Ora d'aria
l'Unità, 27 aprile 2008
Spiaceva quasi, l’altroieri, sentire l’intera piazza San Carlo che sfanculava ogni dieci minuti Johnny Raiotta, il direttore del Tg1 che fa rimpiangere Mimun. Troppi vaffa per un solo ometto. Poi però uno rincasava, cercava il servizio del Tg1 di mezza sera su una manifestazione criticabilissima come tutte, ma imponente, che in un giorno ha raccolto 500mila firme per tre referendum. Invece, sorpresa (si fa per dire): nessun servizio, nessuna notizia, nemmeno una parola.
Molti e giusti servizi sul 25 aprile dei politici, sulle elezioni a Roma, sul caro-prezzi, sul ragazzino annegato, poi largo spazio alle due vere notizie del giorno: le torte in faccia al direttore del New York Times e la mostra riminese su Romolo e Remo (anzi, per dirla col novello premier, Remolo). Seguiva un pallosissimo Tv7 con lo stesso Raiotta, Tremonti, la Bonino e Mieli che discutevano per ore e ore di nonsisabenechecosa. Raiotta indossava eccezionalmente una giacca, forse per riguardo verso il direttore del Corriere. Questo sì che è servizio pubblico. Così, nel tentativo maldestro di contrastare - oscurandolo - il V-Day sull’informazione, Johnny Raiotta del Kansas City ne confermava e rafforzava le ragioni.
E anche i giornali di ieri facevano a gara nel dimostrare che Grillo, anche quando esagera, non esagera mai abbastanza. Il Giornale della ditta, giustamente allarmato dal referendum per cancellare la legge Gasparri, sguinzaglia per il terzo giorno consecutivo un piccolo sicario con le mèches in una strepitosa inchiesta a puntate: “La vera vita di Grillo”. Finora il segugio ossigenato ha scoperto, nell’ordine, che Grillo: da giovane andava a letto con ragazze; alcuni suoi amici, invidiosi, parlano male di lui; la sua villa a Genova consuma energia elettrica; ha avuto un tragico incidente stradale; è genovese e dunque tirchio (fosse nato ad Ankara, fumerebbe come un turco); nel suo orto ha sistemato una melanzana di plastica; ha avuto un figlio “nato purtroppo con dei problemi motori” (il giornalista è un cultore della privacy); e, quando fa spettacoli a pagamento, pretende addirittura di essere pagato. Insomma, un delinquente. E siamo solo alla terza puntata: chissà quali altri delitti il Pulitzer arcoriano - già difensore di Craxi, Berlusconi, Dell’Utri e Mangano - scoprirà a carico di Grillo.
Nell’attesa, il Giornale ha mandato al V2-Day un inviato di punta, Tony Damascelli. Il quale, mentre il Cainano riceve il camerata Ciarrapico, paragona Grillo a Mussolini chiamandolo Benito e poi si duole perché piazza San Carlo ha applaudito a lungo Montanelli (fondatore del Giornale quand’era una cosa seria) e Biagi, definito graziosamente “il grande disoccupato”. La scelta di inviare Damascelli non è casuale, trattandosi di un giornalista sospeso dall’Ordine dei Giornalisti perché spiava un collega del suo stesso quotidiano, Franco Ordine, spifferando in anteprima quel che scriveva all’amico Moggi. Siccome l’Ordine non è una cosa seria, lo spione non fu cacciato, ma solo sospeso per 4 mesi. E siccome Il Giornale non è (più) una cosa seria, anziché licenziarlo l’ha spostato in cronaca. E l’ha mandato al V-Day che aveva di mira, fra l’altro, l’Ordine dei Giornalisti. Geniale.
Il Foglio, per dimostrare l’ottima salute di cui gode l’informazione, pubblicava proprio ieri un articolo di Roberto Ciuni, ex P2. Ma, oltre ai giornalisti-cimice, abbiamo pure i giornalisti-medium. Quelli che non han bisogno di assistere a un fatto per raccontarlo: prescindono dal fattore spazio-temporale. Il Riformista, alla vigilia del V-Day, già sapeva che sarebbe stata una manifestazione terroristica, “con minacce in stile Br ai giornalisti servi” (“Le Grillate rosse”). Ecco chi erano i 100 mila in piazza San Carlo: brigatisti. Francesco Merlo se ne sta addirittura a Parigi: di lì, armato di un telescopio potentissimo, riesce a vedere e a spiegare agli italiani quel che accade in Italia. Ieri ha scritto su Repubblica che “in Italia c’è sovrapproduzione di informazione” (testuale): ce ne vorrebbe un po’ meno, ecco.
Quanto a Grillo, è “in crisi” (2 milioni di persone in 45 piazze) e “non riesce a far ridere” (strano: ridevano tutti). Poi, citando Alberoni (mica uno qualsiasi: Alberoni), ha sostenuto che “in piazza c’erano umori che non s’identificano con Grillo”. Ecco, Merlo è così bravo che, appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, riesce a penetrare la mente e gli umori dei cittadini in piazza a Torino, Milano, Bologna, Roma. E spiega loro che cosa effettivamente pensano. Più che un giornalista, un paragnosta. Finchè potrà contare su fenomeni così, l’informazione in Italia è salva. Di che si lamentano, allora, Grillo e gli italiani?
L' intervento di Marco Travaglio in piazza San Carlo: prima parte - seconda parte - terza parte
Commenti
Fucili caldi. Cosa dovremmo fare?
«Abbiamo 300mila uomini, 300 mila martiri, pronti a battersi. E non scherziamo... mica siamo quattro gatti. Credete che avremmo difficoltà a trovare gli uomini?» E assicura: «Verrebbero giù dalle montagne...».
Chi parla non è un terrorista di Al Qaeda, . E' Umberto Bossi, probabile prossimo ministro delle riforme del governo Berlusconi.
Le minacce proseguono: «Questa è l'ultima occasione: o si fanno le riforme o facciamo un casino».
«Non so cosa vuole la sinistra, noi siamo pronti, se vogliono fare gli scontri io ho trecentomila uomini sempre a disposizione, se vogliono accomodarsi».
«I fucili sono sempre caldi».
Credo che qualsiasi tentativo di minimizzare le inquietanti parole del leader della Lega sia preoccupante almeno quanto quelle parole stesse. Sono minacce pesanti come macigni, determinate dalla volontà di dare il segno di quello che dovremo attenderci nei prossimi mesi. Non si è ancora spento il ricordo per la "mattanza" al G8 di Genova, quando il governo Berlusconi appena insediato rese subito chiaro con che principi e con quali sistemi avrebbe imposto la sua legge. Ora Bossi parla di "fucili caldi", dice che se non si faranno le riforme come le vuole la Lega faranno un casino, dice ancora che ci sono "300.000 martiri pronti a battersi e a tale scopo a venire giù dalle montagne.
Non possiamo ridurre tutto questo a un fenomeno di folklore e non possiamo trascurare di considerarlo una pesante minaccia che grava sulla incerta democrazia che stiamo vivendo.
Non possiamo sapere se Bossi e il suo "esercito padano" useranno o no i fucili. Forse, con quelle frasi "parla a nuora perchè suocera intenda", e il messaggio è, in realtà, rivolto al socio Berlusconi, perchè prenda atto che questa volta la Lega giocherà i suoi numeri elettorali pretendendo il massimo. Si dice, come sostiene il Corriere, che abbia affermato, e poi successivamente smentito: «Ha voluto (Berlusconi) sposare la Lega e ora deve eseguire gli ordini». In tal caso se "gli ordini" verranno eseguiti da un Pdl tenuto in ostaggio non succederà nulla.
Ma se invece questo non avvenisse e le minacce dei fucili e dei "martiri pronti a battersi" fossero vere? Cosa dovrebbero fare i cittadini democratici?
Organizzare una nuova Resistenza? Oppure?
Kamikaze leghisti
Quello che parla è un parlamentare eletto dal Popolo italiano, futuro Ministro della Repubblica Italiana...che vergogna!!!
Non è un fatto folkloristico : come dice Rodotà, il linguaggio è un riflesso della propria cultura, della propria concezione di società, di rapporti umani e sappiamo che "cultura", concezione di società e di rapporti umani hanno i leghisti.
Quando, in modo fanatico,Bossi parla di martiri pronti a battersi si esprime allo stesso modo di coloro che gli stessi Leghisti tanto disprezzano.
In Italia vige la libertà di parola ed espressione ma queste parole tanto più dette da un rappresentante del popolo italiano, che possono essere considerate un'istigazione a combattere, alla guerra, fino a che punto possono essere tollerate? le parole del "signor" Bossi hanno ricevuto delle critiche oppure ad esse non si è fatto tanto caso..perchè tanto, si sa,è normale che Bossi e i suoi kamikaze si esprimono così ?
Aspettiamoci tempi duri per la nostra già debole democrazia!!!
E dal Colle nessun monito....
...di fronte a un esaltato che, non dimentichiamolo, è stato condannato per vilipendio alla bandiera (..io mi ci pulisco il c..o )...
Se lo avesse fatto un semplice cittadino ad incitare alla violenza, minacciando l'avanzata di 300mila martiri con i fucili caldi, "Colui che dorme" avrebbe di sicuro tirato fuori qualche monito sulla Unità d'Italia, sulla Costituzione, etc....e il semplice cittadino sarebbe già in qualche galera pestato a sangue.
Lo fa un futuro ministro della Repubblica e tutti tacciono compreso "Egli", quello che dovrebbe essere il baluardo a difesa della Nazione, della Democrazia e dei Cittadini italiani (non padani)...
Concordo con gli amici del blog, ci aspettano tempi duri indifesi come siamo...l'unica speranza è di stringerci forte, noi donne e uomini di cuore e di ragione,e di resistere, resistere, resistere...
PS. Bisognerebbe scrivere una petizione da firmare in migliaia e migliaia (se può servire) per chiedere a Napolitano di non accettare la nomina di Bossi a ministro della Repubblica...
Appello del PRC a Napolitano
GOVERNO: APPELLO PRC A NAPOLITANO, NON NOMINI BOSSI MINISTRO
"Ci rivolgiamo al Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, nella sua veste di supremo
garante della Costituzione e 'rappresentante dell'unita'
nazionale' sancita dall'articolo 87 della Carta, auspicando
che, qualora il nome dell'onorevole Umberto Bossi venisse
avanzato dal Presidente del Consiglio incaricato, voglia
considerare di non nominarlo ad incarichi di governo. Ancora
una volta, e proprio in occasione dell'insediamento della
camere, le affermazione del leader della Lega Nord mettono a
nudo un'idea della vita e delle istituzioni repubblicane
assolutamente distante dai fondamenti della democrazia.
