di Alessandro Carli
SAN MARINO - Non è un “Mistero buffo”, la passione che lega Dario Fo alla pittura (si è diplomato all’Accademia di Brera): è piuttosto un percorso verso la rappresentazione più alta, verso la simbiosi tra i differenti respiri di cui l’arte di nutre, e vive. A distanza di 10 anni dal conferimento dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Equestre di Sant’Agata da parte della Repubblica di San Marino, il Premio Nobel torna sul Titano: tre spazi prestigiosi della Repubblica – Palazzo SUMS, Pinacoteca San Francesco e Teatro Titano – ospiteranno, dal 13 luglio al 14 ottobre, le oltre 200 opere pittoriche”. Si è iniziato venerdì 13 luglio con l’apertura dello spazio di Palazzo S.U.M.S; il l 4 agosto verranno inaugurate anche le altre due sedi della mostra, la Pinacoteca San Francesco e il Teatro Titano.
Teatro, pittura, arte. Maestro, come si legano?
“Allestire una mostra in loco significa non essere spettatori transitanti. Deve diventare un fatto di conoscenza. Il teatro, il cinema, la pittura e la musica non hanno alcun significato se non sanno entrare nelle coscienze e nei bisogni della gente. Per quanto mi riguarda, ho faticato non poco sia a dipingere che a stare in scena. Oggi riesco a unire le due esperienze con discreta facilità, ma ci sono voluti almeno 60 anni di lavoro. Per me non c’è differenza tra il ‘pitturare’, il disegnare e il raccontare o interpretare un ruolo in scena. Quando, nell’allestire uno spettacolo, mi trovo in crisi e non riesco a trovare un ritmo o uno svolgimento consono a ciò che vorrei raccontare, mi procuro un grande foglio di carta, un po’ di colori, penna e pennarelli. Il tutto per segnare ritmi e figure che raccontino, in un’altra forma, la storia in questione”.
E il risultato è ben visibile: quadri dalle ampie dimensioni (ma anche più raccolti), strutturati e imperniati su colori smaglianti come il verde terribile, il giallo che ride, il rosso che scappa. E che raccontano, in maniera graffiante e satirica, la politica e il sociale.
“Le mostre non devono solamente ospitare le opere, ma soprattutto raccontare qualcosa. Siate creativi, e dipingete nelle strade. Io giro in tutta Europa e in America, e noto un approccio diverso: New York, Parigi… in Italia invece si tende ad attaccare i quadri ai muri, senza pensare al pubblico. Tempo fa mi sono recato a vedere un’iniziativa dedicata a Renoir: c’erano due persone che fingevano una conversazione… raccontavano l’artista attraverso vite finte, inventate sul momento. A Milano, quando ho provato a replicare quanto ho visto, mi hanno fatto a pezzi. Occorre reinventare le mostre. Secondo me, non sono ciò che ospitano, ma il modo in cui vengono rappresentate le opere. Dobbiamo iniziare una rivoluzione espressiva”.
Cosa rappresenta per lei la pittura?
“I quadri sono come un grandissimo giornale dipinto e permettono alle persone di immaginare qualcosa di più rispetto a quello che leggono. Credo sia importate riuscire a creare una dimensione di rapporto ‘raccontato’ tra lo spettatore e l’artista. Io non amo chi rappresenta il vuoto. In passato, abbiamo insegnato la danza, la musica, la pittura. Quando andiamo all’estero, la nostra impronta è ben marcata. Eppure, molto spesso, siamo noi italiani a non conoscere la nostra arte. Facciamoci conoscere”.
Spesso viene chiamato a tenere conferenze sulla sua arte. Cosa “sente”?
“Quando finisco le lezioni, spesso sono stanchissimo e tutto sudato. Raccontare e coinvolgere le persone che hanno un vuoto di conoscenza è un percorso molto faticoso. Quando invece esplodono in un applauso o mi abbracciano, mi sento felice. In occasione dell’assegnazione del Premio Nobel (1997) dovevo tenere un discorso davanti al Re e alla Regina. C’erano un po’ di problemi con la lingua: davanti a me c’erano svedesi, inglesi, italiani, eccetera. Io sono contro il nazionalismo di ogni genere: le bandiere mi fanno pensare alla guerra. Però quando un gruppo di italiani ha iniziato a intonare l’inno di Mameli, mi sono commosso e ho iniziato a piangere ”.