Nessuno gli ha proposto l'acquisto a 586 mila euro. Con tremila euro al mese avrebbe potuto accendere un mutuo per comprare. Invece a maggio del 2008 dovrà lasciare.

Anche il caso della famiglia Mastella dimostra che non sempre le società private sono così cattive. Il ministro della Giustizia abita all'ottavo piano di un palazzo sul lungotevere Flaminio che ha fatto la stesa trafila di quello di via Clitunno. Da Ina-Assitalia a Initium, società di Pirelli e Generali. Initium è proprietaria anche dei condomini di via Nicolai alla Balduina, dove abita l'ex ministro Baccini e di via Visconti a Prati, dove vive Francesco Cossiga. Gli inquilini di questi palazzi non sono stati trattati come quelli di via Clitunno. Stavolta Initium ha concesso prelazione e sconto. Così nel 2004 Baccini ha comprato la sua reggia da 15 vani, due terrazze e 4 bagni per 875 mila euro e Cossiga è diventato proprietario di casa, soffitta e magazzino per 710 mila euro.

Nel caso di Mastella però Initium ha fatto di più. Il 3 dicembre del 2004 nello studio del notaio Claudio Togna (dell'Udeur anche lui) c'era una riunione familiare. I Mastella al gran completo facevano la fila per stipulare atti e il povero Togna sfornava atti come una pizzeria di Ceppaloni. Sandra Mastella ha comprato l'appartamento dove dorme il marito e si è impegnata a prendere la residenza lì per ottenere le agevolazioni fiscali. Per lei un ottimo affare: 500 mila euro per un appartamento che include una veranda abusiva (condonata) e la terrazza su tre lati che guarda il Tevere e Monte Mario dall'ottavo piano. Subito dopo la moglie del ministro ecco arrivare i figli Elio e Pellegrino.

Comprano altri quattro appartamenti, due a testa. I prezzi erano davvero allettanti. A Pellegrino vanno il primo piano da 4,5 vani per 175 mila euro e altri 6 vani al quarto piano per 300 mila euro. Va ancora meglio al fratello che si accaparra un terzo piano con 5,5 vani per soli 200 mila euro e un miniappartamento con ingresso, camera, bagno e terrazza a livello per 67.500 euro, nemmeno il costo di un box in periferia. Le case sono state pagate in gran parte grazie ai mutui concessi da San Paolo (400 mila euro alla moglie) e Bnl (un milione e 100 mila euro ai figli che dovranno versare una rata mensile di 6.430 euro). E che nessuno vada in giro più a dire che Initium è cattiva con gli inquilini.

Anche Francesca Proietti, socia di Daniela Fini e figlia di Francesco, deputato di An e braccio destro di Gianfranco, ha comprato un appartamento a un prezzo d'occasione: 267 mila euro per un secondo piano con terrazza su tre lati, salone e due camere all'Eur. Sempre dal patrimonio ex Ina arrivano gli immobili di Nicola Mancino e Luciano Violante. L'ex magistrato torinese ha pagato con la moglie 327 mila euro nel 2003 un gioiello incastonato tra i Fori Imperiali e piazza Venezia: due terrazzette, tre livelli e una settantina di metri quadrati coperti.Nicola Mancino ha comprato insieme alla figlia Chiara nel 2001 una dimora da 10 vani più una soffitta autonoma su Corso Rinascimento, a due passi dal Senato per 1 miliardo e 550 mila lire del vecchio conio. Sempre dal gruppo Pirelli Giuliano Ferrara ha acquistato l'appartamento ex Ina da 7,5 vani in piazza dell'Emporio al Testaccio nel palazzo che un tempo veniva chiamato 'il Cremlino' per l'alta percentuale di comunisti. Ferrara, che un tempo tuonava contro De Mita per il suo affitto a Fontana di Trevi, ha rilevato un sesto piano con terrazzo a 890 mila euro.

Molto più bassi i prezzi praticati dagli enti previdenziali. Grazie al doppio sconto (30 per cento più 15 a chi compra tutto il palazzo) le parlamentari Franca Chiaromonte e Maura Cossutta hanno stipulato un atto collettivo per due appartamenti in via della stazione San Pietro rispettivamente per 113 mila e 165 mila euro. Notevole anche il caso di Raffaele Bonanni. Il segretario della Cisl ha conquistato nel 2005 un grande appartamento dell'Inps al sesto piano in via del Perugino, nel cuore del quartiere Flaminio: otto vani a 201 mila euro. Con quella cifra in zona si compra solo un garage.

L'anno scorso ha fatto il colpo del secolo anche l'ex ministro e deputato della Margherita siciliana Totò Cardinale. In via degli Avignonesi, una strada bellissima tra il Tritone e via Veneto, ha messo le mani su un terzo piano da otto vani con affaccio su via delle Quattro Fontane : un gioiellino da due milioni sul mercato libero portato via per 844 mila euro. L'ultimo è stato Franco Marini. Il presidente del Senato ha stipulato il rogito il 23 aprile scorso. Un milione di euro per aggiudicarsi la casa assegnata alla moglie dall'Inpdai in via Lima: due livelli per 14 vani nel cuore dei Parioli.

Se Marini è il politico che ha pagato il prezzo più alto (per una casa che vale comunque il doppio) l'oscar del rapporto qualità-prezzo spetta al senatore UdcFrancesco Pionati. L'uomo che ha sfornato per anni pastoni per i telespettatori del Tg1 ha comprato un attico e superattico da favola in via Traversari. L'appartamento è aggrappato alla collina di Monteverde ed è affacciato su Trastevere. Grazie al solito doppio sconto ha speso un'inezia. L'allora mezzobusto del Tg uno aveva fatto ricorso al Tar per ridurre ulteriormente la valutazione e in Parlamento gli amici dell'Udc avevano presentato pure un'interrogazione parlamentare per contestare il prezzo esorbitante: 509 milioni di lire nel 2001 per 10 vani con doppia terrazza. Sì, un prezzo veramente scandaloso.

 
Quei figli di papà in via Arenula
 
 
 
 
Il motto dell'Udeur è 'la famiglia prima di tutto'. Clemente Mastella lo ha applicato alla lettera quando si è trovato di fronte a una grande occasione: acquistare a un ottimo prezzo l'appartamento che ospita la redazione del giornale del partito. Invece di intestare tutto all'Udeur, il segretario ha preferito far comprare alla società dei figli, Elio e Pellegrino. Permettendo loro un vero affarone. Se vendessero oggi potrebbero incassare una plusvalenza da un milione di euro.

Tutto inizia il 7 aprile del 2005 quando il consorzio che cura le vendite dell'Inail scrive all'Udeur, in qualità di inquilino, per offrirgli di acquistare l'appartamento dove ha sede il giornale del partito al prezzo di un milione e 452 mila euro più Iva. Prendere o lasciare. Mastella prende e fa bene. Stiamo parlando del quarto piano di Largo Arenula 34, pienissimo centro con affaccio su Largo Argentina. Un appartamento quasi identico, al primo piano dello stesso stabile, è stato ceduto nel 2006 dall'Inail a 1,4 milioni ed è stato rivenduto nel 2007 per 2 milioni e 350 mila più 100 mila euro di commissioni. La letterina che offre l'acquisto all'Udeur equivale a un assegno circolare che andrebbe incassato subito.

La prelazione spetta al partito, che è intestatario del contratto di locazione. Stranamente invece l'Udeur comincia un balletto di sigle e lettere. Prima sembra che acquisti 'Il Campanile nuovo' la cooperativa che edita il giornale. Poi invece acquista la società 'Il campanile Srl'. Tra le due c'è una bella differenza. Nel lontano 2001 anche 'Il campanile Srl' era la casa editrice del quotidiano ma ora, a dispetto del nome, è diventata qualcosa di ben diverso. Dopo aver incassato 480 mila euro di contributi per coprire i costi affrontati per il quotidiano nel 2000-2001, ha ceduto il campo alla cooperativa, come vuole la nuova legge.

La srl 'Il campanile' sembrava destinata alla rottamazione quando Clemente Mastella la ricicla per comprare l'appartamento di largo Arenula. L'atto doveva essere fatto entro ottobre del 2005 ma prima di firmare il segretario cambia opportunamente i connotati alla società. Il Campanile, diventa una società della sua famiglia. Prima era intestata a Tancredi Cimmino, l'ex tesoriere che nell'aprile del 2006 si candida con Di Pietro e viene trombato. Dopo le elezioni, nel maggio del 2006, Cimmino cede tutto a Clemente Mastella (che già aveva un 10 per cento della società).

Pochi giorni dopo il ministro della Giustizia gira le quote ai figli, Pellegrino ed Elio. Ora tutto è pronto per il grande acquisto. Il 10 luglio 2006 finalmente la società dei Mastella compra l'appartamento al quarto piano. Non basta. La srl cambia oggetto e si trasforma da semplice società editrice in azienda a tutto campo che può occuparsi di giornali ma anche di acquisizioni immobiliari, pubblicità, import-export, ristrutturazione di casali, attività turistiche e finanziarie. Poi muta anche il nome: ora si chiama 'Servizi e Sviluppo'. Una volta acquisita la sede, addio Campanile.

Oggi i figli di Mastella sono proprietari dell'appartamento e il giornale (che aveva più diritto di loro a comprare) è solo l'inquilino. Alla fine di questo giro tortuoso sono due le cose che sorprendono: una società finanziata dallo Stato con 480 mila euro nel biennio 2000-2001 per editare la testata del partito è diventata nel 2006 l'immobiliare privata dei figli del leader, scavalcando ogni distinzione tra interessi pubblici e affari privati che, anche in un partito a conduzione familiare, dovrebbe restare sacra. Inoltre la società di Pellegrino ed Elio ha fatto l'affare della sua vita grazie alla rinuncia del partito di papà a esercitare un suo diritto.

"Non c'è nulla di strano", dice il tesoriere dell'Udeur Pierpaolo Sganga, "l'acquisto è stato fatto senza alcuno sconto e senza alcun favoritismo, seguendo rigorosamente le procedure stabilite". Sganga annuncia che il partito sta per concludere un secondo colpo, ancora più grande, nello stesso palazzo. Anche i due appartamenti del secondo piano che ospitano la sede nazionale dell'Udeur presto saranno venduti all'inquilino. Un affarone che vale il doppio di quello già concluso: sono 21 vani contro i 9 dell'appartamento del quarto piano. Stavolta chi comprerà? Dalle carte depositate in conservatoria spunta una lettera dell'Inail del 2005 nella quale l'ente riconosce la prelazione per questi appartamenti, come per quello già venduto, alla solita società 'Il campanile Srl' oggi 'Servizi e Sviluppo' dei Mastella. A 'L'espresso' il tesoriere Sganga giura: "Comprerà l'Udeur".