Leggiamo infatti nelle sue frasi il disprezzo per i valori e i
principÄ della Costituzione repubblicana e dello Stato
unitario. Il diritto all'opposizione e alla mobilitazione
democratica nelle piazze non puo' per nessuna ragione essere
conculcato e intimidito dalla minaccia del ricorso alle armi e
di uno scenario di guerra civile, per di piu' a opera del
leader di una forza politica di governo e che si annuncia
pubblicamente prossimo ministro delle riforme istituzionali.
Rinnoviamo percio' l'auspicio che, quando venisse proposto il
nome di Umberto Bossi dal presidente del consiglio incaricato,
il Capo dello Stato voglia seriamente esaminare la
compatibilita' delle sue affermazioni col dovere di fedelta' ai
dettami costituzionali e all'unita' nazionale cui i ministri
sono tenuti a prestare giuramento, e che consideri quindi di
non nominarlo ad alcun incarico esecutivo. Ci auguriamo inoltre
che tutti i partiti democratici che siedono all'opposizione,
anziche' verificare l'assenza del dialogo con la maggioranza di
destra - come rilevato dal leader del Pd, Walter Veltroni -, si
associno a questo rispettoso appello al Capo dello Stato, e si
rendano piuttosto disponibili e partecipi alla costruzione del
dialogo e l'iniziativa intesi alla tutela della Carta
costituzionale e al rafforzamento dei diritti e delle garanzie
sociali e civili propri di una democrazia matura e moderna". Lo
afferma il comitato di gestione di Prc
2008-04-29 20:39:42
http://www.articolo21.info/news.php?id=25318
Bisognerebbe trasformare questa lettera in un appello vero e proprio sottoscritto e firmato da moltissimi cittadini, dubito che si riesca, c'è pochissimo tempo.
Se ci fosse Sandro Pertini
Sono assolutamente d'accordo con l'appello e a me sembra che Napolitano rimanga, sulla questione, piuttosto tiepidino. Vi immaginate come si sarebbe comportato il mai dimenticato Presidente, ma ancor prima passionale partigiano, Sandro Pertini? ne avremmo viste e sentite delle belle!!!
Ma evidentemente la "Ragion di stato", la "pace in famiglia", il dialogo "pacato" deve prevalere ma il problema è che fino ad adesso il rispetto c'è solo da una parte mentre sia Bossi che Berlusconi di sparate ne hanno fatte e dette. E siamo solo all'inizio della legislatura!!!
Insomma, se proprio, proprio non vuole negargli la nomina almeno una bella lavata di capo il Capo dello Stato a Bossi dovrebbe fargliela.
E Berlusconi? con il suo senso dello Stato, anzi con la sua identificazione con lo Stato stesso, ha minacciato l'Ue che zigna. Ma come? L'Ue sta semplicemente facendo il suo dovere cioè sta accertando che il nostro esimio Governo non violi la legge europea ed egli la minaccia perchè va a zignare? a tanto arriva la sua tracotanza, il suo egocentrismo, per non dire la sua mala fede (d'altronde lo stesso atteggiamento lo usa con la magistratura che lo perseguita...)?
Ma poi scusate ma che le Ferrovie dello Stato sono così in buone acque che possono sostenere la moribonda Alitalia? boh, misteri...E poi anche se fosse possibile, se le Ferrovie dello Stato facessero funzionare gli aerei come fanno funzionare i treni poveri passeggeri!!!Meglio tornare alla carrozza trainata dai cavalli ( con buona pace dell'ecologia!) per non parlare delle "perfetta" manutenzione delle linee ferroviarie.Inoltre dal 2009 è prevista l'Alta velocità tra Roma e Milano, con treni ogni 15 minuti e tempo di percorrenza tra il centro delle due città anche migliori rispetto all'offerta aerea e quindi Ferrovie saranno rivali della stessa società che hanno comperato!!!
E poi come la mettiamo con le varie multe che il popolo italiano dovrà pagare perchè i nostri Governi hanno violato le norme dell'Ue? Multe per la legge Gasparri, per la questione Europa 7 e magari altre? Ma l'Ue zigna, come dice Berlusconi, soprattutto verso i suoi interessi.
Ricordiamoci del 6 maggio quando è prevista la pronuncia del Consiglio di Stato su Europa 7...quale parole conierà o userà Berlusconi?
Per concludere in leggerezza penso che per le sparate di Bossi, Berlusconi e aspettiamoci ora quelle di Calderoli e altri...in questi 5 anni ( o 12)diventeremo lo zimbello dell'Europa. E ci andrebbe anche di lusso se ci fermassimo solo a questo...
al presidente Napolitano
Ho mandato una mail a Napolitano a questo indirizzo:
https://servizi.quirinale.it/webmail/missiva.asp?msg=1&t=4%2F30%2F2008+7...
chiedendogli di intervenire a bocciare la candidatura di Bossi a ministro.
Appello a Napolitano
Ho mandato anch'io la mail a Napolitano con l'appello di non accettare la nomina di Bossi a ministro. Dopo le pesanti e pericolose dichiarazioni del leader leghista, non credo che siano state sufficienti le parole del Presidente.
Appello a Napolitano
Ho inviato anch'io la mail al Presidente Napolitano affinchè, nel caso che Berlusconi lo proponga come Ministro, non accetti la nomina dell' "onorevole" Bossi.
Alemanno sindaco di Roma
Dopo le dichiarazioni sulla eliminazione dei campi rom, dei vertici dell'amministrazione di Veltroni e dell'Ara Pacis dal centro di Roma, c'è questo video che, se dovesse essere necessario, illumina i progetti di AN.Un pugno nello stomaco.
http://tv.repubblica.it/home_page.php?playmode=player&cont_id=19794&show...
Chi è Schifani
Un esempio di virtù che, in certi casi, avrà il compito di sostituire il Presidente della Repubblica!
Dovremo essere davvero orgogliosi dei galantuomini che ricopriranno le alte cariche dello stato e che ci governeranno!!!
www.liberacittadinanza.it
VIVA SCHIFANI!
di: Franco Giustolisi e Marco Lillo
Dossier tratto dall’Espresso di Agosto 2002 Capigruppo d’assalto: Una vita da Schifani, società con presunti uomini d’onore e usurai. Consulenze ricevute dai Comuni in odore di mafia. E poi l’ascesa ai vertici di Forza Italia. Berlusconi? «Per me è come Cavour»
Quando, dopo una settimana di nottate, blitz e tranelli ha portato a casa l’approvazione della legge sul legittimo sospetto, Renato Schifani ha sottolineato con il consueto senso delle istituzioni la sua vittoria sull’Ulivo: «Li abbiamo fregati». Il capo dei senatori forzisti è fatto così. «È la mia chiarezza che dà fastidio alla sinistra», ha detto a un settimanale che gli ha dedicato un editoriale lodando «lo stile Schifani».
Questo avvocato di 52 anni, nonostante il riporto e gli occhiali da archivista, è l’uomo prescelto da Silvio Berlusconi come volto ufficiale di Forza Italia. E lui lo ripaga come può. In un articolo sul "Giornale di Sicilia" dal titolo "Cavour e il conflitto di interessi" afferma che anche lo statista piemontese era «in potenziale macroscopico conflitto di interessi perché aveva il giornale "Il Risorgimento", partecipazioni bancarie, grandi proprietà terriere e un’intensa attività affaristica».
Proprio come Berlusconi, insomma, eppure nessuno gli disse nulla. Peccato che, come scrive Rosario Romeo a pagina 451 della sua biografia, Cavour appena diventò ministro «decise in primo luogo di liquidare gli affari nei quali era stato attivo fino ad allora». Ma Schifani per amore del capo è disposto a sfidare anche il ridicolo. Come quando si fa riprendere in tv accanto al santino del leader neanche fosse Padre Pio. Avvocato civilista e amministrativista, 52 anni, sposato e padre di due figli, amante delle isole Egadi, è stato eletto nel collegio di Corleone, cuore di quella Sicilia che ha dato il cento per cento degli eletti a Forza Italia. Per descrivere l’eroe del legittimo sospetto, l’uomo che ha scavato nottetempo la via di fuga dal processo milanese per Berlusconi e Previti, si potrebbe partire dalle sue radici democristiane. Ma applicando alla lettera il suo credo, «non bisogna usare il politichese ma parlare con serenità il linguaggio dell’uomo comune», sarà meglio partire da una constatazione: il capo dei senatori di Forza Italia è stato socio di affari (leciti) con presunti usurai e mafiosi.
Sua eccellenza Filippo Mancuso, solitamente bene informato, ha definito così il suo ex compagno di partito: «Un avvocato del foro di Palermo specializzato in recupero crediti». Schifani gli ha risposto con una lettera in cui difende la sua «onesta e onorata carriera» e nega di avere mai svolto una simile attività. Negli archivi della Camera di commercio di Palermo risulta però una società, oggi inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio Mengano e Antonino Garofalo: la Gms. L’avvocato Antonino Garofalo (socio accomandante come Schifani) è stato arrestato nel 1997 e poi rinviato a giudizio per usura ed estorsione nell’ambito di indagini condotte dal sostituto Gaetano Paci della Procura di Palermo. L’ex socio di Schifani è ritenuto il capo di un’organizzazione che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi del 240 per cento.
Schifani non è stato coinvolto nelle indagini ma certo non deve essere piacevole scoprire di essere stato socio con un presunto usuraio in un’impresa che come oggetto sociale non disdegnava: «L’attività esattoriale per conto terzi di recupero crediti e l’attività di assistenza nell’istruttoria delle pratiche di finanziamento...».
Schifani è stato sempre sfortunato nella scelta dei compagni delle sue imprese. In un rapporto dei carabinieri del nucleo di Palermo, di cui "L’Espresso" è in grado di rivelare i contenuti, si ricostruisce la storia di un’altra strana società di cui il capogruppo di Forza Italia è stato socio e amministratore per poco più di un anno. Si chiama Sicula Brokers, fu istituita nel 1979 e oggi ha cambiato compagine azionaria. Tra i soci fondatori, accanto a un’assicurazione del nord, c’erano Renato Schifani e il ministro degli Affari regionali Enrico La Loggia, nonché soggetti come Benny D’Agostino, Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà. Nomi che a Palermo indicano quella zona grigia in cui impresa, politica e mafia si confondono.
Benny D’agostino è un imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e, negli anni in cui era socio di Schifani e La Loggia, frequentava il gotha di Cosa Nostra. Lo ha ammesso lui stesso al processo Andreotti quando ha raccontato un viaggio memorabile sulla sua Ferrari da Napoli a Roma assieme a Michele Greco, il papa della mafia.
