Parliamo di donne – di Rossana Rossanda, il Manifesto, 31 marzo 2008
Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono? Ne conosciamo i frammenti minoritari che hanno accesso alla parola, i numeri muti delle statistica, le immagini tv.
Dalle quali trarre deduzioni è rischioso: piangenti, al mercato, rare imprenditrici brillanti, rare ministre, zero segretarie di partito, zero segretarie delle confederazioni sindacali (è arrivata prima la Confindustria), qualche insegnante o professionista, e una gran massa di veline, tutte carine, tutte uguali. E un valido campionamento del paese? Mah. Una volta la regione campana prese la tv così sul serio da organizzare corsi professionali per le aspiranti veline.
Tradotto in «desiderio politico», che cosa sono? Emancipate? Certo in uscita transitoria dallo stereotipo donna al focolare. Se arrivano a farsi conoscere, sono in grado di mandare a spasso un marito, salvo congruo assegno. Ma se emancipate significa che ambiscono a prendere il posto degli uomini, non direi. Le emancipate che lo ambiscono sono relativamente rare, salvo nell'insegnamento, dove costituiscono la maggioranza ma non ne reggono le redini né una riforma del sistema è stata avanzata da riconoscibili donne. Quanto alla massa di carine, sono giunte a professionalizzare (precariamente) il classico desiderio maschile e il nostro, pare altrettanto classico, esibizionismo, senza grande spesa e trasgressione. Difficile immaginare che idea di società abbiano. Come le casalinghe per scelta, sempre di meno ma con la bizzarra componente delle figlie super emancipate e disinibite dal 1968. Strana generazione, che a un certo punto sceglie di tenersi sul sicuro, cosa che mamma ai suoi tempi non ha fatto. Devono essere elettrici tendenzialmente democratiche, magari «riformiste».
Poi ci sono quelle che parlano. Anche di politica, emancipate o femministe. Il desiderio delle prime, che spesso hanno avuto un passaggio femminista light, è di affermarsi nell'arco politico esistente. Con una qualità in meno o in più dei maschi: sono capaci di «staccare». E' interessante il percorso di decine di migliaia di amministratrici locali, spesso ottime: uno o due giri da consigliere, assessore o sindaco e poi se ne tirano fuori. E non irate o deluse, ma per voglia di fare altro. Questa caratteristica è importante per capire quanto la politica conti per la donna che ci si è messa: raro che ci muoia. Sarebbe garanzia di un equilibrio? Somiglierebbe al disinteresse personale? E intanto mezzo secolo di amministratici locali hanno mutato o no il potere locale? Ne hanno modificato le regole? Accresciuto l'autonomia?
Credo di no. Non diversamente dalle istituzioni nazionali, in quelle locali le donne non hanno reclamato, e tanto meno ottenuto, cambiamenti né di fini né di regole.
Di qui il rapporto acerbo fra le femministe e la sfera politica. Inutile girarci attorno. Là dove avrebbero in via di principio un ascolto, cioè a sinistra - è stato un penoso errore da parte di un loro gruppo credere che uno spazio ci fosse a destra per via di Lady D e Irene Pivetti - i leader della medesima si spendono in parole e stringono poco nei fatti. Gli uomini di sinistra imbrogliano o si imbrogliano da sé, le donne di sinistra protestano. O da lontano, scrivendo con amarezza della irreversibile crisi della politica, o da vicino, organizzando proteste su obbiettivi indiscutibili, come la violenza, ma poco cavandone fuori. Quale dirigente maschio oserebbe dire: «Insomma, se il marito la pesta (una donna ogni tre donne viene picchiata in Francia) o le ammazza (idem, una ogni tre giorni), se la sarà cercata». Quando mai. Soltanto che nessuna gli pone in termini secchi la domanda: «Non ti chiedi perché il tuo sesso continua ad ammazzarci?». Il leader condanna sinceramente ma pensa: quelli non sono come me, sono perversi o assassini, roba da codice penale. Non lo sfiora che la brutale negazione fisica di lei abbia una parentela con la negazione simbolica che lo induce a discriminarla dalle cariche decisive («non ce la farebbe»).
In politica resta inesplorata la zona oscura del conflitto millenario fra i sessi. Soprattutto in Italia e in Francia, dove le «emancipate» che partecipano al potere eludono il tema, e le femministe, fra loro diverse, non partecipano gran che al primo e rompono i ponti sul secondo. Non è senza interesse chiedersi perché resti così profonda o, se da qualcuna praticata, irrisolta in lei stessa, la separazione fra coscienza e partecipazione femminista e coscienza e partecipazione politica. Penso alle recenti interviste sul nostro giornale di Ida Dominijanni a Judith Butler e Wendy Brown (il manifesto 25 marzo). Butler è impegnata a fondo su tutti e due i terreni, esplora la zona oscura in termini sovversivi proponendo l'intersessualità come norma - «Gender Trouble» - e prendendo di petto, e non genericamente, temi scottanti dell'attuale politica degli Usa. C'è probabilmente una diversa tradizione intellettuale, perché non è che le europee siano meno radicali; probabilmente il sistema politico americano è così precluso - per fare un presidente (o un governatore) ci vogliono centinaia di milioni e quasi due anni di campagna elettorale full-time - che la presa di parola politica non ha mediazioni con istituzioni e partiti, o si espone direttamente o non è. Insomma si interviene in politica a prezzo di impegno e competenza specifica dalla società civile, considerano milizia femminile e milizia politica un unicum, come a mio avviso realmente sono. Non investono ambedue il sistema delle relazioni?