 

Consulenti d'oro di Marco Lillo – L’espresso

Disegno tratto da L'Anomalo Bicefalo (disponibile su www.archivio.francarame.it)

 

 

Un miliardo e mezzo l'anno speso da Stato e regioni per incarichi inutili. Concesso ad amici, politici, faccendieri. E Palazzo Chigi frena la trasparenza. La rete dello spreco

 


Una città di 261 mila abitanti, tanti sono i consulenti esterni della nostra pubblica amministrazione. Una massa enorme che succhia ogni anno un miliardo e mezzo di euro dalle casse pubbliche. Architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, ma anche personaggi in cerca di contratto senza alcuna competenza, figli di ministri, amanti, clienti e famigli, portatori di voti, politici trombati e manager arrestati. Tutti in fila per incassare la loro fetta della grande torta. Il ministero della Funzione pubblica tra poche settimane presenterà in Parlamento la sua relazione sugli incarichi. 'L'espresso' è in grado di anticiparne il contenuto. A leggere le tabelle, riferite al 2005, ultimo anno censito, c'è da restare a bocca aperta.

I consulenti esterni sono 156 mila e 500, la popolazione di un capoluogo di regione come Cagliari, vecchi e bambini compresi, a cui vanno aggiunti i 105 mila pubblici dipendenti che eseguono prestazioni extra per altri enti fino ad arrivare a un totale di 261 mila persone. Una città grande come Venezia che galleggia sulla spesa pubblica. Basterebbe abolire le consulenze e si potrebbe rimborsare l'imposta sulla prima casa a due italiani su tre. Ma non si può. Il fenomeno è ormai strutturale: nulla riesce a combatterlo. Rispetto al 2004 la spesa è ferma a 1 miliardo e 500 milioni di euro. E anche se gli incarichi sembrerebbero diminuire, il condizionale è d'obbligo: i burocrati tardano nel consegnare gli elenchi degli ingaggi e quasi sempre il dossier finale lievita di mese in mese, con rialzi di centinaia di milioni.

La spesa per gli incarichi esterni è ormai una montagna difficile da ignorare anche per la politica italiana. La Finanziaria del 2005 aveva posto dei limiti precisi al potere discrezionale degli amministratori, poi erano intervenuti il ministero con una circolare e la Corte dei Conti. La Procura Regionale del Lazio, quella competente sugli organi centrali, ha dato un segnale inequivocabile, mettendo all'indice i vertici di 14 colossi pubblici. Si va dall'ex commissario dell'Unire, l'ente delle razze equine, al quale sono stati contestati 147 mila euro , fino alle consulenze elargite dai tre ultimi ministri della giustizia: Fassino, Diliberto e Castelli. Dal direttore generale dell'Istruzione, sotto accusa per 90 mila euro di parcelle, all'Asi, l'Agenzia spaziale italiana, che avrebbe mandato in orbita assegnazioni illegittime per un totale di 381 mila euro.

Chi non pubblica paga
L'onda però è proseguita ignorando anche i fulmini della magistratura contabile, fino a quando i senatori della Sinistra democratica, Cesare Salvi e Massimo Villone, hanno tirato fuori dal cilindro un'arma letale contro le consulenze facili dello Stato. Un comma inserito nella manovra per il 2007, che rappresenta una miccia accesa nel sottobosco della politica: "Nessuna consulenza può essere pagata se non sia stata resa nota, con tanto di nome e compenso, sul sito Web dell'amministrazione". E se l'incarico non viene pubblicizzato, scatta una punizione micidiale: chi ordina il pagamento e chi ne beneficia deve restituire i soldi di tasca sua.

 

La Farnesina

Sembrava l'uovo di Colombo, in grado di trasformare il Palazzo in una casa di vetro. Tutti avrebbero saputo in tempo reale con un click i nomi dei 223 consulenti delle agenzie fiscali, dei 14 mila uomini d'oro della sanità e soprattutto dei 4 mila e 563 prescelti dai ministeri. Purtroppo, l'Eden della trasparenza telematica non si è realizzato. Cavilli, circolari e ricorsi burocratici hanno depotenziato l'arma letale. E alla fine più della metà dei ministeri ha mantenuto il silenzio. Nella lista dei buoni figurano Funzione pubblica, Comunicazioni, Interno, Solidarietà sociale, Commercio estero, Salute, Sviluppo economico, Attuazione del programma, Affari regionali, Economia. Mentre tra i bocciati troviamo a sorpresa un paladino della lotta alle consulenze fasulle come Alfonso Pecoraro Scanio. Il ministero degli Esteri, pur non avendo ancora sul sito la lista, non ha avuto difficoltà a consegnarla a 'L'espresso', come hanno fatto anche l'Enav, l'Unire e l'Aams. Va detto però che il cattivo esempio viene dall'alto. I dipartimenti e gli uffici di Palazzo Chigi non hanno ancora pubblicato l'elenco dei consulenti. "Ma nel frattempo", spiega il segretario generale Carlo Malinconico, "i pagamenti degli incarichi conferiti dopo la finanziaria del 2007 sono sospesi".

I beneficiati
Chi è sul Web invece può incassare. Ed ecco spuntare una lista infinita di avvocati, ingegneri, commercialisti, architetti o semplici ragionieri. Pochi i nomi noti. Come Pellegrino Mastella, figlio del Guardasigilli e consulente di Bersani allo sviluppo economico per 32 mila euro. Nelle liste dell'Inpdap spunta il manager informatico Elio Schiavi. Chi è? Secondo Visco è stato una vittima dello spoils system di Tremonti. E Schiavi, definito dal viceministro diessino "l'inventore del fisco telematico", potrà consolarsi con un contratto da 150 mila euro. Alla Farnesina si segnala invece il rientro sulla scena dell'ex procuratore di Roma Vittorio Mele. Sottoposto a procedimento disciplinare nel 1998 per i suoi rapporti disinvolti con il re delle cliniche Luigi Cavallari, Mele aveva lasciato la magistratura evitando il giudizio del Csm. Ha appena firmato un contratto da 24 mila euro per quattro mesi e mezzo. Altri 25 mila euro andranno invece a Giovanni Lombardi, rappresentante dei Ds nel consiglio degli italiani all'estero, per progettare il museo dell'emigrazione.

Le Poste pubblicano la lista più completa: 194 gli incarichi e un paio di curiosità: i 200 mila euro a Maurizio Costanzo e gli 8 mila euro a Giovanni Floris. Gran parte dei soldi però vanno agli studi legali, come quello dell'onorevole di An Giuseppe Consolo (126 mila euro per il 2007) o quello fondato da Giulio Tremonti che ha preso 25 mila euro. L'Anas invece mostra un profilo fin troppo basso. Stando alle striminzite comunicazioni del sito, avrebbe speso finora poco più di 400 mila euro per sei incarichi. Una carestia rispetto ai 41 milioni del 2003 e ai 20,4 milioni dell'ultimo anno. Dov'è finita l'azienda sprecona che regalava 2 milioni e mezzo di euro in consulenze come buonuscita ai consiglieri? Basta fare un paio di verifiche per scoprire che il lupo cambia colore politico ma non il vizio. Sul sito non appare, per esempio, l'ingaggio da 100 mila euro all'ex consigliere Alberto Brandani, vicino all'Udc. Perché? Risposta burocratica: la commissione di cui fa parte è anteriore alla nuova legge. Esemplare la vicenda di Giuseppe D'Agostino. Un collaboratore da 50 mila euro l'anno, ignorato nella lista pubblica, ma attivo in tutto il mondo, dove incontra ministri per conto dell'Anas. In Moldavia ha presentato un accordo, seduto accanto al premier, per rifare tutte le strade . Non figurano sul sito neanche i due giovanissimi avvocati Sergio Fidanzia e Angelo Gigliola. Trent'anni a testa, iscritti all'albo dal 2005, hanno ricevuto dall'Anas un paio di arbitrati e la difesa della società nelle cause più importanti, quelle contro le autostrade davanti al Tar e alla Corte di giustizia europea. Per le stesse controversie è stato arruolato anche Marco Annoni, legale arrestato dal pool di Mani Pulite che ha patteggiato la sua condanna per tangenti. Il loro compenso è top secret. Ma quella degli avvocati in carriera non è un'eccezione. Perché con una direttiva firmata da Romano Prodi molte categorie sono state escluse dalla trasparenza. Una deroga che regala l'anonimato a tanti professionisti della parcella: tra loro artisti, società di revisione e soprattutto avvocati patrocinanti. Particolare piccante: il segretario generale di Palazzo Chigi che sta seguendo la partita delle consulenze è l'ex avvocato Carlo Malinconico, titolare dell'omonimo studio, chiuso dopo l'approdo a Palazzo Chigi, nel quale hanno mosso i primi passi i giovani Fidanzia e Gigliola.

Agenzie reticenti
L'Anas è in buona compagnia. Anche le agenzie fiscali seguono la linea dell'ermetismo. A fine agosto, territorio, dogane, monopoli ed entrate dichiarano sui rispettivi siti in tutto 21 consulenze. Nel 2004, secondo il ministero, le agenzie elargivano 223 incarichi. Che fine hanno fatto? Una parte importante si trova nel calderone della Sogei, che fornisce personale e servizi alle agenzie, e che però copre i suoi consulenti con il silenzio. È il caso del braccio destro del direttore dei Monopoli, Giorgio Tino. Si chiama Guido Marino e lo accompagna persino alle audizioni in Parlamento. Proprio a Marino, il direttore Tino ordina al telefono (intercettato dal solito pm Woodcock) nell'aprile del 2005: "Procurami tutte le carte. Poi leva da tutti i computer e lascia solo sul tuo senza farlo vedere ai colleghi". Oggi Marino sul sito non c'è, anche se il suo incarico, ottenuto da Sogei con una sorta di gara, potrebbe valere circa 2 milioni di euro.

Situazione analoga all'Ice. L'Istituto per il commercio estero non espone la sua lista e così è impossibile sapere quanto guadagna la società Triumph, controllata da Maria Criscuolo, imprenditrice molto amica di Umberto Vattani, come è emerso dalle intercettazioni di un'inchiesta contro il capo dell'Ice. Anche la Triumph sarebbe oscurata dalla solita direttiva Prodi. Attacca Cesare Salvi: "Quella circolare limita moltissimo l'obbligo di trasparenza e va contro la legge. Comunque non ci fermiamo. La strada è quella giusta e anche il premier lo sa. Ora vogliamo chiedere che nella Finanziaria si includa l'obbligo di pubblicare tutti gli atti di spesa. Anche se il vero problema sono gli enti locali, sui quali non possiamo intervenire. Lì accadono gli abusi peggiori".

L'autonomia delle regioni è diventata libertà di spreco. L'Eldorado delle consulenze è in Lombardia: il censimento parziale del 2004 segnalava 45.500 incarichi con 185 milioni di euro liquidati. E tutto calcolato per difetto: un quinto del totale nazionale. Un sistema di potere parallelo, in parte all'insegna della cultura del fare, nella presunzione che il professionista esterno nominato direttamente faccia prima e meglio. Il modello caro a Letizia Moratti, che in un anno a Palazzo Marino ha assegnato 91 incarichi. In parte però questo network nutre anche il sottobosco del potere. L'ultimo scandalo è recentissimo, emerso alla vigilia di Ferragosto con un'istruttoria penale per truffa. Al centro un progetto finanziato dal Pirellone per costruire sul lago di Como il Museo di Leonardo. Viene perquisita la Glr Consulting, controllata dal consigliere regionale Gianluca Rinaldin di Forza Italia. In Piemonte, nel 2005, regione, province e comuni hanno inghiottito consulenze per 18 milioni di euro, un terzo dei quali ritenuto privo dei requisiti. A Genova, le Fiamme Gialle hanno contestato un danno erariale superiore ai 20 milioni: sotto accusa nove amministratori dell'Istituto tumori. La Guardia di finanza spiega che, "a fronte di enormi investimenti effettuati, non è stata prodotta alcuna attività scientifica". Nel Lazio il meccanismo si è evoluto per aggirare i controlli. E le designazioni vanno a carico delle società a partecipazione regionale. Secondo una denuncia dei sindacati, Sviluppo Lazio ne ha assegnate per un importo di 27 milioni; la Filas per 8,2 milioni, la Bic per 5. In Abruzzo tra gli ingaggi della giunta guidata da Ottaviano Del Turco si segnala il fotografo personale del presidente e il vignettista. Il primo costa 60 mila euro, il secondo 32 mila per occuparsi, tra l'altro, del cartoon 'Capitan Abruzzo'. Il fumettista è figlio del sindaco di Collelongo, comune della Marsica che ha dato i natali a Del Turco.