Giuseppe Lombardo invece è stato amministratore delle società dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i famosi esattori di Cosa Nostra arrestati da Falcone nel lontano 1984 e condannati in qualità di capimafia della famiglia di Salemi. Nino Mandalà, infine, è stato arrestato nel 1998 ed è attualmente sotto processo per mafia a Palermo. Questo ex socio di Schifani e La Loggia era il presidente del circolo di Forza Italia di Villabate, un paese vicino a Palermo e proprio di politica parlava nel 1998 con il suo amico Simone Castello, colonnello del boss Bernardo Provenzano mentre a sua insaputa i carabinieri lo intercettavano. Mandalà riferiva a Castello l’esito di un burrascoso incontro con il ministro Enrico La Loggia, allora capo dei senatori di Forza Italia. Mandalà era infuriato per non avere ricevuto una telefonata di solidarietà dopo l’arresto del figlio (poi scagionato per un omicidio di mafia). E così raccontava di avere chiuso il suo colloquio con La Loggia: «Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche tuo padre che io me lo ricordo quando con lui andavo a cercargli i voti da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga. Lo posso sempre dire che tuo padre era mafioso. A quel punto lui si è messo a piangere». La Loggia ha ammesso l’incontro ma ne ha raccontato una versione ben diversa. E anche Mandalà al processo ha parlato di millanteria. Nella stessa conversazione intercettata Mandalà parlava di Schifani in questi termini: «Era esperto a 54 milioni all’anno, qua al comune di Villabate, che me lo ha mandato il senatore La Loggia».
Schifani è stato sentito dalla Procura e, senza falsa modestia ha spiegato con la sua bravura la consulenza e lo stipendio: «Il mio studio è uno dei più accreditati in campo urbanistico in Sicilia». Ma per La Loggia sotto sotto c’era una raccomandazione: «Parlai di Schifani con Gianfranco Micciché (coordinatore di Forza Italia in Sicilia) e dissi: sta sprecando un sacco di tempo e quindi avrà dei mancati guadagni facendo politica.
Vivendo lui della professione di avvocato dico se fosse possibile fargli trovare una consulenza. È un modo per dirgli grazie. E allora parlammo con il sindaco Navetta». Il sindaco Navetta è il nipote di Mandalà e il suo comune è stato sciolto per mafia nel 1998.
Il capogruppo di Forza Italia è stato sfortunato anche nella scelta dei suoi assistiti. Proprio un suo ex cliente recentemente ne ha fatto il nome in tribunale. La scena è questa: Innocenzo Lo Sicco, un mafioso pentito, il 26 gennaio del 2000 entra in manette in aula a Palermo e viene interrogato sulla vicenda di un palazzo molto noto in città, quello di Piazza Leoni. Le sue parole fanno balenare pesanti sospetti: «L’avvocato Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi perché, così mi disse, fecero una sanatoria e lui era riuscito a farla pennellare sull’esigenza di quegli edifici. Era soddisfattissimo. Perché lo diceva a me? Ma perché io lo avevo messo a conoscenza di qual era la situazione, l’iter, le modalità del rilascio della concessione...».
La Procura dopo aver analizzato le parole del pentito non ha aperto alcun fascicolo per la genericità del racconto. Comunque la storia di questo palazzo, scoperta dal giornalista de "la Repubblica" Enrico Bellavia, è tutta da raccontare. Comincia alla fine degli anni Ottanta quando Pietro Lo Sicco, imprenditore finanziato dalla mafia e zio di Innocenzo, mette gli occhi su un terreno a due passi dal parco della Favorita, una delle zone più pregiate di Palermo. Lo Sicco vuole costruirci un palazzo di undici piani ma prima bisogna eliminare due casette basse che appartengono a due sorelle sarde, Savina e Maria Rosa Pilliu, che non vogliono svendere.
Pietro Lo Sicco le minaccia e le sorelle si rivolgono alla polizia. Ma la mafia è più lesta della legge: Lo Sicco ottiene la concessione edilizia grazie a una mazzetta di 25 milioni di lire e comincia ad abbattere l’appartamento a fianco. Quando le sorelle vedono avvicinarsi il bulldozer cominciano ad arrivare nel loro negozio i fusti di cemento. Il messaggio è chiaro: finirete lì dentro. Lo Sicco smentisce di essere il mandante ma la Procura offre alle Pilliu il programma di protezione. Oggi le sorelle sono un simbolo dell’antimafia: vivono proprio nel palazzo costruito da Lo Sicco e confiscato dallo Stato. Il costruttore è stato condannato a 2 anni e otto mesi per truffa e corruzione a cui si sono aggiunti sette anni per mafia.
All’inaugurazione del nuovo negozio costruito grazie al fondo antiracket, il senatore Schifani non c’era. Era dall’altra parte in questa vicenda. Il suo studio ha difeso l’impresa Lo Sicco davanti al Tar. Il pentito Innocenzo Lo Sicco, ha raccontato che lui stesso accompagnava l’avvocato Schifani negli uffici per seguire la pratica. Certo all’epoca l’imprenditore non era stato inquisito e il senatore non poteva sapere con chi aveva a che fare anche se il genero di Lo Sicco era sparito nel 1991 per lupara bianca. In quegli stessi anni Schifani assisteva anche altri imprenditori che sono incappati nelle confische per mafia, come Domenico Federico, prestanome di Giovanni Bontate, fratello del vecchio capo della cupola Stefano. Un settore quello delle confische che il senatore non ha dimenticato in Parlamento. Quando ha presentato un progetto di legge (il numero 600) per modificare la legge sulle confische e sui sequestri.
(ha collaborato Giuseppe Lo Bianco)
---
"Schifani disse a La Loggia: ‘senti Enrico, dovresti telefonare a Nino Mandalà, perché ha detto che a Villabate Gaspare Giudice non ci deve mettere piede... e quindi c’è la possibilità di recuperare Nino Mandalà, telefonagli’. Il mafioso è quasi divertito. Tanta confusione intorno al suo nome in fondo lo fa sentire importante. Alzare la voce con i politici è sempre un sistema che funziona. E, secondo lui, anche Renato Schifani ne sa qualcosa. Dice Mandalà: ‘Simone, hai presente che Schifani, attraverso questo [il candidato di Misilmeri]... aveva chiesto di avere un incontro con me, se potevo riceverlo. E io gli ho detto no, gli ho detto che ho da fare e che non ho tempo da perdere con lui. Quindi, quando ha capito che lui con me non poteva fare niente, si è rivolto al suo capo Enrico La Loggia che, secondo lui, mi dovrebbe telefonare. Ma vedrai che lui non mi telefonerà. Mi può telefonare che io, una volta, l’ho fatto piangere?
Nell’auto di Simone Castello la domanda del boss di Villabate è seguita da qualche secondo di silenzio. Poi le microspie dei carabinieri registrano la storia di un’amicizia tradita. Una storia di mafia in cui i capibastone minacciano e i politici, terrorizzati, chiedono piangendo perdono.
Mandalà la narra con astio, tutta d’un fiato. Torna con la mente al 1995, l’anno in cui suo figlio Nicola era stato arrestato per la prima volta.
Accusa La Loggia di averlo lasciato solo, di averlo ‘completamente abbandonatoì, forse nel timore che qualcuno scoprisse un segreto a quel punto divenuto inconfessabile: lui e Nino Mandalà non solo si conoscevano fin da bambini, ma per anni erano anche stati soci, avevano lavorato fianco a fianco in un’agenzia di brokeraggio assicurativo.
‘Non mi aspettavo che dovesse fare niente, che dovesse fare dichiarazioni alla stampa, ma almeno un messaggio, ‘ti do la mia solidarietà’, [mr lo poteva mandare]. Stiamo parlando di un rapporto che risale alla notte dei tempi, quando eravamo tutti e due piccoli - lui è più piccolo di me - [nemmeno] mi ricordo quando ci siamo conosciuti. [Ma] suo padre... era mio padre, lui era un cristiano con i cazzi, non [come] questo pezzo di merda... [Poi siamo stati] soci in affari perché abbiamo avuto assieme una società di brokeraggio assicurativo, lui presidente e io amministratore delegato. [Andavamo] in vacanza assieme...’ Il portaordini di Provenzano cerca d’interromperlo, sembra voler tentare di calmarlo: ‘Va bene, magari è il presidente [dei senatori di Forza Italia e non si può esporre]...’
‘D’accordo, però, dico, in una situazione come questa... Dio mio mandami un messaggio. [Poteva farlo attraverso] ‘sto cornuto di Schifani che [allora] non era [ancora senatore], [ma faceva] l’esperto [il consulente in materie urbanistiche] qua al Comune di Villabate a 54 milioni [di lire] l’anno. Me lo aveva mandato [proprio] il signor La Loggia. Lui [Schifani] mi poteva dire, mi chiamava e mi diceva: ‘Nino vedi che, capisci che non si può esporre però è con te, ti manda [i saluti]’. No, e invece non solo non mi manda [a dire] niente lui, ma Schifani...’
‘Dice che non ti conosce...’
‘Schifani, quando quelli là in Forza Italia, gli chiedono ‘ma che è successo all’amico tuo, al figlio dell’amico tuo’ risponde ‘amico mio?...no, manco lo conosco, lo conosco a mala pena’. [Così] il signor Schifani [quando veniva a Villabate] per motivi di lavoro [la consulenza per il Comune] vedeva a me e, minchia, scantonava, scivolava, si spaventava come se... come se prendeva la rogna, capisci? Poi, un giorno, dopo la scarcerazione di Nicola, [io e La Loggia] ci siamo incontrati a un congresso di Forza Italia. Lui viene e mi dice: ‘Nino, io sai per questo incidente di tuo figlio...’.
Gli ho detto: ‘Senti una cosa, tu mi devi fare una cortesia, pezzo di merda che sei, di non permetterti più di rivolgermi la parola’.
‘Ma Nino, ma è mai possibile che tu mi tratti così?’.
‘E perché come si deve trattare? Perché non è possibile spiegarmelo. Chi sei?’
‘No, ma io non dico questo, ma i nostri rapporti...’
‘Ma quale rapporto.’
‘Senti possiamo fare una cosa, ne possiamo parlare in ufficio da me?’, ‘Si perché no...’ E ci siamo trasferiti in via Duca della Verdura [lo studio di La Loggia].