In Italia no. Forse per il ritardo della emancipazione in presenza d'una gerarchia cattolica invadente. E' stata più la modernizzazione capitalistica della società che la politica a farla avanzare. Forse per l'essersi formato il primo e il secondo femminismo in collegamento stretto con la sinistra; il primo con il Pci e il Psi e il secondo - anche se non collegato altrettanto strettamente - con il 1968 e il rivoluzionamento che esso ha comportato nei paradigmi del politico per tutti gli anni '70, finendo con l'essere l'unica vera trasformazione culturale che ne è rimasta, minoritaria ma irreversibile. Più che in Francia e in Germania, credo.
Ma la sua contiguità originaria con il bacino «marxista» - marxista più come pratica etica ed emozionale che come elaborazione teorica, caratteristica di tutta la sinistra italiana - ha portato le donne a un corto circuito: rapido investimento e rapida disillusione, 1968 incluso, e peggio con i successivi gruppi extraparlamentari. Vibra ancora indolenzito un cordone che si è spezzato. Gli uni non capiscono le altre e viceversa, fino a ignorarsi, al di là di qualche convenevole, come se fossero due settori separati d'esperienza e competenza. (Di questo bisogna chiedere alle donne, dice lui. La politica non mi interessa più, dice lei).
Non che sia agevole fare una mappa dei gruppi femministi italiani. Proprio perché sono, mi sembra, più diffusi che altrove e frammentati si rischiano giudizi facili. Ma molto sommariamente si può avanzare che le principali posizioni rispetto al «fare» politico sono due. L'una vede nel conflitto fra i sessi una costante metastorica, o quanto meno originaria, irrisolta quanto più introiettata senza esplicitazione, certo fra gli uomini e in molta parte delle donne; e finché tale resta, il conflitto non conscio di sé mutila e conforma l'uno e l'altro sesso, reciprocamente confusi, dolenti. E ormai traversati brutalmente dalle biotecnologie che tendono a modificare la posta in gioco della riproduzione. Di qui l'oscillazione fra il rifiuto conservatore della chiesa, l'interesse alla libertà della scienza (che si presume) disinteressata, e un rifiuto femminile in nome di un diritto primario e autentico che non è riconosciuto né dalla chiesa né dalla scienza e, come ha dimostrato il referendum sulla riproduzione assistita, spesso dalle donne stesse.
La seconda posizione, all'inizio derivata da Luce Irigaray, vede più che il conflitto - il conflitto è comunque un rapporto - un'eteronomia dei sessi che darebbe luogo, fra natura e storia, a una differenza insorpassabile. E del resto perché sorpassarla? Nel momento in cui la donna spezza il presunto universalismo del maschile (il patriarcato) e si riconosce il suo sesso come principio di sé - si era fin suggerita una «specie umana femminile» - si scopre come un valore, si dà una genealogia e un ordine simbolico (materno invece che paterno), la rivoluzione è già avvenuta, il patriarcato se non finito è incrinato. A questo punto o le donne si appartano nella separatezza (la comunità dello Scamandro di Christa Wolf), o restano nel mondo intervenendovi come un complesso interelazionale autonomo, che risponde ai suoi propri principi.
Soprattutto alla seconda posizione il sistema politico, con il quale si è inutilmente incontrata e scontrata, e con esso l'intero pensiero politico della modernità appare segnato da un solo codice, quello maschile, e così il lessico, e così il linguaggio. A questo punto il dialogo appare impraticabile. Riscoprirsi nella propria interiorità svalorizza ogni pretesa di universalismo come è proprio specie della costituzione di un diritto, punto centrale della politica. L'avvertimento «non credere di avere dei diritti» volge facilmente in un «Non ce ne importa del diritto», occorre una revisione ab imis che costituisce «la politica prima». Basta guardare alla sorte delle donne entrate nella poderosa macchina delle istituzioni per aver la conferma di quel che pare un eccesso.
Ma lo stesso vale per chi non arriva a questo limite di separatezza e ha cercato di partecipare o almeno collaborare al sistema politico per non isolarsi, sperando di inserire un cuneo, un dubbio.
Qui siamo. Non sembra che le forme e le figure attuali della politica o dei partiti ne siano coscienti o almeno se ne facciano un problema. Non la destra o il centro cattolico, per i quali il problema non esiste. Non il Partito democratico, invischiato fra cultura cattolica e una laica che rinnega il passato e prende a prestito qua e là del presente non esiste. Ma non è chiaro se ne sia sfiorato quel work in progress che sarebbe la Sinistra Arcobaleno, che il Partito democratico farebbe volentieri a pezzi. Non è chiaro se ne sono coscienti neppure le culture dell'autonomia.
Ma qualcuno è disposto a sostenere seriamente che senza prender questo toro per le corna - questi tori, perché è il tema fondamentale delle relazioni che è in causa - una convivenza moderna o postmoderna si possa civilmente dare? Io non credo.