Certo, a Sud la situazione è peggiore. C'è il caso Calabria che spicca fra tutti. Quando i magistrati sono andati a mettere il naso negli incarichi della Regione, si sono messi a piangere. In soli tre mesi ne erano stati assegnati una valanga: metà con importi non specificati, l'altra metà per oltre 487 mila euro. E tutti, ma proprio tutti, illeciti. Persino quelli destinati all'attuazione del 'piano di legalità' non rispettavano le regole. In altre regioni gli incarichi sono quasi dei benefit. In Molise lo scorso anno il presidente della giunta ha nominato due consiglieri personali costati 115 mila euro. Nella lista non manca una ricerca sui molisani a Stoccarda per 41 mila euro e un intervento sperimentale sulle lepri da 15 mila.

In Sicilia, invece, consulenza è sinonimo di favore. Talvolta anche agli amici degli amici. Come nel caso di Francesco Campanella, il mafioso ed ex presidente del consiglio di Villabate, oggi collaboratore di giustizia. Anche lui non si lasciò sfuggire un bel contratto. Nessuno oggi è in grado di stabilire quanti siano i consulenti: c'è stato persino un esperto per la 'prevenzione dei rischi connessi al diffondersi del bioterrorismo'. Un caso limite? No: a Rosolini, comune in provincia di Siracusa, c'è stato l'esperto per la lettura delle bollette telefoniche. A Catania ancora ricordano l'affascinante Miriam Tekle. La splendida top model eritrea, dopo aver partecipato alle finali di Miss Italia nel mondo, venne nominata alle dirette dipendenze dell'assessorato comunale all'Industria, per svolgere funzioni di 'supporto dell'attività d'indirizzo'. Per quell'incarico, la bella Miriam avrebbe dovuto percepire poco più di 24 mila euro all'anno. Dopo le proteste non se fece nulla, perché Miriam, così c'è scritto, aveva 'poca attitudine al ruolo'.

hanno collaborato Stefano Pitrelli e Marcello Bellia

(23 agosto 2007)

Com'è galante quel Galan

di Paolo Tessadri

 

"Certe consulenze che fanno ricchi avvocati e professionisti potrebbero essere evitate sfruttando le risorse interne". Angelo Pavan, anziano senatore dc, oggi alla guida dei cento comuni dell'Anci trevigiana, è l'ultimo a criticare la sbornia di incarichi in Veneto, terza regione in Italia con 117 milioni di euro finiti in parcelle e 22.998 consulenti. Spesso per attività di chiaro stampo elettorale.

Nel febbraio 2006 la giunta di centrodestra finanzia con 25 mila euro la 'cerimonia di presentazione del recupero e dello sviluppo della portualità veneziana'. I discorsi di rito li tengono il governatore Galan e il ministro Lunardi e i 25 mila euro servono per pagare il pranzo agli elettori. Designata è la società di pr Bmc Broker con sede a San Marino, di cui fanno parte l'ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, e il suo ex capo ufficio stampa, Gianluca Latorre. Per lo stesso evento la Bmc Broker riceve altri 150 mila euro dall'Autorità portuale di Venezia e 60 mila dalla società regionale Veneto Acque. La Bmc ha avuto 130 mila euro per pubblicizzare il sistema metropolitano regionale.

Luca Zaia, leghista e vicegovernatore, ha speso 900 mila euro per organizzare a Jesolo un triennio di Miss Italia nel Mondo. E ci è scappato anche il rinnovo a Mario Maffucci, ex capostruttura di Raiuno, da 25 mila euro nel 2006 a 33 mila 600 nel 2007. Compito: portare il Veneto nelle trasmissioni Rai. E An? A marzo il direttore generale dell'Arpav, l'agenzia regionale per l'ambiente, Andrea Drago ha affidato un incarico promozionale per 80 mila euro a Davide Manzato, geometra, consigliere comunale a Vicenza: entrambi hanno la tessera di An. Ma la consulenza forse più importante è quella al portavoce di Galan, Franco Miracco, per 126 mila euro annui: è lui il regista della sfida culturale contro Cacciari e delle mosse future dell'ultimo doge.

 

a Firenze arrivano le Fiamme Gialle

di Simone Innocenti

 

Gli incarichi sporchi non si lavano nemmeno in Arno Così la Corte dei conti di Firenze ha formalizzato le ipotesi d'accusa contro 60 dirigenti della Regione Toscana, tutti nel mirino per le consulenze elargite tra il 2002 e il 2003. Il bello è che l'indagine delle Fiamme Gialle si basa su un mansionario pubblicato per magnificare le professionalità della Regione. Bene: ma se i dipendenti sono così bravi, che bisogno c'è di affiancargli una falange di collaboratori esterni?

Sono spuntati una marea di doppioni, con un danno erariale da oltre 3 milioni Nella lista nera lo studio da 100 mila euro sulla spiritualità femminile, 50 mila per la navigazione interna, 40 mila per monitorare le televendite e un corso per fuoristrada da 80 mila. Il governatore Claudio Martini si è detto fiducioso nei risultati finali. E l'inchiesta erariale ha subito sortito effetti miracolosi. La spesa per consulenti in un anno si è dimezzata, passando da 16,6 milioni del 2004 a 8. Segno di quanto inutili fossero quegli incarichi.

I controlli si sono poi estesi al Comune. A Palazzo Vecchio il blitz dei finanzieri potrebbe far ipotizzare 2 milioni di parcelle inutili: sono al vaglio le posizioni di 29 funzionari. Il caso più importante è l'incarico da 600 mila euro per progettare il nuovo palazzo di giustizia, assegnato senza appalto. Ci sono poi 12 mila euro per un piano di comunicazione: secondo gli inquirenti negli uffici c'erano 19 persone che potevano occuparsene. Ma tra Regione e Provincia fa capolino anche il vizio del contentino agli ex. Un'indagine penale è stata aperta sul funzionario che ha ingaggiato il coordinatore cittadino dei ds. E da anni si discute per la consulenza ad Antonio Bargone, ex sottosegretario di punta del governo D'Alema.

 

 


La Casta: l'inchiesta dell'espresso sui costi della politica - di Alessandro De Feo

Fare il ragioniere alla Camera è affare certamente impegnativo. E non a caso ci vuole una laurea triennale per accedere al rango. Dal’alto di questa mansione si istruiscono le pratiche per i rimborsi elettorali dei partiti, si preparano le buste paga dei parlamentari, si cura l¹amministrazione di Montecitorio. Giusto che si riceva uno stipendio adeguato alle responsabilità del mestiere. Ma fare il presidente della Repubblica, ça va sans dire, è certamente compito più delicato e importante per le sorti del Paese. E il trattamento economico, soprattutto in tempi nei quali si predica tanto la meritocrazia, dovrebbe tenerne conto. Cosa dicono invece le buste paga degli interessati? Che con i suoi 237 mila 560 euro lordi annui (rivalutati ogni 12 mesi) maturati dopo 35 anni di servizio, il ragioniere di Montecitorio guadagna quasi 20 mila euro in più del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il cui appannaggio, congelato ai valore del 1999 per le difficoltà dei conti pubblici, è fermo a 218 mila euro lordi l¹anno. E come non restare ammirati di fronte agli stenografi del Senato? Sono 60 in tutto e compilano i resoconti dei lavori dell¹aula e delle varie commissioni. Svolgono un lavoro ormai in estinzione per via delle nuove tecnologie, ma all’apice della carriera arrivano a guadagnare 253 mila 700 euro lordi l’anno. Molto di più non solo del presidente Napolitano, ma anche del capo del governo Romano Prodi che, tra indennità parlamentare (145 mila 626 euro), stipendio da premier (54 mila 710) e indennità di funzione (11 mila 622), arriva a 212 mila euro lordil¹anno. E di ministri titolati come Massimo D’Alema (Esteri), che riscuote 189 mila 847 euro, e Tommaso Padoa-Schioppa (Economia), che ogni anno incassa 203 mila 394 euro lordi (è la paga dei ministri non parlamentari). Tutti abbondantemente distanziati dallo stenografo e
dal ragioniere e addirittura umiliati al cospetto dei compensi dei segretari generali di Senato e Camera, Antonio Malaschini e Ugo Zampetti, che a fine anno arriveranno a incassare rispettivamente 485 mila e 483 mila euro lordi.
Ecco le sorprese che spuntano esaminando i dati sul trattamento economico dei dipendenti di Camera e Senato. E non sono le sole: barbieri (‘operatori tecnici’) che possono arrivare a guadagnare oltre 133 mila euro lordi l’anno a fronte dei circa 98 mila di un magistrato d’appello con 13 anni di anzianità. E collaboratori tecnici operai che dall’alto dei loro 152 mila euro se la ridono dei professori universitari ordinari a tempo pieno inchiodati, dopo vari anni di carriera, a circa 80 mila euro lordi l¹anno. Retribuzioni da favola, insomma, che non hanno uguali nell’universo del pubblico impiego e che si accompagnano a trattamenti pensionistici di assoluto favore perfettamente allineati, in tema di privilegi, ai criticatissimi vitalizi di deputati e senatori. Ma quanti sono questi fortunati dipendenti parlamentari? Quanto guadagnano esattamente? E attraverso quali meccanismi riescono ad ottenere trattamenti economici così favorevoli?

Stipendi d’oro  I dipendenti di Camera e Senato (vengono assunti solo per concorso) sono in tutto 2.908, di cui 1.850 a Montecitorio e 1.058 a Palazzo Madama. I primi (dati dei bilanci 2006) costano complessivamente circa 370 milioni di euro, i secondi 198; molto di più di deputati (287) e senatori (133 milioni). Per ambedue i rami del Parlamento le voci che pesano di più nei capitoli di spesa per ilpersonale sono gli stipendi e le pensioni. Per quanto riguarda le retribuzioni, la Camera sborsa ogni anno 210 milioni di euro a fronte dei 130 milioni del Senato. I costi delle pensioni assorbono invece 158 milioni nel bilancio di Montecitorio e 70 milioni a Palazzo Madama. La prima cosa che salta agli occhi, sia alla Camera che al Senato, sono le singolari regole di calcolo di stipendi e pensioni, regole tanto sorprendenti da trasformare i due palazzi in autentiche isole del privilegio. A fissarle, godendo le due strutture dell¹autonomia amministrativa garantita agli organi costituzionali, sono stati in passato i due uffici di presidenza di Camera e Senato, composti dai rispettivi presidenti (i predecessori di Fausto Bertinotti e Franco Marini), i loro vice e tre parlamentari-questori. 