[...] Da un certo punto di vista l’astio dell’avvocato Mandalà è perfettamente comprensibile. Lui Schifani e La Loggia li aveva sempre considerati degli amici, tanto che erano stati tra gli ospiti importanti del suo secondo matrimonio, avvenuto nei primi anni Ottanta. A quell’epoca Nino Mandalà era appena rientrato in Sicilia da Bologna, dove lavorava nel mondo delle concessionarie d’auto e dove anche suo figlio Nicola era nato. Con loro aveva fondato la Sicula Brokers, una strana società in cui i suoi futuri leader di Forza Italia sedevano fianco a fianco di imprenditori di odor di mafia e boss di Cosa Nostra.
A scorrere le pagine ingiallite di quei documenti societari c’è da rimanere a bocca aperta: la Sicula Brokers viene creata nel 1979 e tra i soci, accanto a Mandalà, La Loggia e Schifani, compaiono i nomi dell’ingegnere Benny D’Agostino, il titolare delle più grandi imprese di costruzioni marittime italiane, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e di Giuseppe Lombardo, l’amministratore delle società di Nino e Ignazio Salvo, i re delle esattorie siciliane arrestati nel 1984 da Giovanni Falcone perché capi della famiglia mafiosa di Salemi.
La Sicula Brokers è insomma una società simbolo di quella zona grigia nella quale, per anni, borghesia e boss hanno fatto affari.
Palermo del resto è sempre stata così: nel dopoguerra i mafiosi erano i campirei dei ricchi, erano gli uomini di fatica ai quali la borghesia e l’aristocrazia delegavano l’amministrazione delle terre e dei beni. Un rapporto quasi simbiotico, spesso caratterizzato da reciproci scambi di favori. Ecco quindi che Benny D’Agostino, il socio di La Loggia, Schifani e Mandalà, viaggia nei primi anni Ottanta in Ferrari con don Michele Greco, il "papa della mafia"; ospita nelle sue proprietà i latitanti; si dedica con i prestanome di Provenzano, come il boss Pino Lipari, al controllo della spartizione degli appalti pubblici. Ecco quindi che il senatore Giuseppe La Loggia, il padre di Enrico, stando al racconto di Mandalà, si presenta da un capomafia come Turiddu Malta per domandare il suo appoggio elettorale.
Un fatto quasi normale per l’epoca, tanto che del sostegno dato da Cosa Nostra a La Loggia senior parlerà anche Nick Gentile, un pezzo da novanta nella Cosa Nostra made in USA, consigliere di Al Capone e Lucky Luciano.
[...] Il problema è che la mafia, al contrario della politica, non dimentica.
Anche a distanza di anni, anzi di decenni, è difficile scrollarsi di dosso certi rapporti, certe antiche relazioni. Ed è difficile anche per Enrico La Loggia che pure, a metà degli anni Ottanta, fa parte come assessore della prima giunta del sindaco Leoluca Orlando e, per diretta ammissione di Nino Mandalà, in quelle vesti risponde di no alle sue richieste di aiuto. Così le vittorie elettorali di Forza Italia nelle zone di Villabate e Bagheria, feudi di Provenzano e della famiglia Mandalà, diventano pericolose.
Francesco Campanella, che osserva quanto accade dalla sua poltrona privilegiata di presidente del consiglio comunale, se ne accorge quasi subito. Nel 1994 l’avvocato Nino Mandalà sbandiera i suoi legami importanti. Se ne fa vanto. Dice a Francesco di avere ‘strettissimi rapporti con il senatore’, gli parla del suo matrimonio al quale anche lui e Schifani avevano partecipato, e Campanella capisce che non mente. Il nuovo segretario comunale viene scelto dal sindaco Navetta su ‘segnalazione di La Loggia’ e la stessa cosa accade con Schifani: ‘I rapporti tra loro erano ancora ottimi durante l’inizio dell’attività politica del Mandalà nel ’94, tant’è vero che La Loggia era il suo riferimento all’interno di Forza Italia [...]; a un certo punto Schifani fu segnalato da La Loggia come consulente e quindi nominato dal sindaco come esperto in materia urbanistica. [...] Le quattro varianti al piano regolatore di cui abbiamo parlato, parco suburbano, la variante commerciale, la viabilità, furono tutte concordate dal punto di vista anche di modulazione, di componimento, insomma dal punto di vista giuridico con lo stesso Schifani’.
[...] Lì Mandalà organizzò tutto per filo e per segno interagendo in prima persona. [...] Mi disse che aveva fatto una riunione con Schifani e con La Loggia e che aveva trovato un accordo per il quale i due segnalavano il progettista del piano regolatore generale, incassando anche una parcella di un certo rilievo [...]. L’accordo, che Mandalà aveva definito con i suoi amici Schifani e La Loggia, era quello di manipolare il piano regolatore, affinché tutte le sue istanze - che poi erano [la richiesta] di variare i terreni dove c’erano gli affari in corso e addirittura di penalizzare quelle della famiglia mafiosa avversaria o delle persone a cui si voleva fare uno sgarbo - fossero prese in considerazione dal progettista e da Schifani [...] Cosa che avvenne, perché poi cominciò questa attività di stesura del piano regolatore e io mi trovai a partecipare a tutte le riunioni che si tennero con lo stesso Schifani, qualche volta allo studio di Schifani e qualche altra volta al Comune. Io [poi] partecipai anche alle riunioni, più tipiche della famiglia mafiosa, in cui Schifani non c’era...’
[...] Il clan di Villabate si butta a capofitto nell’affare. Dal Nord torna il costruttore che se ne era andato dal paese quando era scoppiata la faida con i Montalto. Si mette in società con Nino Mandalà, assieme a lui contatta tutti i proprietari degli appezzamenti di terreno che sarebbero dovuti diventare edificabili e fa loro firmare dei preliminari di vendita. In buona sostanza la mafia si accaparra tutte le zone in cui si potrà costruire. In un incontro con il sindaco Navetta e i due Mandalà, Francesco discute il piano regolatore e ‘gli inserimenti fatti dal progettista con i pareri di Schifani’. Domanda il pubblico ministero [a Francesco Campanella]: ‘Io volevo capire questo: le risulta che Schifani fosse al corrente all’epoca degli interessi di Mandalà in relazione all’attività di pianificazione urbanistica del Comune di Villabate?’
‘Assolutamente sì, il Mandalà mi disse che aveva fatto questa riunione con La Loggia e con lo stesso Schifani e l’accordo era appunto nominare, attraverso loro, questo progettista che avrebbe incassato questa grossa parcella che in qualche modo avrebbe condiviso con lo stesso Schifani e La Loggia [...]’
‘Quindi la parcella non sarebbe andata soltanto al progettista?’
‘No, il progettista era il titolare di un interesse economico che era condiviso dallo stesso Schifani e La Loggia’.
[...] ‘...però rimane da capire, signor Campanella, esattamente in che epoca si collocano o si colloca, se colo una, quella riunione tra Mandalà, La Loggia e Schifani in relazione alla pianificazione urbanistica del Comune di Villabate’.
‘Questa si colloca sicuramente in epoca successiva all’arresto di Mandalà Nicola, nell’epoca in cui stavamo adottando questi atti..."
Niente male: ora Renato Schifani è presidente del Senato, seconda carica della Repubblica. Al momento (chissà come mai?!?) nessuno dei "curriculum" pubblicati dai giornali on line cita questi fatti. Noi li pubblichiamo e ringraziamo ancora una volta i due giornalisti autori del libro "I Complici - tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento", Lirio Abbate e Peter Gomez.
Creato da mariaricciardig
Ultima modifica 2008-05-02 10:29
Scusate il disturbo. Marco Travaglio su Schifani
Scusate il disturbo.
Chiedendo scusa per il disturbo, senza voler guastare questo bel clima di riverenze bipartisan al neopresidente del Senato Renato Schifani, vorremmo allineare qualche nota biografica del noto statista palermitano che ora troneggia là dove sedettero De Nicola, Paratore, Merzagora, Fanfani, Malagodi e Spadolini. Il quale non è omonimo di colui che insultò Rita Borsellino e Maria Falcone (“fanno uso politico del loro cognome”, sic) perché erano insorte quando Berlusconi definì i magistrati “disturbati mentali, antropologicamente estranei al resto della razza umana”: è proprio lui. Non è omonimo dell’autore del lodo incostituzionale che nel 2003 regalò l’impunità alle 5 alte cariche dello Stato, soprattutto a una, cioè a Berlusconi, e aggredì verbalmente Scalfaro in Senato perché osava dissentire: è sempre lui.
L’altroieri la sua elezione è stata salutata da un’ovazione bipartisan, da destra a sinistra. Molto apprezzati il suo elogio a Falcone e Borsellino e la sua dichiarazione di guerra alla mafia. Certo, se uno evitasse di mettersi in affari con gente di mafia, la lotta alla mafia riuscirebbe meglio. Già, perché - come raccontano Abbate e Gomez ne “I complici” (ed. Fazi) - trent’anni prima di sedere sul più alto scranno del Parlamento, Schifani sedeva nella Sicula Brokers, una società di brokeraggio fondata col fior fiore di Cosa Nostra e dintorni. Cinque i soci: oltre a Schifani, l’avvocato Nino Mandalà (futuro boss di Villabate, fedelissimo di Provenzano); Benny D’Agostino (costruttore amico del boss Michele Greco, re degli appalti mafiosi, poi condannato per concorso esterno); Giuseppe Lombardo (amministratore delle società dei cugini Nino e Ignazio Salvo, esattori mafiosi e andreottiani di Salemi arrestati da Falcone e Borsellino nel 1984). Completa il quadro Enrico La Loggia, futuro ministro forzista.
Nei primi anni 80, Schifani e La Loggia sono ospiti d’onore al matrimonio del boss Mandalà. All’epoca, sono tutti e tre nella Dc. Poi, nel 1994, Mandalà fonda uno dei primi club azzurri a Palermo, seguito a ruota da Schifani e La Loggia. Il boss, a Villabate, fa il bello e il cattivo tempo. Il sindaco Giuseppe Navetta è suo parente: infatti, su richiesta di La Loggia, Schifani diventa “consulente urbanistico” del Comune perché - dirà La Loggia ai pm antimafia - aveva “perso molto tempo” col partito e aveva “avuto dei mancati guadagni”.
Il pentito Francesco Campanella, braccio destro di Mandalà e Provenzano, all’epoca presidente del consiglio comunale di Villabate in quota Udeur, aggiunge: “Le 4 varianti al piano regolatore… furono tutte concordate con Schifani”. Che “interloquiva anche con Mandalà. Poi si fece il piano regolatore generale… grandi appetiti dalla famiglia mafiosa di Villabate. Mandalà organizzò tutto in prima persona. Mi disse che aveva fatto una riunione con Schifani e La Loggia e aveva trovato un accordo: i due segnalavano il progettista del Prg, incassando anche una parcella di un certo rilievo. L’accordo che Mandalà aveva definito coi suoi amici Schifani e La Loggia era di manipolare il Prg, affinché tutte le sue istanze - variare i terreni dove c’erano gli affari in corso e penalizzare quelli della famiglia mafiosa avversaria - fossero prese in considerazione dal progettista e da Schifani… Il che avvenne: cominciò la stesura del Prg e io partecipai a tutte le riunioni con Schifani” e “a quelle della famiglia mafiosa, in cui Schifani non c’era”.
Domanda del pm: “Schifani era al corrente degli interessi di Mandalà nell’urbanistica di Villabate?”. Campanella: ”Assolutamente sì. Mandalà mi disse che aveva fatto questa riunione con La Loggia e Schifani”. Il tutto avveniva “dopo l’arresto di Mandalà Nicola”, cioè del figlio di Nino, per mafia. Mandalà padre si allontana da FI per un po’, poi rientra alla grande, membro del direttivo provinciale. E incontra Schifani e La Loggia. Lo dice Campanella, contro cui i due forzisti hanno annunciato querela; ma la cosa risulta anche da intercettazioni. Nulla di penalmente rivelante, secondo la Dda di Palermo. Nel ‘98 però anche Mandalà padre finisce dentro: verrà condannato in primo grado a 8 anni per mafia e a 4 per intestazione fittizia di beni. E nel ‘99 il Prg salta perché il Comune viene sciolto per infiltrazioni mafiose nella giunta che ha nominato consulente Schifani. Miccichè insorge: “E’ una vergognosa pulizia etnica”. Ma ormai Schifani è in Senato dal 1996. Prima capogruppo forzista, ora addirittura presidente. Applausi. Viva il dialogo. Viva l’antimafia.
Marco Travaglio - da Ora d'aria, L'Unità, 1 maggio 2008
Inviata mail a Napolitano: Non nomini Bossi ministro
A difesa dell'art.87 della Costituzione (Unità Nazionale)
https://servizi.quirinale.it/webmail/missiva.
Bossi
E invece eccolo lì, in qualità di ministro delle riforme, dopo che Berlusconi aveva dichiarato che, date le sue condizioni di salute, non sarebbe stato nominato.
La corte dei miracoli è pronta ad agire al grido di 'Italia rialzati'
Il guardasigilli Angelino Alfano e per non parlare degli altri!!
Grillo definisce il presidente Napolitano "Morfeo" e direi a ragione. Non c'è nulla di male . Come ha detto Travaglio nella puntata di ieri di Anno Zero, Grillo non ha vilipeso il Presidente forse lo ha denigrato di più Berlusconi che sempre lo ha accusato di essere di parte...
Oggi sulla striscia rossa de "L'Unità" così è scritto in riferimento al giuramento dei ministri leghisti:
"Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la costituzione e per le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione".
Parole pronunciate dai ministri leghisti Umberto Bossi, Roberto Calderoli, Roberto Maroni, Luca Zaia durante la cerimonia del giuramento alla repubblica. Scherzano adesso o scherzavano prima?
Boh!
Eppure Napolitano ha accettato la loro nomina senza dire nulla nè prima nè tanto meno ora così come ha accettato la nomina di Angelino Alfano a Guardasigilli anche se non era proprio tra le sue simpatie.In nome della pace pubblica (diciamo così...)
---------------------------------------------------------
Da "Il manifesto" dell'8 maggio 2008
Alfano il fedele sarà guardasigilli
Gelo del Quirinale. L'Anm tace
Sara Menafra
Roma
Almeno sulla scelta del guardasigilli, il cavalier Silvio Berlusconi non ha ceduto al tira e molla dei partiti della sua coalizione. Ha scelto il giovane, fedele, brillante, e amico di Marcello Dell'Ultri, Angelino Alfano, nato in terra di Sicilia. E pazienza se il presidente della repubblica aveva tanto insistito per una figura di «alto profilo istituzionale».
L'enfant prodige d'azzurro vestito ha bruciato le tappe piuttosto in fretta. A trentotto anni ha già sul petto una medaglia dorata per aver sostituito Gianfranco Miccichè alla guida del partito siciliano, mantenendo la valanga di consensi del suo predecessore e perdippiù riportando l'organizzazione all'unità, dopo la guerra interna fra i sostenitori di Schifani, quelli dello stesso Miccichè e alcune potenti frange locali, come i catanesi di Giuseppe Castiglione. Fin da quando era parlamentare regionale, e certamente dall'arrivo nel 2001 in parlamento, si è legato a doppio filo al leader Silvio Berlusconi, collocandosi nella frangia dei giovani rampanti che mirano alla vetta del partito.
Al Quirinale il nome piace pochissimo, tanto che ancora due giorni fa il presidente ha fatto sapere che sullo scranno più alto di via Arenula avrebbe gradito qualcuno che di giustizia ne sapesse davvero. Meglio se non di Forza Italia. Meglio ancora se non siciliano e non tra i firmatari, nel 2004, della lettera a sostegno del ritorno in politica di Marcello Dell'Utri, diffusa due giorni dopo la sua condanna a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Alfano ce le ha tutte e, anzi, il giorno in cui quella sentenza contro il fondatore di Forza Italia fu letta in aula, disse che la giustizia italiana era proprio «malata».
Rapporti con la mafia, però, Alfano non ne ha mai avuti, o almeno nulla se ne sa. Il suo sito internet è pieno di comunicati contro l'organizzazione che assedia la Sicilia, l'ultimo firmato qualche giorno prima del trionfo elettorale: «I mafiosi sappiano che ogni voto al Pdl sarà usato contro di loro», è il titolo che strappa un sorriso ai malpensanti.
Se è vero che è laureato in giurisprudenza ed ha pure il tesserino da avvocato, neppure gli amici parlano di lui come di un esperto in materia di giustizia. Pare, invece, che Berlusconi l'abbia voluto per portare a termine il proprio programma «riformatore» evitando gli intralci che una figura troppo autonoma - leggi Marcello Pera - avrebbe potuto creargli.
L'Associazione nazionale magistrati, che in tutti questi giorni dei candidati al ministero non ha voluto parlare, si tiene sulle generali. Il segretario, Giuseppe Cascini, dice solo: «Ci confronteremo lealmente con il nuovo ministro della Giustizia così come abbiamo fatto con tutti i Guardasigilli. Chiederemo a breve un incontro sui problemi della giustizia, a partire dalla riforma del processo».
governo
Mi ha stupefatto l'assenza del Ministero della Sanità nel nuovo governo e , in parallelo, la comparsa del Ministero della Semplificazione (Calderoli è il ministro)
Fucili caldi o di carta.
Cara Bruna, il commento del Presidente Napolitano è stato:
«Ho visto che Berlusconi li ha definiti fucili di carta. Questa disputa se siano di carta, se siano caldi o se possano essere di carta e anche caldi non mi appassiona».
Un po' pochino. Ridurre le sconsiderate dichiarazioni del leader della Lega a una questione di passione non mi sembra sufficiente a fugare le inquietudini che suscitano, nè adeguato al ruolo di chi rappresenta le garanzie costituzionali.
Credo che i cittadini democratici abbiano diritto a maggiori rassicurazioni.
E' solo l'inizio
Da "Il Manifesto" del 30 aprile 2008
B&B, sparate d'esordio
Alessandro Robecchi
Non troverete il verbo «zignare» sui vocabolari. Si tratta di una parola di derivazione immaginifico-brianzola che già in passato Berlusconi usò nei confronti della stampa. E spiegò pure: «è il lavoro che fanno le zanzare sul sedere degli elefanti con poco risultato, ma ugualmente fastidioso». Questa volta a «non zignare» dev'essere l'Europa, che spargendo dubbi sul prestito-ponte per Alitalia risulta seccante e fastidiosa. E dunque, per chi s'era scordato e per chi ha la memoria corta, rieccoci al fiero senso dello Stato del padrùn. L'Europa è una zanzara fastidiosa e quanto all'Alitalia, se rompete le palle la faccio comprare alle Ferrovie. Tiè. Con buona pace dei bei discorsi sul debito, sul buco, sulle lacrime e sangue, sul liberismo. Detto da uno che vendette i suoi debiti ed evitò la bancarotta con la «discesa in campo» non può stupire. E comunque, musica per le nostre orecchie: nazionalizzare. Ed ecco il Silvio parastatale che tenta di accollare un nuovo disastro ai conti pubblici, dato che i suoi amici industriali - i famosi fantasmi della cordata strombazzata prima delle elezioni - gli fanno marameo. Senza contare che se anche esistesse - la fantomatica cordata - la pagheremmo comunque noi, in termini di favori economici ai generosi acquirenti di Alitalia, sottoforma - chissà - di aumenti di pedaggi autostradali, favori, contropartite, ecc. ecc. È una cosa che Silvio trova irresistibile: dire l'Etat c'est moi, soprattutto se si tratta di fare il gradasso coi soldi degli altri.
La giornata di ieri sarebbe stata già abbastanza piena così, con quest'impennata del liberista dei puffi, quand'ecco che piombano sulle agenzie Bossi e i suoi «trecentomila martiri», che sarebbero disposti a scendere dalle montagne se qualcuno si opponesse alle riforme. A parte il fatto che i martiri sono martiri dopo il martirio, e non prima, va detto che il numero gli piace: aveva trecentomila fucili, ora ha trecentomila (aspiranti) martiri. Nessuno lo prende troppo sul serio: ogni volta che gli sfugge una scemenza (il che avviene spesso, quasi ogni volta che parla), tutti si affannano a dire che il suo è un linguaggio figurato, che si esprime in modo colorito. Insomma: i suoi per difenderlo gli danno amabilmente del pirla, e tutti annuiscono. E quanto al «Berlusconi deve ubbidire» che gli è sfuggito ieri, rettifica a presa rapida e smentita col turbo: colpa dei giornalisti. Resta il fatto che da ieri è ufficialmente ricominciata la rumba: due talenti a confronto che sembrano fare soltanto colore locale, ma che in realtà dicono esattamente la stessa cosa, che del Paese non gliene frega niente, che tutto quel che si mette sulla loro strada è semplicemente importuno e rompipalle. Che sia l'Europa, che sia un freno ai desideri iperfederalisti, che sia l'economia, o il mercato, che sia la storia (vedi il Dell'Utri ansioso di riscrivere i libri di scuola), che sia la vita della gente, si tratta sempre e solo di ostacoli sul loro cammino. Roma ladrona ammollerà Alitalia sul groppone delle Ferrovie? Che volete che gliene freghi a Bossi di Alitalia, che pur di avere un hub dei poveri a Varese l'ha praticamente uccisa? Altre ne sentiremo. Saranno divertenti, roboanti, esplosive, rumorose. Davvero uno spreco di effetti speciali, se si pensa che per coprire i balbettii di un'opposizione inesistente basterebbe anche parlare sottovoce. E comunque coraggio, gente, prepariamoci: ce n'est qu'un debut.
io, membro delle terribili Grillate Rosse
Cari tutti,
come membro delle temutissime Grillate Rosse, sono a testimoniare dell'altrettanto temuta giornata di scontri e violenze avvenute a suon di firme (migliaia: una vera carneficina) durante la giornata di Venerdi 25 aprile 2008 in Piazza S. Carlo, a Torino: giornata anche nota, desormais , sotto il nome de L' Eccidio del V 2 day
Da ormai quasi tre anni faccio parte degli Amici di Beppe Grillo di Torino ( www.beppegrillo.meetup.com/13): sono infatti fra i membri che si iscrissero fra i primi ai 'Meetup' sovente citati da Beppe Grillo.