Per quanto riguarda Montecitorio, i dipendenti sono distribuiti in sei categorie retributive. Da cosa sono costitute esattamente le retribuzioni? Dallo stipendio tabellare (paga base); dalla indennità integrativa speciale (la vecchia contingenza, bloccata al 1996) e da altre voci come gli assegni di anzianità che vengono elargiti nella misura del 10 per cento della paga tabellare al diciassettesimo e al ventitreesimo anno di servizio. Tutte voci che, insieme a una strana «indennità pensionabile, pari al 2,5 per cento delle competenze lorde annue dell’anno precedente», contribuiscono a dare uno straordinario slancio agli stipendi.
Che hanno altre caratteristiche singolari: sono onnicomprensivi (sommano straordinari e lavoro notturno) e vengono pagati per 15 mensilità. Con un riconoscimento aggiuntivo per alcuni incarichi: al segretario generale e ai suoi vice, ai capi ufficio e a tutti coloro che hanno responsabilità di coordinamento, spetta anche un’indennità di funzione che varia dagli oltre 46 mila euro lordi l¹’anno (pari a un netto di 2.206 al mese per 12 mensilità) spettanti al segretario generale Zampetti, ai 7.300 (346 euro netti al mese) assegnati al vice assistente superiore. Di assoluto favore anche le norme che regolano la progressione retributiva all¹interno di ciascun fascia, scandita da scatti biennali che variano tra il 2,5 e il 5 per cento. Ma soprattutto dai balzi economici connessi ai passaggi di livello, riconosciuti dopo il superamento di periodiche verifiche di professionalità.
Per quanto riguarda le fasce retributive della Camera, la prima è costituita dagli operatori tecnici. Ne fanno parte gli addetti alle officine, gli operai, i barbieri, gli autisti e gli inservienti della buvette. Costoro entrano nei ruoli con uno stipendio lordo annuo iniziale di 32 mila 483 euro per arrivare a riscuotere, con 35 anni di servizio, la bellezza di 133 mila 375 euro (pari a 8.675 euro lordi al mese). Davvero ragguardevole se si considera che le loro mansioni sono esclusivamente manuali.

Nella seconda categoria sono inquadrati invece gli assistenti, i famosi commessi in divisa e gli addetti alla vigilanza, che iniziano con una paga annuale di 36 mila 876 euro e concludono la carriera con lo stesso stipendio degli operatori tecnici. Il terzo gradino retributivo è rappresentato dai collaboratori tecnici, il gotha del proletariato parlamentare: vi sono compresi gli ex operai che hanno spuntato una qualifica superiore per il fatto di svolgere mansioni più complesse, come quelle relative «alla gestione degli impianti di riscaldamento e condizionamento» del Palazzo: questa aristocrazia operaia inizia con uno stipendio lordo annuo di 32 mila 753 euro e corona la carriera con 152 mila 790 euro (al mese, 9.937 euro lordi).

Più su nella scala ci sono i segretari che supportano il lavoro dei funzionari negli uffici e nelle commissioni: ricevono un compenso di oltre 37 mila euro l¹anno all’ingresso e se ne vanno dopo 35 anni con oltre 156 mila euro lordi (10.164 euro mensili). Un tetto retributivo d¹eccellenza, ma pur sempre modesto se si guarda a quello che avviene nei piani alti della nomenklatura di Montecitorio.

Spulciando il trattamento della fascia superiore, cioè dei dipendenti del cosidetto IV livello, quello dei documentaristi, tecnici e ragionieri (le loro mansioni prevedono«l’istruttoria di elaborati documentali e contabili e attività di ricerca»), ci si imbatte in un balzo prodigioso delle retribuzioni: entrano alla Camera con una paga di 41 mila 432 euro l’anno per andarsene, dopo 35 anni, con 237 mila 560 euro (15.451 euro mensili lordi). Che sono tanti, ma che impallidiscono a fronte dei compensi dei consiglieri parlamentari, il gradino più alto dell’ordinamento del personale di Montecitorio. Sono tutti laureati, svolgono funzioni di organizzazione e direzione amministrativa, oltre che di supporto giuridico-legale agli organi della Camera e ai suoi componenti. Vero che sono sottoposti a due verifiche di professionalità dopo tre e nove anni di servizio (devono tra l’altro «predisporre un eleborato relativo a temi attinenti all’esperienza professionale maturata»), ma i loro stipendi sono di assoluto riguardo: iniziano con una retribuzione annuale di oltre 68 mila euro lordi per toccare, con il massimo dell¹anzianità, 356 mila 788 euro, pari a 23.206 euro lordi al mese.
E al Senato? Qui si trattano ancora meglio. Nessuno riesce a spiegarne il motivo, ma le paghe di Palazzo Madama, per funzioni più o meno analoghe a quelle del personale della Camera, sono da sempre più alte. Pressoché identiche le voci della retribuzione (stipendio tabellare, indennità integrativa speciale, eccetera), unica differenza è lo sviluppo su 36 anni della carriera invece che sui 35 di Montecitorio. Dopodiché è il solito assalto al cielo delle retribuzioni: gli assistenti parlamentari (svolgono mansioni di vigilanza, tecniche e manuali) arrivano a riscuotere oltre 141 mila euro lordi l¹anno (pari a 5.222 euro netti mensili); i coadiutori (mansioni di segreteria e archivistica) 170 mila, per uno stipendio netto di 6.194 euro; i segretari parlamentari (istruiscono «eleaborati documentali, tecnici e contabilili che richiedono attività di ricerca e progettazione») superano i 227 mila (8.120 euro netti mensili); gli stenografi (resocontano le sedute e le riunioni degli organi del Senato) saltano a quasi 254 mila (al mese, 9.018 euro netti); mentre i consiglieri possono arrivare a riscuotere a fine carriera la stratosferica cifra di 368 mila euro lordi l’anno (per un mensile netto di 12.871), oltre 12 mila euro in più dei loro pari grado della Camera.
I baby nababbi A retribuzioni tanto ricche non potevano non corrispondere trattamenti pensionistici altrettanto privilegiati. Ma quale riforma Dini, ma quale scalone di Maroni, ma quale innalzamento
a 58 anni dell¹età pensionabile come predica Prodi. I dipendenti di Camera e Senato non hanno mai temuto tagli per i loro trattamenti. A Montecitorio e Palazzo Madama continuano a prosperare le pensioni-baby soppresse per tutti gli altri dipendenti pubblici: si lascia il lavoro anche a 50 anni e con modalità di calcolo dell’assegno straordinariamente vantaggiose.
Cominciamo dalla Camera. Qui, per la pensione di vecchiaia, a partire dal 2000 l’età necessaria è stata progressivamente elevata a 65 anni allineandola a quella richiesta a tutti gli altri lavoratori. Per quanto riguarda invece le pensioni di anzianità dei dipendenti in servizio fino al gennaio 2001 (per quelli arrivati dopo si sta discutendo un diverso inquadramento), la situazione si fa più favorevole: è vero che si richiedono 35 anni di contribuzione e 57 anni di età come per gli altri lavoratori dipendenti, ma aggrappandosi alle pieghe del regolamento si può andare a riposo ben prima (dal 1992 a oggi l¹età media di pensionamento per anzianità è di 52,9). Avendo prestato almeno 20 anni di servizio effettivo (il cosidetto scalpettìo), basta pagare una modesta penalizzazione pari al 2 per cento (il cosidetto décalage) per ogni anno mancante ai 57 e il gioco è fatto. Tenendo conto che nel calcolo della contribuzione vanno considerati anche i riscatti universitari, quelli per il servizio militare e soprattutto i due bienni contributivi generosamente concessi ai dipendenti in occasione dell¹anniversario dell’Unità d’Italia e della presa di Porta Pia (dichiarati validi l’ultima volta nel ¹92 per i dipendenti in servizio dall’allora presidente della Camera Nilde Iotti) ecco che è possibile riscuotere la pensione anche a 50 anni . E con criteri di conteggio di sfacciato favore.
Al posto del sistema contributivo (pensione commisurata ai contributi effettivamente versati) introdotto a partire dal 1995 per il resto dell¹universo lavorativo, alla Camera vige ancora un sistema rigorosamente retributivo: pensione commisurata all¹ultimo stipendio riscosso. In quale percentuale? Sicuramente il 90 per cento delle competenze tabellari (gli altri lavoratori pubblici si devono accontentare di circa l¹80 per cento). Con una ulteriore, graziosa concessione: la cosidetta clausola d¹oro che, sebbene eliminata per i miglioramenti relativi allo stato giuridico del personale in carica, aggancia ancora le pensioni degli ex dipendenti agli altri adeguamenti spettanti ai pari grado in servizio.
Ancora più generoso il trattamento di quiescienza riservato ai dipendenti del Senato. A costoro, per andare in pensione, basta raggiungere un parametro denominato quota 109, dietro il quale non si nascondono certo difficoltose asperità, ma piuttosto facilitazioni tanto comode quanto ingiustificate. Cos¹è esattamente questa quota?
La somma dell¹età anagrafica, degli anni di servizio effettivamente svolto, dell’anzianità contributiva che, anche a Palazzo Madama, comprende gli anni riscattati per la laurea, il servizio militare e due bienni figurativi elargiti in passato da vari presidenti del Senato. È proprio applicando questi criteri che qualsiasi dipendente di 53 anni (l¹età minima fissata) può chiedere e ottenere l¹agognata pensione. Per scalare la fatidica quota 109 gli è sufficente sommare al requisito dell’età 25 anni di servizio effettivo e 31 di contribuzione, facilmente raggiungibili grazie ai riscatti e ai bienni figurativi (non a caso a Palazzo Madama l’età media dei pensionati per anzianità dal ‘92 a oggi è di 54,8). Ma non è finita:  utilizzando la contribuzione figurativa (tra riscatti e bienni, nove anni in tutto), quello stesso dipendente può ottenere la pensione anche a 50 anni con una irrisoria penalizzazione: l¹1,5 per cento di riduzione del trattamento complessivo per ognuno dei tre anni mancanti ai 53. Ma nessuna paura: la riduzione non si applica nel caso in cui si possa contare su una anzianità superiore ai 35 anni.
Con la solita, importante garanzia per il futuro: la sicurezza di non vedere mai svalutato l’agognato assegno come il resto dei lavoratori dipendenti. Anche al Senato infatti la clausola d¹oro manifesta ancora i suoi magici effetti e, nonostante alcune limitazioni introdotte negli ultimi anni, adegua automaticamente le pensioni agli stipendi dei parigrado in servizio.