Come grillina (o meetuppara , come diciamo fra di noi), tante sono le battaglie in cui mi sono cimentata insieme ai miei compagni metuppers , con sincera passione, non ultima quella per una vera Class Action, sostenuta a suo tempo anche dalla stessa Franca Rame.
Non sono di certo mancati, nè mancano nel mio ed in altri casi, fasi di atteggiamento critico nei confronti di Grillo e delle sue scelte. Siamo ormai gruppi nettamente separati ed auto-determinati, creature in grado di operare scelte al di là di quelle specifiche del Mahatma Giuseppe Grillo detto Beppe.
Durante le 17 ore non-stop di lavoro volontario ,con doppio salto del pasto, ho potuto vedere sfilare davanti ai nostri banchetti MIGLIAIA e MIGLIAIA di persone, di ogni età e genere, residenti in Italia oppure all'estero, neomaggiorenni ed ultrasettantenni, uomini e donne, tutti disposti a fare ore di fila per tre sole, minuscole firmette.
Un popolo educato e riconoscente, colorato ma rispettoso e -stupore- anche piuttosto consapevole.
Ecco, io vorrei ringraziare questo popolo colorato e senza nome, lì, a sfatare una volta per sempre il cliché dell'italiano qualunquista.
VI ASSICURO, inoltre, che al numero di 50.000 CI SI POTEVA ARRIVARE SOLTANTO A VOLERLI CONTARE UNO OGNI TRE.
Sarà che il sopraccitato giornalista di Repubblica aveva il singhiozzo.
Sarina - Torino
[Sara Masciari Mautino]
RIECCO I FASCISTI!
dal sito www.radicalsocialismo.it
il Prof Iacchini di Fano ci informa:
I giovani della Rete Antifascista della provincia di Pesaro e Urbino (che tra parentesi invito a intervenire qui nel forum!) hanno realizzato un "Libro Bianco" che elenca l'escalation preoccupante delle violenze fasciste in questa provincia delle Marche, e tra l'altro dopo l'uscita della pubblicazione, si sono verificati altri attentati alle sedi antifascistem come il centro sociale di Pesaro, che ha visto numerosi tentativi di aggressione, episodi di vandalismo, attacchi ai suoi frequentatori, eccetera.
Il libro documenta gli episodi accaduti negli ultimi anni, tra cui l'aggressione ai danni di uno studente del Liceo Nolfi (tra l'altro un mio studente, che frequenta attualmente l'ultimo anno del Liceo Classico), attaccato da un gruppetto neonazista proprio davanti alla porta della scuola durante la ricreazione, in quanto colpevole di indossare una maglietta con la scritta "Antifascista (tolleranza zero)".
In precedenza, sempre a Fano, erano stati aggrediti due giovani esponenti degli allora Ds, e si moltiplicavano episodi di provocazioni e molestie all'uscita dei bar e perfino all'interno dei locali, da parte di estremisti di destra spesso bardati di tutto punto (gli aggressori del campus scolastico avevano stivali con punte di ferro, e il mio alunno è stato colpito con un calcio al torace).
Il Libro Bianco si conclude con l'invito a denunciare qualsiasi episodio di violenza, e con la riproposizione di un passo del celebre discorso agli studenti di Piero Calamandrei (1955):
"Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione".
Fabio Greggio
Movimento RadicalSocialista
Ostia, fascisti distruggono targa fosse Ardeatine
Ostia, fascisti
distruggono
la targa che ricorda
le fosse Ardeatine
La targa commemorativa delle vittime delle Fosse Ardeatine, collocata in piazza della Stazione Vecchia ad Ostia, quartiere del litorale di Roma, è stata fatta a pezzi con un grosso martello. Pochi dubbi sugli autori dell'atto di vandalismo: sopra alla targa è stato scritto, con la vernice, «Il popolo di Ostia inneggia al Duce». «Un gesto ignobile che provoca rabbia e indignazione e a tutti coloro che hanno dato la vita per liberare questo Paese dal nazifascismo». E' stato il commento di Ivano Peduzzi, capogruppo del Prc alla Regione Lazio che si è detto preoccupato per il moltiplicarsi di questi episodi di violenza.
29/04/2008
http://www.liberazione.it/
IL caso di Verona . Criminalità non solo da importazione
da l'Unità di lunedì 5 maggio 2008
L'odio per la diversità
Nando Dalla Chiesa
E ora? Ora che dirà chi in questi mesi ci ha dipinto un mondo in bianco e nero, ci ha raccontato la violenza a gogo nelle città governate dalla sinistra, con gli immigrati forniti di licenza di spadroneggiare nelle vesti di rapinatori o stupratori? A Verona un ragazzo è stato ridotto in fin di vita da un branco di ventenni per una sigaretta rifiutata. E in questo episodio, via via che se ne chiarisce il contesto, si concentra una quantità di informazioni in grado di mettere in crisi gli stereotipi di mesi di informazione drogata. Dov'è, dunque, che la vita vale poco?
Se tempo fa l'opinione pubblica era stata sconvolta dalla notizia che nell'hinterland napoletano, in piena Gomorra, un ragazzo era stato ucciso a coltellate per rubargli il motorino, qua nella ricca e civilissima Verona un ragazzo è moribondo per una ragione ancora più futile: il rifiuto di una sigaretta chiesta chissà con che toni e con che intenzioni. E ancora. Quali etnie esprimono una assoluta assenza di freni nel delinquere? Se in più occasioni ha fatto comprensibilmente impressione la selvaggia violenza con cui hanno agito le bande slave durante le rapine in villa nel nord Italia o sull'Appennino, altrettanta impressione fa la selvaggia violenza di questo branco veronese, che sembra avere avuto per culla benedicente il tifo ultrà cittadino e le sue bande impunite.
Insomma: l'aggressione di gruppo è stata compiuta da italiani che (così dicono i testimoni) parlano il dialetto veneto; in una città di quel nord-est che reclama da sempre ordine e tolleranza zero contro la violenza degli immigrati; mentre il retroterra culturale è, per ciò che gli investigatori hanno appurato, quello della stessa estrema destra che, a furia di saluti romani, promette al paese di ridargli la agognata sicurezza, di restituire ai cittadini il diritto di camminare sicuri per le strade. L'estrema destra che presidia le curve, che manifesta con il Veneto Fronte Skinheads e che a Verona è giunta con tutti gli onori in consiglio comunale, parte della nuova maggioranza.
Sia chiaro, giusto per non lasciare margine agli equivoci. Quello che è accaduto a Verona poteva accadere in qualsiasi città italiana, visto il livello di violenza potenziale che scorre impaziente sotto la pelle di una società sempre meno capace di controlli e autocontrolli. Né quel che è accaduto può ragionevolmente essere imputato al sindaco Tosi e alla sua giunta. Occorre cioè evitare un gioco al massacro speculare a quello in cui si è specializzata la destra: attribuire per definizione ai sindaci gli episodi di violenza che si verificano nelle città governate dalla sinistra, facendo del dibattito sulla sicurezza una specie di maionese impazzita. Con tanti saluti alla serietà richiesta da quello che viene comunque rappresentato come il primo e più urgente dei problemi italiani.
Oggi Verona ci consegna una realtà assai diversa, terribilmente più complessa, senz'altro più inquietante di quella imperante nei mesi della campagna elettorale. L'idea che per conquistare più alti livelli di sicurezza si debba guardare solo alla criminalità "da importazione" produce un rischiosissimo strabismo. Non solo perché in questo paese la criminalità organizzata indigena è tuttora viva e vegeta, nonostante i molti colpi subiti. E il suo stato di salute non può lasciare tranquillo proprio nessuno. Ma anche perché si coglie sempre più una violenza diffusa, molecolare, che tende a insinuarsi con capacità espansive in molte pieghe ed enclaves sociali.
Basti pensare al tifo ultrà, e alla sua capacità offensiva verso le istituzioni e verso le persone. Un tifo mai perseguito e mai punito sul serio, e che trova i suoi momenti epico-simbolici nell'omicidio Raciti o nell'assalto di massa compiuto pochi mesi fa a Roma contro le stesse caserme delle forze dell'ordine (cosa mai accaduta neanche ai tempi della contestazione più dura). E' stupefacente che quando si parla di sicurezza e di legalità questo capitolo (che fra l'altro presenta da anni proprio a Verona una delle punte di maggiore allarme) non venga mai affrontato. Ma si pensi ancora alla quantità di ferimenti e omicidi che si verificano con regolarità impressionante nei pressi delle discoteche, con protagonisti (alla pari, si direbbe) italiani e immigrati, quasi che nella società del divertimento si siano realizzate autentiche zone franche dal diritto. Oppure si pensi al fenomeno del bullismo delle scuole e fuori dalle scuole. O alla estrema facilità con cui si mette in gioco la vita degli altri, oltre che la propria, sulle strade, e non solo di notte.
Ecco, chi scrive non indulge a descrizioni catastrofiche dello scenario nazionale quando parla di sicurezza. Sa che certi reati (spesso i più gravi) sono da tempo in discesa. Ma sa anche che altri (non secondari) sono in aumento, e che questo produce, in termini di paura, un impatto tanto più forte quanto più invecchia la popolazione e quanto più i mezzi di informazione ci fanno apparire vicino un delitto avvenuto in aree lontane, e di cui un tempo mai avremmo nemmeno sentito parlare. E dunque coglie e osserva con preoccupazione le molte correnti criminogene che percorrono una società aperta e precaria, ricca e diseguale, snervata dei propri valori e continuamente sospinta verso l'ammirazione acritica del denaro e della forza.
Ma, appunto, una cosa bisogna sapere: queste correnti sono molte. E' lecito allora, è utile nasconderne alcune dietro lo scudo ideologico del pregiudizio razziale, concentrare l'allarme sociale solo sulle voci che fomentano il razzismo? Così come non è responsabile (e purtroppo lo si è fatto...) negare la presenza di una temibile criminalità da immigrazione, altrettanto non è responsabile usare quella criminalità per esorcizzare "tutto il resto". Per esorcizzare quel che ci è scomodo vedere, a partire da questi "nostri giovani" un po' esuberanti -avranno bevuto un po' o saranno stati provocati-, e investire invece politicamente sulla paura per il diverso, che sia nomade o immigrato. Anche perché, a seguire questa strada, potrebbe accadere che la stessa vittoria elettorale, perfino a dispetto dei vincitori, dia alla testa di chi pensa che sia finalmente suonata l'ora del "liberi tutti". Che sia arrivato il momento in cui è consentito essere un po' "scavezzacolli". Se la sinistra ha i suoi limiti nell'affrontare il tema della sicurezza, la destra ha i propri. Che non pesano di meno. E non è detto che non siano più densi di pericoli.
www.nandodallachiesa.it
Nicola Tommasoli
Nicola Tommasoli è stato dichiarato morto dai medici dell'ospedale di via Trento a Verona. Cinque ragazzi che picchiano a morte un coetaneo e , come succede sempre nei casi di omicidio, per motivi futili.Una sigaretta negata o un'immagine lontana e invisa ai picchiatori.
Per quanto tempo tantissimi italiani dovranno ancora vivere di immagini senza rendersi conto della violenza insita in quello che viene definito 'immaginario'?
Nicola è morto
Spiace per lui, morto in modo assurdo a 29 anni.
Fa pensare la giovane età degli assassini, fa pensare che dei ragazzi così giovani abbiano un tale dispregio della vita umana: quella degli altri e la loro stessa vita.
Fanno del male agli altri ma anche a sè stessi.
Buttano via la loro giovane vita inseguendo idee di morte, di violenza, di sopraffazione e non si rendono conto che la vita può essere vissuta in modo diverso,in modo solidale, luminoso e sorridente.
Spiace per la sua famiglia e per le famiglie degli assassini. E' una tragedia umana profonda. Dalla morte di Nicola, delle vite potranno continuare a vivere (i suoi organi sono stati donati) e forse e spero che, dalla sua morte, quei giovani assassini potranno iniziare a guardare la loro stessa vita in modo diverso, più profondo, più vero.
Che tristezza!!!
ragazzi "di buona famiglia" e vuoto umano e culturale
Penso che la sciagurata violenza di cui si sono resi responsabili i ragazzi "di buona famiglia" di Verona origini da un grande vuoto umano e culturale di cui, sebbene non esistano giustificazioni per chi se ne rende interprete, la società tutta dovrebbe interrogarsi. La brutalità con cui costoro hanno commesso questo delitto non trova motivo in nessuna aberrazione ideologica, religiosa, o etnica, ma appare come l'insensato tentativo di colmare un vuoto interiore attraverso l'affermazione violenta, un'affermazione personale che passa dalla negazione "dell'altro" e che ha bisogno di un "altro" da discriminare e da aggredire per sentire di esistere. Trovo che questo sia ancora più allarmante e che metta in rilievo come il disprezzo e la trascuratezza per la cultura e per gli ideali, l'affermazione della superficialità e il culto dell'apparenza generino mostri incontrollabili, partoriti dal ventre della nostra stessa contraddittoria e smarrita civiltà.
Ferme restando le responsabilità personali dei soggetti che si sono macchiati di questo inqualificabile assassinio, dovremmmo cogliere questo segnale di allarme prima che altre vittime debbano pagare la scelleratezza del vuoto di ideali che la nostra società sta vivendo.
Oggi ha pagato con la vita Nicola Tommasoli.
violenza
C'è un bel libro di James Hillman, 'Un terribile amore per la guerra' in cui, a un certo punto, cita Re Lear : "Noi siamo per gli dei come mosche per i monelli/ ci uccidono per divertimento" e più avanti dice 'La guerra in quanto tale rimarrà, finchè gli dei stessi non se ne andranno'.
E' ancora e sempre un problema di immagini, idoli e ideali, non di un vuoto.
E... veniamo a Fini e ai politici
www.unita.it
Nicola è morto. Per Fini sono peggio le bandiere bruciate
Verona, confessano altri due naziskin
Nicola Tommasoli non ce l'ha fatta. I medici sono stati costretti a decretare la sua morte cerebrale. Gli organi saranno espiantati e offerti al trapianto. Neanche il tempo di ricevere la notizia e la terza carica dello Stato si lancia in assurdi paragoni. Per il presidente della Camera Gianfranco Fini, le bandiere bruciate sono peggio, molto peggio, di un ragazzo ammazzato a calci da un branco di naziskin.
Verona contro Torino. A questo è servita la morte di Nicola. Certo, sostiene, l'aggressione del branco neonazista e le proteste di frange della sinistra radicale sulla presenza ufficiale di Israele alla Fiera del Libro di Torino sarebbero «due fenomeni non paragonabili». Però «quel gruppo neonazista va preso, messo in galera e rieducato, non ci può essere nessun tipo di solidarietà», mentre «l'episodio di Torino è molto più grave perché non è la prima volta che frange della sinistra radicale danno vita ad azioni contro Israele che cercano di giustificare con una politica antisionista».
Per essere più chiari, almeno secondo la visione comparativa di Fini: «La violenza che c'è in alcune frange della società nei confronti dello Stato di Israele è una violenza di tipo politico ideologico». Gravissima dunque. E non che «i naziskin non avessero una distorta ideologia nazista nella testa», però quelli «sono dei pazzi criminali». Il che, evidentemente, renderebbe il tutto molto meno grave.
Per il segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, l'atteggiamento di Fini è «molto sbagliato. Io sono dell'idea che non bisogna mai stabilire priorità su questi temi. Sono due fatti diversi: nel primo caso c'è una vita spezzata ed è molto grave, sottovalutarlo sarebbe un errore molto serio».
Dure reazioni da sinistra. Per Jacopo Venier (Pdci) «nel momento in cui tutti dovrebbero piangere la morte di un ragazzo, assistiamo invece ad una serie di basse speculazioni politiche». Fini, secondo l'esponente dei Comunisti italiani, assolve i picchiatori fascisti e si prepara a scatenare nuove repressioni violente come quelle che egli comandò a Genova nel 2001». Per il ministro di Rifondazione comunista Paolo Ferrero «quelle di Fini sono parole incredibili e indegne di chi occupa un ruolo istituzionale di quel peso»
Dal neo presidente della Camera, comunque, nessun passo indietro. Fini incassa le polemiche, che difficilmente poteva non aver preventivato. E di fronte alle critiche ringhia: «Non si lamentino quelli della sinistra se sono fuori dal Parlamento, sono portatori di posizioni non dico estremiste ma minoritarie tanto da non raggiungere il quorum per essere presenti in Parlamento».
Naomi Klein: shock economy
Naomi Klein: Shock Economy
Introduzione
Il fascino della tabula rasa.
Tre decenni passati a cancellare e rifare il mondo
Ho iniziato a studiare il fenomeno della dipendenza del libero mercato dal potere dello shock quattro anni fa, nei primi giorni di occupazione dell’Iraq. Dopo aver fatto la corrispondente da Baghdad, dove avevo raccontato dei falliti tentativi di Washington di far seguire alla dottrina Shock and Awe la shockterapia, sono andata in Sri Lanka, diversi mesi dopo il catastrofico tsunami del 2004, e lì ho assistito a un’altra versione della stessa manovra: gli investitori stranieri e i prestatori internazionali si erano uniti allo scopo di sfruttare l’atmosfera di panico per consegnare l’intero litorale a imprenditori che vi costruirono grandi villaggi turistici, impedendo a centinaia di migliaia di pescatori di ricostruire le loro case vicino al mare. «Con un crudele rovescio di fortuna, la natura ha offerto allo Sri Lanka un’opportunità unica, e da questa grande tragedia sorgerà un importante polo del turismo internazionale» annunciò il governo dello Sri Lanka. Quando poi l’uragano Katrina colpì New Orleans, e la pletora di politici conservatori, think tanks e imprenditori edili iniziarono a parlare di tabula rasa e fantastiche opportunità, fu chiaro che il metodo privilegiato per imporre gli obiettivi delle grandi imprese, adesso, era quello di usare i momenti di trauma collettivo per dedicarsi a misure radicali di ingegneria sociale ed economica.
La maggior parte dei sopravvissuti a un disastro devastante vuole ben altro che una tabula rasa: vogliono salvare il salvabile e iniziare a riparare ciò che non è stato distrutto, vogliono riaffermare il proprio legame con i luoghi in cui sono cresciuti. «Mentre ricostruisco la città mi sembra di ricostruire me stessa» diceva Cassandra Andrews, residente della Lower Ninth Ward, una delle zone più colpite di New Orleans, mentre spazzava via i detriti. Ma i fautori del capitalismo dei disastri non hanno interesse a restaurare ciò che era prima. In Iraq, nello Sri Lanka e a New Orleans, la «ricostruzione» iniziò portando a compimento il lavoro svolto dal disastro, spazzando via cioè quanto rimaneva della sfera pubblica, per poi rimpiazzarlo in tutta fretta con una specie di Nuova Gerusalemme aziendale: il tutto prima che le vittime del disastro naturale fossero in grado di coalizzarsi e reclamare ciò che spettava loro di diritto.
Mike Battles l’ha espresso nel modo migliore: «Per noi, la paura e il disordine offrivano promesse concrete». Il trentaquattrenne ex agente segreto della Cia parlava di come il caos nell’Iraq post-invasione avesse aiutato la sua sconosciuta agenzia di sicurezza privata, la Custer Battles, a ricevere circa cento milioni di dollari in contratti governativi. Le sue parole potrebbero fungere da slogan per il capitalismo contemporaneo: paura e disordine sono i catalizzatori per ogni nuovo balzo in avanti.