L'onorevole? E' fuori stanza - La Stampa, di Ugo Magri

La pentola è stata scoperchiata, come spesso accade, dai Radicali per nobili motivi e (va detto) anche per consumare una piccola vendetta. Anzitutto volevano puntare i riflettori sul grande tema del rapporto tra elettori ed eletti, denunciando la difficoltà di conoscere cosa combinano i nostri onorevoli, una volta accasati in Parlamento. Una questione alta di trasparenza, insomma. E poi, en passant, intendevano dimostrare che la perdita di Daniele Capezzone, entrato in rotta con Marco Pannella, non è poi così grave dal momento che l’ex segretario del partito in aula si vede solo ogni tanto. Così nei giorni scorsi si sono fatti consegnare dagli uffici di Montecitorio i tabulati sulle presenze e assenze al momento del voto, una trentina di fogli che un comune mortale cercherebbe inutilmente sul sito istituzionale www.camera.it. Spulciandoli, ne viene fuori uno spaccato di qualche interesse.Intanto le buone notizie. C’è chi, tra i rappresentanti del popolo, sgobba come un matto. Autentici stakanovisti. Gente avvitata al proprio scranno, che non si distrae nemmeno per fare pipì, che sulle 3116 votazioni elettroniche effettuate dal 28 aprile 2006 al 7 giugno 2007 (è il periodo preso in esame) sono arrivati a sfiorare il 100 per cento delle presenze. Da Guinness la performance di Massimo Zunino, diessino di Savona, già recordman delle votazioni nella XIV legislatura, il quale ha pigiato il tasto ben 3115 volte. Guarda un po’, nella speciale classifica tutti i primi dieci appartengono all’Ulivo. Per scovare finalmente un forzista occorre calare intorno al ventesimo posto (Gaetano Fasolino, con un pur ragguardevole 98,23 per cento di centri). E’ la prova di una diversità antropologica, una sinistra disciplinata e compatta contro una destra pasticciona e assenteista? Può darsi. Certo il Cavaliere non se ne può lamentare, in quanto è da lui per primo che viene il cattivo esempio. Certo, Berlusconi è Berlusconi. Oltre alla politica ha il Milan, le tivù, le ville, le canzoni napoletane e tanto ancora. Però le sue incursioni alla Camera sono così rare da costituire un evento: ha votato in un anno 70 volte, faccenda che si sbriga in tre sedute. Peggio di lui hanno fatto solo Paolo Cirino Pomicino e Cesare Previti: il primo perché malato (ha subito un trapianto di cuore) il secondo in quanto detenuto. Qualche maligno sostiene che il Cav. snobba le votazioni potendosi permettere di rinunciare alla diaria mensile da 4.190 euro, accordata oltre all’indennità di 7 mila euro a quanti non risultano mai assenti (ogni forfait sono 200 euro in meno). Ma la ragione per cui Berlusconi si tiene al largo dalla Camera è molto più seria. E affonda le sue radici nell’ultima riforma elettorale.Il cosiddetto «Porcellum» attribuisce a chi vince un premio su base nazionale. Non a Palazzo Madama (dove difatti se la combattono sul filo di pochi voti e i senatori sono stressatissimi) ma alla Camera. Qui, grazie ai contestatissimi 24 mila voti in più delle ultime elezioni, Romano Prodi può usufruire di un margine garantito, 71 voti che rendono praticamente impossibili i ribaltoni. Provarci, da parte dell’opposizione, sarebbe perfettamente inutile: alla maggioranza è sufficiente tenere un «piantone» in aula per sventare ogni possibile agguato. Ne discende un’organizzazione del lavoro dove ad alcuni tocca fare la guardia al bidone. Mentre quelli che possono, cioè i grandi capi e gli aspiranti tali, con una giustificazione o con l’altra si sottraggono alla frustrazione dell’atto di presenza.Ministri, vice-ministri e sottosegretari hanno una scusa eccellente: gli affari di governo. Senza ipocrisie Giuliano Amato, ministro dell’Interno, ha votato 18 volte su 3116, fiducia compresa. Il premier, 115. D’Alema, giramondo in quanto capo della diplomazia, 138. L’unico ministro che di tanto in tanto si incontra alla Camera è Vannino Chiti (16,46 votazioni su cento), ma lui è titolare dei Rapporti col Parlamento. Anche per i massimi leader si tende a fare eccezione, in passato non è che i Moro, i Berlinguer, i Nenni fossero sempre lì a votare. Piero Fassino, anche per rispetto della tradizione, è risultato assente nel 91 per cento dei casi. Ora, tutto si può dire a Fassino tranne che sia un lavativo. Così come si offenderebbe Claudio Scajola se gli rimproverassero l’assenza dall’aula (in 98 votazioni su cento): lui è presidente del Comitato di controllo sui servizi segreti, di questi tempi un vero tormento. Lo stesso Capezzone, uno che letteralmente vive di politica, presiede la Commissione Attività produttive. Insomma, fanno dell’altro: riunioni, incontri, conferenze spesso autorizzate. Dunque, prima di bollarli come «imboscati» occorre controllare se fossero in missione o meno. Nel caso di Capezzone, è accaduto 4 volte su 10. In quello di Giulio Tremonti, vicepresidente della Camera e figura di spicco dell’opposizione, 7 su dieci. Qualcuno esagera. Il comunista italiano Severino Galante risulta ufficialmente in missione ben 93,7 volte ogni cento votazioni. Il che lo rende (paradosso del Regolamento) uno dei deputati più presenti in assoluto. Laddove un plotoncino di deputati del gruppo misto tranquillamente «bigia» le votazioni una volta su due, tanto nessuno dice nulla.Per i radicali Sergio D’Elia e Maurizio Turco, attivissimi sull’argomento, è materia da riformare in profondità. Hanno già bussato alla porta di Bertinotti (assai sensibile) perché si rendano pubbliche le informazioni sull’attività di ogni deputato. Come avviene nei paesi di più antica tradizione democratica, ogni cittadino elettore deve poter cliccare sul sito della Camera e sapere come si comporta il proprio rappresentante. Senza doversi rivolgere a «Chi l’ha visto».
 

 

 

 


Sconti alla Chiesa sull'Ici la Ue ora processa l'Italia

 

Dario Fo e Franca Rame, Il Papa e la strega

di CURZIO MALTESE

Sarà aperta una pratica d'infrazione per violazione delle norme sulla concorrenza
Sotto tiro negozi e alberghi "collegati" a luoghi sacri

C'è chi  in Italia è abituato a ottenere privilegi da qualsiasi governo e autorizzato a non pagare il fisco, ma sul quale nessuno osa moraleggiare. Pena l'accusa di anticlericalismo. L'anomalo rapporto fra Stato italiano e clero è invece finito da tempo sul tavolo dell'Unione europea, che si prepara a mettere sotto processo il nostro Paese per i vantaggi fiscali concessi alla Chiesa cattolica, contrari alle norme comunitarie sulla concorrenza. Oltre che alla Costituzione, meno di moda. Al centro del caso è l'esenzione del pagamento dell'Ici per le attività commerciali della Chiesa. La storia è vecchia ed è tipicamente italiana.

Varato nel '92, bocciato da una sentenza della Consulta nel 2004, resuscitato da un miracolo di Berlusconi con decreto del 2005, quindi decaduto e ancora recuperato dalla Finanziaria 2006 come omaggio elettorale, il regalo dell'Ici alla Chiesa è stato in teoria abolito dai decreti Bersani dell'anno scorso.
Molto in teoria, però. Di fatto gli enti ecclesiastici (e le onlus) continuano a non pagare l'Ici sugli immobili commerciali, grazie a un gesuitico cavillo introdotto nel decreto governativo e votato da una larghissima maggioranza, contro la resistenza laica di un drappello di mazziniani radicali guidati dall'onorevole Maurizio Turco.

I resistenti laici avevano proposto di limitare l'esenzione dell'Ici ai soli luoghi senza fini commerciali come chiese, santuari, sedi di diocesi e parrocchie, biblioteche e centri di accoglienza. Il cavillo bipartisan ha invece esteso il privilegio a tutte le attività "non esclusivamente commerciali".

Basta insomma trovare una cappella votiva nei paraggi di un cinema, un centro vacanze, un negozio, un ristorante, un albergo, e l'Ici non si paga più. In questo modo la Chiesa cattolica versa soltanto il 5 o 10 per cento del dovuto allo Stato italiano con una perdita per l'erario di almeno 400 milioni di euro ogni anno, senza contare gli arretrati.

Il trucco o se vogliamo la furbata degli italiani non è piaciuta a Bruxelles, da dove è partita una nuova richiesta di spiegazioni al governo. Il ministero dell'Economia ha rassicurato l'Ue circa l'inequivocabilità delle norme approvate, ma subito dopo ha varato una commissione interna di studio per chiarirsi le idee.

L'affannosa contraddizione è stata segnalata all'autorità europea dall'avvocato Alessandro Nucara, esperto in diritto comunitario, e dal commercialista Carlo Pontesilli, due professionisti di simpatie radicali che affiancano e assistono il drappello dell'orgoglio laico.

A questo punto la commissione per la concorrenza europea avrebbe deciso di riesumare la pratica d'infrazione già aperta ai tempi del governo Berlusconi e poi archiviata dopo l'approvazione dei decreti Bersani. In più, la commissione ha chiesto al governo Prodi di fornire un quadro generale dei favori fiscali che l'Italia concede alla Chiesa cattolica, oltre all'esenzione Ici.

Che cosa potrà succedere ora? Un'infrazione in più o in meno probabilmente non cambia molto. L'Italia dei monopoli, dei privilegi e delle caste è già buona ultima in Europa per l'applicazione delle norme sulla concorrenza e naviga in un gruppo di nazioni africane per quanto riguarda la trasparenza fiscale. Quale che sia la decisione dell'Ue, i governi italiani, di destra e di sinistra, troveranno sempre modi di garantire un paradiso fiscale assai poco mistico alla Chiesa cattolica all'interno dei nostri confini. Magari tagliando ancora sulla ricerca e sulla scuola pubblica.

E' triste constatare però che senza le pressioni di Bruxelles e la lotta di una minoranza laicista indigena, l'opinione pubblica non avrebbe neppure saputo che gli enti religiosi continuano a non pagare l'Ici almeno al 90 per cento. Nonostante l'Europa, la Costituzione, le mille promesse di un ceto politico senza neppure il coraggio di difendere le proprie scelte.

Nonostante le solenni dichiarazioni di Benedetto XVI e dei vescovi all'epoca dei decreti Bersani: "Non ci interessano i privilegi fiscali".
Nonostante infine siano passati duecento anni da Thomas Jefferson ("nessuno può essere costretto a partecipare o a contribuire pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso") e duemila dalla definitiva sentenza del Vangelo: "Date a Cesare quel che è di Cesare".

(25 giugno 2007)
 


La leggina che non cancella i portaborse abusivi

di Gian Antonio Stella, Corriere della Sera, 05 luglio 2007

il testo in discussione al Senato. Fondi ai parlamentari senza l’obbligo di assumere i collaboratori. E si scopre che potevano essere messi in regola 20 anni fa 

 Nuove norme: ma non cambierà nulla per gli assistenti

 

 

 

   Ricordate la leggina che doveva esser fatta per togliere dall'illegalità tutti i «portaborse » che lavorano alla Camera e al Senato in nero? A Palazzo Madama è quasi pronta. Peccato manchi un dettaglio: il parlamentare non è obbligato affatto ad assumere i collaboratori pena la perdita in busta paga degli oltre 4mila euro mensili a loro destinati. Se vuol metterli in regola, bene. Sennò, in attesa di un regolamento (campa cavallo...) si terrà i soldi lo stesso.

 Del resto, a Montecitorio sono così convinti che alla fine «il polverone si placherà » che, nonostante lo scandalo e gli ultimatum, i deputati usciti dal sommerso sono stati uno su cinque.

 Che la materia fosse spinosa si sapeva. Basti ricordare che, dopo l’esplosione del caso dovuta a un servizio delle «Iene », anche i politici più loquaci persero di colpo la voce. Non un commento nelle agenzie Ansa di Paolo Cento, non uno di Enrico La Loggia né di Francesco Storace o Alfonso Pecoraro Scanio. Perfino Paolo Ferrero, che si è esibito su tutto (dall’abolizione delle sanzioni amministrative per chi si droga all’inserimento degli immigrati islamici, da Emergency in Afghanistan ai tafferugli a Chinatown, dal tesoretto al bus guidato da un autista che si era fatto uno spinello), preferì il ruolo del pesce in barile: «Evito di dare giudizi per problemi di ruolo».

 Eppure ai primi dimarzo era già tutto chiaro. In un Paese come il nostro, in cui chi è beccato con un dipendente irregolare va incontro a lunghi tormentoni giudiziari, dei 683 collaboratori segnalati dai 630 deputati alla presidenza della Camera perché avessero accesso ai palazzi del Parlamento, quelli in regola erano 54. Cioè l’8 per cento.

 E tutti gli altri? Chi raccontò alla «iena » Filippo Roma di prendere 700 euro al mese, chi 800... Chi spiegò che lavorava da dieci anni come «portaborse» senza aver mai avuto «il versamento di un solo contributo». Chi ricordò che tutti gli irregolari tiravano avanti «senza contratto, senza previdenza, senza maternità...». La deputata margheritina Cinzia Dato, dopo avere spiritosamente cinguettato che lei il suo collaboratore lo pagava «riccamente », si impappinò sempre più imbarazzata: «Che contratto? Quanti soldi? Non so... Chieda a lui...».

 Il forzista Gaetano Fasolino disse che al suo versava «un contributo di 1.500 euro al mese». Regolarizzato? «Non regolarizzato ». «Cioè in nero?». «Non in nero, cioè, insomma...». Carlo Ciccioli, di An, spiegò infine romanescamente che l’andazzo («semo in Itaja») era quello: «La politica ha dei grossi costi, ognuno s’arangia».

 Finché Fausto Bertinotti, sotto l’occhio impietoso della telecamera, cadde dalle nuvole: «Non sapevo ». Disse che non se n’era mai accorto perché «quelli che ho conosciuto io erano qui in forma regolare» e ribadì che lui conosceva «molte persone che prestano il loro lavoro a titolo gratuito » ma certo, siccome c’era «una grave slealtà», adesso si sarebbe dovuto mettere un freno alla cosa. Quanto a Franco Marini, lui pure scomodato come ex sindacalista con l’aggravante di essere presidente di quell’aula in cui da mesi il senatore aennino Antonio Paravia denunciava la vergogna dei portaborse «sommersi», disse che lui «immaginava, non sapeva». E che il problema consisteva nel fatto che «non c’è una normativa» per regolare questo tipo di contratti e quindi ci voleva «una leggina, altrimenti questa situazione non si risolve».

 

 

  Quattro mesi dopo, la situazione è quella che abbiamo detto. Alla Camera, dopo una serie di rinvii (il 13 maggio si erano messi in regola depositando i contratti dei propri collaboratori solo 105 deputati: uno su sei) è scaduta lunedì anche l’ultima proroga concessa ai colleghi riottosi dai questori, tra i quali l’ulivista Gabriele Albonetti pare intenzionato ad andare fino in fondo: d’ora in avanti potrà entrare solo chi è in regola. E al Senato la commissione Lavoro, presieduta da Tiziano Treu, sta varando la famosa invocata «leggina». Dovrebbe passare, dicono, all’unanimità. Il prezzo pagato a questa unanimità, però, è alto. Tra le affermazioni di principio e le volonterose definizioni di come dovrà essere il contratto («si applica la disciplina privatistica in materia di rapporto di lavoro subordinato, di collaborazione coordinata e continuativa o di lavoro autonomo»), manca infatti il nodo: chi non assumerà regolarmente alcun collaboratore continuerà lo stesso ad avere in busta paga i soldi (4.678 euro al Senato e 4.190 alla Camera ) per i portaborse? Sì. Per ora. «Non si è ritenuto di inserire questo punto nella legge», spiega Treu, «sarà sufficiente precisarlo nel successivo regolamento».

 In arrivo quando? Boh... I precedenti, in questi casi, lasciano scettici. Così come è difficile passi la proposta alternativa di Franca Rame. La quale, pur prevedendo la rottura del contratto per giusta causa anche nel caso venga meno il rapporto di fiducia (un senatore post-fascista non può ritrovarsi un collaboratore comunista o viceversa, ovvio) mette dei paletti assai più rigidi. Invisi a chi è ormai insofferente alle regole stabilite per quanti non appartengono al Palazzo.

 L’aspetto più sconcertante della leggina, che così com’è rischia di lasciare tutto come prima in attesa che la gente si distragga e non ci pensi più, è in un dettaglio. Dove si scrive che quelle famose norme indispensabili per inquadrare i collaboratori, la cui assenza ostacolava il corretto agire dei bravi parlamentari, ci sono già. Testuale: «Già il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale del 16 marzo 1987, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero 89 del 16 aprile 1987, ha dato le opportune specificazioni » al punto che l’Inps adottò «un apposito codice contributivo, che rende possibile per i parlamentari instaurare un rapporto di lavoro subordinato con il proprio collaboratore».

 Venti anni sono passati, da quando fu deciso come evitare i portaborse «in nero ». Venti anni. Con tutto il rispetto per Treu e la sua commissione: per l’aut aut «o il contratto o niente soldi per i collaboratori » dovremmo fidarci di un «regolamento » successivo? Ma dai..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


disegno di legge per una Riforma del trattamento previdenziale dei Senatori - d'iniziativa dei Senn. Lusi e Bobba

Ecco un interessante disegno di legge che propone dei tagli consistenti ai privilegi dei parlamentari: prolungamento del periodo necessario alla maturazione del diritto alla pensione, e diminuzione delle cifre del vitalizio.

Leggete voi stessi!

 

 

 

 Riforma del trattamento previdenziale dei Senatori

  Premessa

             In virtù dell'articolo 69 della Costituzione ("i membri del Parlamento ricevono un'indennità stabilita dalla legge") si può ritenere che nella specifica materia indennitaria e nelle corrispondenti disposizioni di natura previdenziale, applicabili ai parlamentari, non dovrebbe invocarsi il più generale principio dell'autonomia riconosciuta alle Camere. Nella prassi normativa il principio ha trovato applicazione nella legge n. 1261 del 1965, i cui articoli 1 e 2 correttamente determinano i limiti massimi ai quali si riferisce l'intera disciplina. Secondo la costante e ormai pacifica interpretazione, del resto, fatti salvi i predetti limiti ivi stabiliti, le concrete modalità applicative del trattamento attribuito ai parlamentari sono rimesse alla piena autonomia degli Uffici di Presidenza eletti dai due rami del Parlamento.

 Nell'ambito applicativo di tale principio di autonomia viene, in ogni caso, garantita parità di trattamento indennitario ai parlamentari in carica, indipendentemente dalla sede di effettivo svolgimento del mandato, e trattamento previdenziale uguale a quelli cessati dal mandato.

 

 

 

Ciò premesso, si ritiene opportuno introdurre nel vigente sistema articolate proposte, essenzialmente volte a riformare il trattamento previdenziale dei parlamentari, che gli Uffici di Presidenza del Senato e della Camera dei Deputati potranno tenere nel debito conto, in un quadro di riforma organica e doverosamente coordinata tra i due rami del Parlamento.

  

 

1. Misure volte al riequilibrio dei conti pubblici

               Considerato l'indirizzo dell'ordinamento generale in materia di trattamento previdenziale, viene adottato anche per i senatori cessati dal mandato il sistema "contributivo", prevedendo due distinte situazioni.

  L'attuale sistema, per così dire "retributivo", comprensivo dei limiti anagrafici al conseguimento del diritto al trattamento, continua ad applicarsi ai senatori eletti fino alla XV legislatura;

  •  

  • il sistema "contributivo" si applica ai senatori eletti a partire dalla XVI legislatura. 

     

 

 

 

A partire dalla data di entrata in vigore della riforma la maturazione del diritto al trattamento previdenziale si consegue al compimento del 65° anno di età.

 Considerata la peculiarità del "servizio" parlamentare e, conseguentemente, la specificità insita nel trattamento previdenziale, ai parlamentari in carica viene aumentata l'aliquota contributiva, in misura tale che essa risulti superiore di almeno il 25 per cento rispetto a quella versata dai dipendenti del settore pubblico.

 Ai senatori cessati dal mandato che continuano a beneficiare del sistema "retributivo" viene imposto un contributo di "solidarietà" del 4 per cento, per la quota eccedente i 50.000 euro lordi annui, quale partecipazione alla riduzione dei corrispondenti oneri di bilancio, nonché concrete modalità di "sterilizzazione" dell'adeguamento annuale, riconducendolo sostanzialmente all'indice ISTAT.

 Viene abolita la generale facoltà di costituire, ai fini previdenziali, periodi "figurativi",  anche tramite il riscatto oneroso dei periodi di mandati non completati per i più svariati motivi.

 La facoltà di "riscatto" può essere fatta valere esclusivamente nel caso in cui l'ex parlamentare intenda completare un'unica legislatura - limite minimo per maturare il diritto al trattamento previdenziale a 65 anni - e soltanto in presenza di attività parlamentare esercitata per un periodo non inferiore a 30 mesi.

 2. Natura previdenziale e non assicurativa del trattamento

 E' necessario, in primo luogo, abbandonare la nozione di "rendita assicurativa", conforme alle deliberazioni adottate nel 1993 dagli Uffici di Presidenza delle due Camere, attribuendo anche formalmente piena natura previdenziale al trattamento vitalizio. Ciò comporta:

 a) la necessità di abrogare le deliberazioni appena richiamate;

 

 

 

 

 

 

 

b) la particolare opportunità che il trattamento vitalizio sia sostanzialmente e formalmente riconducibile a un "trattamento previdenziale", sia pure dai connotati speciali, deducibili dall'esigenza prioritaria di assicurare funzionalmente a tutti i cittadini il pieno esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti;

 c) l'esigenza che il trattamento previdenziale abbia un più marcato ancoraggio ai redditi da lavoro dipendente e non venga classificato come reddito assimilato; non sia più soggetto, pertanto, all'imposizione dell'IRAP. Ciò, tra l'altro, consente al bilancio interno del Senato un risparmio pari a circa l'8,5 per cento del lordo imponibile di competenza degli ex parlamentari;

 

d) la perdita del beneficio consistente nella quota esente da imposizione (ex art. 52, comma 1, lettera b), del TUIR), per l'anno corrente pari all'8,75 del lordo spettante come trattamento vitalizio. La conseguente reformatio in peius, suscettibile di essere impugnata in quanto incidente su diritti acquisiti, potrebbe essere superata con un incremento temporaneo del vitalizio lordo spettante all'ex senatore, nella misura idonea a far recuperare la perdita del beneficio fiscale a fronte, peraltro, del minor costo a bilancio derivante dalla eliminazione dell'IRAP: al riguardo, infatti, va segnalato che la quota dell'8,75 per cento, in ragione del vigente meccanismo normativo, si riduce progressivamente nel tempo (nell'anno scorso circa l'1,3 per cento).

             3. Passaggio al sistema contributivo

 Conformemente all'indirizzo dell'ordinamento generale, il nuovo sistema contributivo si configura come un mero meccanismo di calcolo della prestazione e non come un sistema di finanziamento della prestazione previdenziale che, dunque, continuerebbe ad essere posta a carico del bilancio interno del Senato.

 

 

Ove, pertanto, il Senato continuasse ad erogare i trattamenti previdenziali con le modalità appena accenate, nell'immediato si dovrebbero registrare sicuri benefici finanziari al proprio bilancio. Questi sarebbero determinati dall'aumento complessivo della contribuzione a carico dei senatori, con una curva della spesa che crescerebbe più moderatamente anche per effetto della più limitata contribuzione (sia pure virtuale) posta a carico del bilancio interno, con un onere previdenziale che, soprattutto per esigenze sistematiche di carattere istituzionale, rimarrebbe comunque a carico degli organi parlamentari.

 E' di tutta evidenza, in conclusione, che il sistema di calcolo prefigurato con gli articoli che seguono tende a ricondurre il complessivo sistema di natura previdenziale nel solco del vigente ordinamento generale, con vincoli matematici e attuariali propri di tutti i regimi previdenziali. Ove, peraltro, si intendesse aumentare il rendimento del trattamento previdenziale dei parlamentari, evocando in qualche modo gli effetti introdotti dal "sistema Dini", occorrerebbe aumentare la contribuzione degli interessati al 30 per cento dei propri emolumenti.

 Si tratta di scegliere, dunque, anche con una congrua valutazione politica e non meramente finanziaria, se sia tollerabile persistere nell'attuale situazione di profondo squilibrio ovvero assicurare fin d'ora un più graduale passaggio a un sistema contributivo che, realisticamente, si qualifichi non più quale garanzia, a prescindere dal reale stato di fatto, dei benefici di fine rapporto - difficilmente assimilabili, sia pure lato sensu, alle dinamiche proprie del mondo del lavoro - ma come un ordinario periodo di servizio prestato nelle istituzioni, giustamente riconosciuto nei limiti dell'effettivo periodo temporale trascorso nell'attività svolta in qualità di parlamentare.

 L'articolato base - che assorbirebbe integralmente gli articoli 1, 2, 6 e 10 del vigente Regolamento per gli assegni vitalizi degli onorevoli Senatori e loro familiari - ovviamente presuppone l'indirizzo da ultimo indicato, fermo restando che, una volta effettuate le scelte di merito da parte dell'Ufficio di Presidenza, andrebbe in ogni caso effettuato un coordinamento non meramente formale dell'intera disciplina.

 

PER CHI DESIDERA APPRONFONDIRE, DI SEGUITO L'ARTICOLATO:

 

 

 

 

 

 

 

 Art. 1

 

 

 

 

 

Trattamento previdenziale

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Ai senatori cessati dal mandato, che abbiano svolto almeno una legislatura, dal primo mese successivo al compimento del sessantacinquesimo anno di età spetta il seguente trattamento previdenziale:

 

 

 

 

a) ai senatori in carica fino alla XV legislatura, viene erogato l'assegno vitalizio, corrispondente agli anni di mandato parlamentare, nella misura prevista all'allegata tabella "A", secondo quanto disposto dall'articolo 2;

 

 

 

 

b) ai senatori eletti a partire dalla XVI legislatura, viene erogato un trattamento previdenziale, secondo quanto disposto dall'articolo 3.

 

 

 

 

2. A decorre dal 1° gennaio 2008, il contributo obbligatorio a carico dei senatori ai fini del trattamento previdenziale è stabilito dal Consiglio di Presidenza in misura non inferiore al 125 per cento dei contributi previsti, ai medesimi fini previdenziali, a carico dei lavoratori dipendenti del pubblico impiego.

 

 

 

 

3. Il diritto alla reversibilità del trattamento previdenziale, nella misura e con le modalità di cui all'articolo 14, a favore del coniuge e dei figli è subordinato al versamento, da parte del senatore, di una quota aggiuntiva pari al 25 per cento del contributo di cui al comma 2.

 

 

 

 

4. I contributi sono trattenuti d'ufficio a valere delle indennità parlamentari.

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 2

 

 

 

 

 

 

 

 

Assegno vitalizio per gli eletti fino alla XV legislatura

 

 

 

 

 

 

 

 

1. La legislatura che dà titolo all'assegno vitalizio minimo può avere anche durata parziale, purché non inferiore a due anni e sei mesi. In tale caso, fermo restando quanto previsto dall'articolo 3, comma 3, il diritto al trattamento vitalizio è subordinato al versamento volontario dei contributi per il periodo mancante al completamento della legislatura. Il versamento volontario dei contributi di cui al presente comma, comunque, non è ammissibile allorché il senatore si dimetta per incompatibilità dipendente da opzione per l'esercizio del mandato al Parlamento europeo, a un Consiglio regionale o al Consiglio delle province autonome di Trento e Bolzano.

 

 

 

 

2. Il senatore rieletto, che abbia già riscattato il periodo mancante della legislatura per conseguire il diritto al trattamento vitalizio minimo, ha la facoltà di richiedere, nel mese successivo al raggiungimento del quinquennio di mandato effettivo, la restituzione in un'unica soluzione dei contributi versati, rivalutati in misura pari all'interesse legale.

 

 

 

 

3. La misura massima dell'assegno vitalizio non può essere superiore all'80 per cento dell'indennità parlamentare lorda e si consegue con almeno 30 anni di contribuzione.

 

 

 

 

4. L'indennità parlamentare da prendere in considerazione ai fini dell'assegno vitalizio è quella vigente al 1° gennaio dell'ultimo anno di mandato parlamentare, successivamente rivalutata in base all'indice ISTAT per il periodo di tempo che intercorre tra il 31 dicembre dell'ultimo anno di mandato parlamentare e il 1° gennaio dell'anno in cui decorre la corresponsione dell'assegno vitalizio.

 

 

 

 

5. A decorrere dal 1° gennaio 2008 l'assegno vitalizio è rivalutato annualmente in base all'indice ISTAT.

 

 

 

 

6. Il senatore che cessi dal mandato prima di aver raggiunto il periodo minimo di cui al comma 1, ovvero rinunci all'assegno vitalizio, ha diritto alla restituzione, in unica soluzione, della somma ritenuta a fini previdenziali rivalutata in misura pari all'interesse legale.

 

 

 

 

7. Fatto salvo quanto disposto dall'articolo 13 e dal Parlamento europeo, i contributi obbligatori corrisposti presso i due rami del Parlamento nazionale e il Parlamento europeo sono ricongiungibili ai fini della determinazione dell'esatto ammontare dell'assegno vitalizio, purché riferiti a periodi di mandato non esercitati contemporaneamente.

 

 

 

 

8. Resta ferma la facoltà di optare per la restituzione dei contributi, secondo quanto previsto dal comma 6.

 

 

 

 

9. Non è ammesso il completamento del quinquennio nel caso in cui l'elezione sia stata annullata.

 

 

 

 

10. A carico degli assegni vitalizi attribuiti ai senatori eletti fino alla XIV legislatura viene detratto, con decorrenza 1° gennaio 2008, un contributo di solidarietà pari al 4 per cento della quota eccedente i 50.000 euro lordi annui, quale partecipazione alla riduzione dei corrispondenti oneri di bilancio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 3

 

 

 

 

 

 

 

 

Trattamento previdenziale degli eletti a partire dalla XVI legislatura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. La misura del trattamento previdenziale riconosciuto ai senatori eletti a partire dalla XVI legislatura viene determinata capitalizzando le contribuzioni di cui all'articolo 1, commi 2 e 3, e al comma 2 del presente articolo in ragione di un interesse pari alla rivalutazione annua dell'indennità parlamentare. La rivalutazione ha effetto fino al raggiungimento del diritto alla effettiva erogazione del trattamento.

 

 

 

 

2. Ai fini del calcolo di cui al comma 1, a carico del bilancio interno delle Camere viene computato un contributo annuale pari al 33 per cento dell'indennità parlamentare.

 

 

 

 

3. Con apposito regolamento approvato dal Consiglio di Presidenza vengono stabiliti anche i parametri e le basi demografiche attuariali concorrenti a determinare il tasso di trasformazione del trattamento previdenziale ai sensi del comma 7 nonché i casi di ammissibilità che consentano la prosecuzione dei versamenti contributivi da parte del parlamentare senza ulteriori oneri da parte della Camera di appartenenza.

 

 

 

 

4. La legislatura che dà titolo al trattamento previdenziale può avere anche durata parziale, purché non inferiore a due anni e sei mesi. In tale caso il diritto al trattamento è subordinato al versamento volontario dei contributi  per il periodo mancante al completamento della legislatura. Non è ammesso il completamento del quinquennio nel caso in cui l'elezione sia stata annullata.

 

 

 

 

5. Il senatore rieletto, che abbia già riscattato il periodo mancante della legislatura per conseguire il diritto al trattamento previdenziale, ha la facoltà di richiedere, nel mese successivo al raggiungimento del quinquennio di mandato effettivo, la restituzione in un'unica soluzione dei contributi versati, rivalutati in misura pari all'interesse legale.

 

 

 

 

6. Il senatore che cessi dal mandato prima di aver raggiunto il periodo minimo di cui al comma 4 ha diritto alla restituzione dei contributi versati, incrementati della rivalutazione di cui al comma 5. In caso di successiva rielezione, con la quale maturi il periodo minimo di contribuzione utile, il senatore ha facoltà di versare la somma a suo tempo restituita, rivalutata in misura pari all'interesse legale.

 

 

 

 

7. Il senatore che abbia maturato il diritto al trattamento previdenziale, alla cessazione del mandato ha diritto alle seguenti opzioni non revocabili:

 

 

 

 

a) restituzione dell'importo costituito dalle proprie contribuzioni, rivalutate annualmente nella stessa misura percentuale dell'indennità parlamentare. Il montante derivante dalla contribuzione a carico del bilancio interno rimane acquisito allo stesso;

 

 

 

 

b) trasformazione del montante complessivo, al compimento del sessantacinquesimo anno di età ovvero al termine del mandato se superiore, in rendita vitalizia, erogata a carico del bilancio interno, secondo le modalità definite con apposito regolamento dal Consiglio di Presidenza.

 

 

 

 

8. L'intera disponibilità risultante dai versamenti dei contributi di cui al presente articolo, in caso di decesso del senatore prima dell'acquisizione del diritto alla erogazione del trattamento previdenziale minimo, è devoluto in conformità alla disciplina in materia di successione.

 

 

 

 

9. In caso di decesso del senatore che abbia maturato il diritto al trattamento previdenziale e che si sia avvalso dell'istituto della reversibilità, il coniuge superstite ha diritto alle seguenti opzioni:

 

 

 

 

a) devoluzione dell'importo, come costituito dalle contribuzioni del dante causa, rivalutate annualmente nella stessa misura percentuale dell'indennità parlamentare. La somma sarà assegnata in conformità alla disciplina in materia di successione mentre il montante derivante dalla contribuzione a carico del bilancio interno rimane acquisito allo stesso;

 

 

 

 

b) trasformazione del montante complessivo, alla data di compimento del sessantacinquesimo anno di età del dante causa, in rendita vitalizia, erogata a carico del bilancio interno, secondo le modalità disciplinate dall' apposito regolamento di cui al comma 3.

 

 

 

 

 

 

 

 

10.  In caso di decesso del senatore cessato dal mandato prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età e che si sia avvalso dell'istituto della reversibilità, il coniuge superstite mantiene il diritto alla rendita vitalizia alla stessa data in cui l'avrebbe maturata il dante causa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Costi della politica, tagli ai giornali di partito

Il Governo si sta impegnando per abbattere uno spreco insensato di denaro pubblico: il finanziamento ai giornali di partito. Speriamo che le misure previste siano veramente incisive, come richiesto con forza da Giorgio Poidomani, amministratore delegato della società editrice dell'Unità.
 
Costi della politica, tagli ai giornali di partito

 Oggi lo stato finanzia l'editoria per circa 600 milioni di euro. Ci sarà distinzione tra fogli politici veri e fasulli, tra chi vende e chi no  

 06 giugno 2007, Corriere della Sera, Mario Sensini

 Non ci saranno sconti neanche per il futuro Partito Democratico. I soldi andranno all'uno o all'altro, non a tutti e due i quotidiani di Ds e Margherita. A meno che non facciano una bella fusione. «Il governo ce l'ha già detto: quando arriverà il nuovo partito non potrà continuare a dare contributi pubblici a tutti e due. A Europa che è espressione della Margherita, e a noi che siamo organo dei gruppi parlamentari dei Ds» racconta Giorgio Poidomani, amministratore delegato della società editrice dell'Unità. Che comunque, fatta salva quella prospettiva sicuramente problematica, è assolutamente ben disposto ad accogliere il riordino delle provvidenze pubbliche a favore dell'editoria annunciato dal governo. «È ora che i finanziamenti vadano ai giornali veri, espressione di partiti veri, che vendono copie vere. O alle vere cooperative di giornalisti» dice Poidomani.
 Il riordino, al quale lavora da un anno il sottosegretario alla Presidenza, Ricardo Levi, entrerà nel pacchetto di misure per l'abbattimento dei costi della politica. Farà compagnia ai nuovi criteri per la definizione delle province, delle comunità montane, delle circoscrizioni, a quelli per snellire i consigli regionali, comunali e provinciali, per ridurre i benefit e le indennità. E forse anche ministri e sottosegretari, perché Santagata ammette che con 26 dei primi e 104 dei secondi, anche il governo di cui fa parte «ha esagerato. Sui costi della politica bisogna dare un segnale urgente, perché il rischio del distacco dei cittadini è grande e sotto gli occhi di tutti».

 
 
  Anche di chi si chiede come mai Torino Cronaca prenda dallo Stato quasi 3 milioni di euro in quanto espressione di un movimento politico, come il Foglio e il Riformista, ma anche come il Roma di Napoli, il Denaro, Metropoli Day, e Libero. Di chi si domanda se sia giusto che anche il mensile con i programmi che Sky invia ai suoi abbonati, in quanto prodotto editoriale, riceva le agevolazioni previste sulle tariffe postali (25 milioni di euro l'anno). O semplicemente come mai i contributi pubblici siano esplosi in 20 anni: da 28 milioni di euro del 1980 agli oltre 600 di oggi. Via alla riforma, dunque. «Che sarà organica, e riguarderà tutti gli aspetti dell'industria editoriale: il prodotto, il mercato, le imprese, e ovviamente gli aiuti» spiega Levi.

 

 

 
 
 Si stabilirà con precisione cosa è un prodotto editoriale, perché è dubbio che lo siano, come sono oggi considerati, e quindi agevolati, i cosiddetti «collaterali», dai dvd agli aerei da montare. I contributi alle cooperative resteranno, ma a quelle vere, composte dai giornalisti e dai dipendenti. Mettendo fine al caos generato dalla sanatoria del 2001, quando si decise che per continuare ad avere contributi i giornali espressione dei «movimenti politici» (bastavano due parlamentari) dovevano essere trasformati in cooperative anche spurie, cioè con soci azionisti e non lavoratori. Resteranno, ovviamente, i contributi ai quotidiani politici, tutelati in nome della libertà d'espressione dalla Costituzione. «Ma, anche qui, dobbiamo chiarire cosa si debba intendere per un organo legato ad un gruppo politico» spiega Levi. Soprattutto, poi, ci saranno parametri industriali per calcolare l'entità delle sovvenzioni. «Che saranno legate - aggiunge il sottosegretario - al numero effettivo di copie stampate e realmente diffuse, ma anche all'occupazione effettiva».
 
  il criterio per stabilire il "quantum" del contributo è facilissimo da aggirare. Basta stampare migliaia di copie e magari lasciarle in un deposito. Oppure regalarle. O venderle in blocchi ad aziende come le Fs, Alitalia, ospedali, catene alberghiere, che poi li distribuiscono gratuitamente ai loro clienti, a prezzi irrisori. «Criteri non sempre trasparenti» ammette Santagata. Tanto che due mesi fa il governo ha chiesto alla Guardia di Finanza, di distaccare un nucleo di ispettori al Dipartimento dell'Editoria, per evitare possibili truffe. Paolo Franchi, direttore de Il Riformista, organo del movimento Ragioni del Socialismo, concorda. «Dal mio punto di vista è giusto mettere ordine con regole chiare e trasparenti. Purché ci si renda conto che la tutela di una voce piccola, ma di peso, non è lo stesso problema dell'auto blu usata dal nipote dell'assessore» dice Franchi. «Da questa riforma noi abbiamo tutto da guadagnare» concorda Stefano Menichini, direttore di Europa. «Lo scenario - aggiunge - è ignobile: i soldi li prendono tutti, giornali veri e falsi, chi vende e chi non s'è mai visto in edicola, chi è espressione di veri partiti e chi lo è di sole due persone». «Però dobbiamo parlare anche della grande stampa. Il grosso delle agevolazioni - dice Poidomani - va lì. Mi chiedo se anche questo è giusto».
 

 


Corrotti e rimborsati di Marco Travaglio

da l'Unità del 12 dicembre 2007

 

Ecco un articolo davvero interessante che riguarda proprio l’appello “Via gli intoccabili!”  che trovate qui scaricabile.
Stampate e diffondete!

 

Un disegno di legge appena varato dal governo Prodi e firmato dal ministro della Funzione Pubblica Luigi Nicolais stabilisce il licenziamento automatico dei dipendenti pubblici condannati per corruzione, o concussione o peculato a pene superiori ai 3 anni. Anche se la pena è arrivata in seguito al patteggiamento. Oggi quell’automatismo non c’è: per licenziare un condannato bisogna aspettare il procedimento disciplinare della sua amministrazione, con tempi lunghissimi che si aggiungono a quelli biblici del processo penale. E oggi, soprattutto, il patteggiamento non vale una condanna: profittando dell’ambiguità della legge,c’è sempre qualche furbacchione che dice «è vero, ho patteggiato, ma non perché fossi colpevole: solo perché volevo levarmi dai piedi il processo e stare tranquillo».

 

Siamo pieni di sedicenti innocenti che, a sentir loro, concordano col giudice anni di galera pur non avendo fatto nulla. La furbata serve ovviamente a mantenere un simulacro di rispettabilità sociale e, soprattutto, a scansare le sanzioni disciplinari. Con la legge Nicolais patteggiamento e condanna vengono finalmente equiparati: almeno per i pubblici dipendenti che superano i 3 anni. Ma fatta la legge, trovato l’inganno: secondo un’inchiesta di Gian Antonio Stella sul Corriere, i condannati per corruzione a più di 3 anni sono il 2% del totale.

 

Tutti gli altri, grazie allo sconto di un terzo previsto dai riti alternativi (abbreviato e patteggiamento), si fermano sotto la fatidica soglia. Quindi il 98% dei condannati per corruzione resterebbero tranquillamente al loro posto, stipendiati coi nostri soldi. A meno che il governo non corregga la legge, prevedendo semplicemente il licenziamento di tutti i condannati, a un mese o a 10 anni non importa. Se ne potrebbe parlare(...) se Mastella non se ne ha a male: chi ruba denaro pubblico, pochi euro o molti milioni fa lo stesso, deve sapere che sarà cacciato. Punto e basta. Anzi, non basta ancora.

Una seria bonifica della Pubblica amministrazione, oggi infestata dai pregiudicati, esige un altro intervento urgente: la cancellazione della legge ex Cirielli, che dimezza i termini di prescrizione anche per la corruzione. Fino a due anni fa il corrotto che veniva scoperto era quasi certo di esser condannato in tempo utile, visto che il reato si prescriveva in 15 anni: quanto bastava per celebrare i tre gradi di giudizio. Dal 2005, grazie all’ex Cirielli, la prescrizione scatta al massimo dopo 7 anni e mezzo dalla commissione del reato: basta avere un mediocre avvocato armato di cavilli, o un avvocato parlamentare che fa slittare le udienze perché impegnato alla Camera, per essere sicuri di farla franca. Perché mai uno dovrebbe accettare uno sconto di pena col patteggiamento o con l’abbreviato, se resistendo in giudizio ha la certezza di non avere alcuna pena? Ultima questione: il presidente dell’Eni Paolo Scaroni, per dirne uno, ha patteggiato 1 anno e 4 mesi perché, quand’era alla Techint, pagava mazzette al Psi in cambio di appalti dall’Enel. Berlusconi lo promosse presidente dell’Enel e poi dell’ Eni.

 

L’incensuratezza è richiesta solo ai dipendenti, o anche ai dirigenti pubblici? Come lo si spiega a un impiegato che lui dev’essere incensurato, mentre il suo capo può essere pregiudicato? E la regola Nicolais vale solo per il pubblico impiego o si estende al Parlamento e al governo? Difficile immaginare qualcosa di più «pubblico» di Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi. Eppure in Parlamento siedono 25 condannati definitivi (più una sessantina di imputati o indagati). Soprattutto per corruzione (18 casi). T

 

utta gente che, in base a una legge dello Stato, non può sedere in un consiglio comunale, provinciale o regionale, dove i pregiudicati sono ineleggibili.In Parlamento invece sono eleggibilissimi. L’altroieri il presidente dell’Antimafia Francesco Forgione invocava sull’Unità «una bonifica della politica» con «un censimento dei funzionari pubblici con processi in corso o sentenze in giudicato che seguitano a operare dove han commesso il reato».Fantastico. Ma si dà il caso che, nella sua Antimafia, i presidenti delle Camere abbiano appena nominato due condannati per corruzione, Vito e Pomicino, e che Forgione li abbia difesi. Ora sarà divertente spiegare a un impiegato delle Poste condannato per corruzione che deve lasciare il suo ufficio, ma, se vuole, può diventare deputato.

E,se fa il bravo, pure commissario antimafia.