Quando ho iniziato questa ricerca sull’intersezione tra superprofitti e megadisastri, pensavo di essere di fronte a una mutazione fondamentale del modo in cui la spinta a «liberare» i mercati si faceva strada in tutto il mondo. Sono stata parte attiva del movimento no global che fece il suo debutto mondiale a Seattle nel 1999, e quindi ero abituata a vedere questo genere di politiche, imposte facendo pressioni ai summit dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), o come clausole dei prestiti del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le tre richieste tipiche – privatizzazione, deregulation e sostanziosi tagli alla spesa sociale – erano di solito molto malviste dai cittadini; ma quando si firmavano gli accordi c’era almeno il pretesto di un’intesa tra i governi che gestivano i negoziati, oltre al consenso tra i presunti esperti. Ora, lo stesso programma ideologico veniva imposto con i mezzi più apertamente coercitivi: sotto un’occupazione militare straniera in seguito a un’invasione, o subito dopo un cataclisma naturale. L’11 settembre sembra aver concesso a Washington il via libera per smettere di chiedere ai Paesi se desiderano la versione americana di «economia di mercato e democrazia» e iniziare a imporla con la forza militare dello Shock and Awe.
Approfondendo la storia della diffusione su scala planetaria di questo modello di mercato, tuttavia, mi sono resa conto che l’idea di sfruttare crisi e disastri era stato fin dall’inizio il modus operandi del movimento promossa da Milton Friedman: il fondamentalismo capitalista ha sempre avuto bisogno dei disastri per imporsi. Certo, i disastri stessi erano sempre più grandi e scioccanti; ma ciò che stava accadendo in Iraq e a New Orleans non era un’invenzione nuova, post-11 settembre. Piuttosto questi esperimenti di sfruttamento delle crisi costituivano il culmine di tre decenni di stretta osservanza della dottrina dello shock.
Visti attraverso la lente di questa dottrina, gli ultimi trentacinque anni hanno un aspetto molto diverso. Alcune delle più drammatiche violazioni dei diritti umani nella nostra epoca, usualmente considerate semplici atti di sadismo compiuti da regimi antidemocratici, in realtà sono state commesse con l’intento deliberato di terrorizzare l’opinione pubblica allo scopo di preparare il terreno per l’introduzione di «riforme» radicali in senso liberista. In Argentina negli anni Settanta, la «sparizione» di trentamila persone – molte delle quali attivisti di sinistra – a opera della junta fu un passo essenziale per l’imposizione di politiche ispirate alla Scuola di Chicago, esattamente come il terrore era stato complice della stessa metamorfosi in Cile. In Cina nel 1989, lo shock del massacro di piazza Tienanmen, e gli arresti di decine di migliaia di persone che seguirono, permisero al partito comunista di trasformare gran parte del Paese in una tentacolare zona di libera esportazione, popolato da lavoratori troppo spaventati per rivendicare i loro diritti. In Russia nel 1993, Boris Eltsin decise di inviare carri armati per appiccare il fuoco agli edifici del Parlamento e di chiudere in carcere i leader dell’opposizione: fu questo a spianare la strada per la privatizzazione a prezzi di saldo che fece nascere i famigerati oligarchi di quel Paese.
La guerra delle Falkland nel 1982 servì a uno scopo simile per Margaret Thatcher in Gran Bretagna: il disordine e il fervore nazionalista scaturiti dalla guerra le consentirono di usare una straordinaria durezza per sconfiggere i minatori in sciopero e accendere la prima frenesia di privatizzazioni in una democrazia occidentale. L’attacco Nato a Belgrado nel 1999 creò le condizioni per repentine privatizzazioni nell’ex Jugoslavia: un obiettivo che risaliva a prima della guerra. Il fattore economico ovviamente non fu l’unica causa di queste guerre ma, in ciascuno di questi casi, un grande shock collettivo fu sfruttato per preparare il terreno alla shockterapia economica.
Gli episodi traumatici che hanno assolto questa funzione di indebolimento non sono sempre stati apertamente violenti. In America Latina e in Africa negli anni Ottanta, fu una crisi di indebitamento a obbligare i Paesi alla scelta tra «privatizzazione o morte», per usare le parole di un funzionario del Fmi. Messi in ginocchio dall’iperinflazione, e solitamente troppo indebitati per opporsi alle pretese che accompagnavano i prestiti stranieri, i governi accettarono un trattamento shock con la promessa che ciò li avrebbe salvati da un disastro ben peggiore. In Asia, fu la crisi finanziaria del 1997-98 – paragonabile, per gli effetti devastanti, alla Grande depressione – a trasformare, aprendo a forza i loro mercati, le cosiddette Tigri asiatiche in quella che il «New York Times» ha definito «la svendita per cessata attività più grande del mondo».Molti di questi Paesi erano democrazie, ma le radicali trasformazioni economiche non sono state imposte democraticamente. Al contrario: come Friedman aveva ben compreso, l’atmosfera generale di crisi forniva il necessario pretesto per ignorare i desideri espressi dagli elettori e consegnare il Paese a economisti «tecnocrati».
Naturalmente, ci sono stati casi in cui l’adozione di politiche liberiste ha avuto luogo in modo democratico: si sono visti politici vincere le elezioni con programmi intransigenti, e gli Stati Uniti di Ronald Reagan ne sono l’esempio migliore; un caso più recente è quello dell’elezione di Nicolas Sarkozy in Francia. In questi casi, tuttavia, i crociati del libero mercato hanno incontrato la pressione dell’opinione pubblica e sono stati obbligati a temperare e modificare i loro piani economici radicali, accettando cambiamenti parziali al posto di una conversione totale. Il punto cruciale è che il modello economico di Friedman può essere parzialmente imposto in una democrazia, ma per attuarlo in tutta la sua portata ideale sono richieste condizioni di natura autoritaria. Perché la shockterapia economica potesse essere applicata senza vincoli – come lo fu in Cile negli anni Settanta, in Cina negli Ottanta, in Russia nei Novanta e negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 – è sempre stato necessario un qualche ulteriore grosso trauma collettivo che sospenda temporaneamente o sopprima completamente le consuetudini democratiche.
Questa crociata ideologica ha visto la luce nei regimi autoritari del Sudamerica, e nei suoi più ampi territori di ultima conquista – Russia e Cina – coesiste ancora oggi, in tutta serenità e generando grandi profitti, con una leadership dal pugno di ferro.
La tortura come metafora
Dal Cile alla Cina all’Iraq, la tortura è stata un partner silenzioso nella rivoluzione liberista globale. La tortura, però, è ben più che uno strumento utile per imporre scelte politiche indesiderate a chi si ribella: è anche una metafora della logica alla base della dottrina dello shock.
La tortura – o, nel linguaggio della Cia, l’«interrogatorio coercitivo» – è un insieme di tecniche pensate per indurre nei prigionieri uno stato di assoluto disorientamento e shock, allo scopo di obbligarli a fare concessioni contro la loro volontà. La logica di fondo è resa esplicita in due manuali della Cia, desecretati nei tardi anni Novanta. In essi si spiega che per piegare le «fonti che oppongono resistenza» bisogna creare rotture violente tra i prigionieri e la loro capacità di dare senso al mondo che li circonda. In primo luogo, si elimina ogni input sensoriale (con cappucci in testa, tappi alle orecchie, manette, isolamento totale), poi si bombarda il corpo con stimoli estremi (luci stroboscopiche, musica a tutto volume, percosse, elettroshock).
Lo scopo di questa fase di «ammorbidimento» è provocare una specie di uragano nella mente: i prigionieri subiscono una regressione tale, e sono così spaventati, che non riescono più a pensare razionalmente né a proteggere i propri interessi. È in questo stato di shock che la maggior parte dei prigionieri dà a chi li interroga ciò che questi desidera: informazioni, confessioni, abiura di convinzioni precedenti. Uno dei manuali della Cia fornisce una spiegazione particolarmente esplicita: «C’è un intervallo – che può essere estremamente breve – di animazione sospesa, una sorta di shock o paralisi psicologica. È provocata da un’esperienza traumatica o subtraumatica che fa esplodere, per dir così, il mondo che è familiare al soggetto, oltre all’immagine che egli ha di sé entro quel mondo. Gli specialisti riconoscono questo effetto quando si manifesta e sanno che in quel momento la fonte è molto più aperta ai suggerimenti, molto più disposta a collaborare, di quanto non fosse appena prima di subire lo shock».
La dottrina dello shock imita alla perfezione questo processo, cercando di ottenere su vasta scala ciò che la tortura ottiene su una singola persona in una cella per interrogatori. L’esempio più chiaro è stato lo shock dell’11 settembre, che, per milioni di persone, ha «fatto esplodere il mondo a loro familiare» e ha dato il via a un periodo di forte disorientamento e regressione, che l’amministrazione Bush ha sfruttato con estrema abilità. All’improvviso ci siamo ritrovati a vivere in una sorta di Anno Zero, in cui tutto ciò che sapevamo del mondo fino a quel momento poteva essere sbrigativamente definito «pensiero pre-11 settembre». I nordamericani, che peraltro non erano mai stati grandi esperti di storia, sono diventati «un foglio bianco» sul quale «possono essere scritte le parole più nuove e più belle», come Mao disse del suo popolo. Un nuovo esercito di esperti si è materializzato all’istante per scrivere nuove e bellissime parole sulla ricettiva tela delle nostre coscienze postraumatiche: «scontro di civiltà», hanno scritto. «Asse del Male», «islamofascismo», «sicurezza nazionale». Mentre tutti ci preoccupavamo delle nuove e mortifere guerre tra culture, l’amministrazione Bush è stata in grado di ottenere quello che prima dell’11 settembre poteva solo sognare: combattere guerre privatizzate all’estero e affidare la sicurezza della patria a un complesso di aziende.
È così che funziona il capitalismo dei disastri: il disastro originario – il colpo di Stato, l’attacco terroristico, il crollo dei mercati, la guerra, lo tsunami, l’uragano – getta l’intera popolazione in uno stato di shock collettivo. Le bombe che cadono, le grida di terrore, i venti sferzanti sono più efficaci, nel rendere malleabili intere società, di quanto la musica assordante e i pugni nella cella di tortura non indeboliscano i prigionieri. Come il prigioniero terrorizzato che rivela i nomi dei compagni e abiura la sua fede, capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti. Jamar Perry e gli altri sfollati al centro d’accoglienza di Baton Rouge avrebbero dovuto perdere le loro case popolari e le loro scuole pubbliche. Dopo lo tsunami, i pescatori dello Sri Lanka avrebbero dovuto cedere la loro preziosa spiaggia ai proprietari di alberghi.
Gli iracheni, se tutto fosse andato come previsto, avrebbero dovuto essere così scioccati e terrorizzati da rinunciare al controllo delle riserve di petrolio, alle loro aziende pubbliche e alla loro sovranità, cedendoli alle basi militari e alle zone verdi americane.
Questo libro è una sfida alla pretesa centrale e più cara alla storia ufficiale: che il trionfo del capitalismo senza regole sia nato dalla libertà, che il liberismo sfrenato vada a braccetto con la democrazia. Al contrario, mostrerò che questo fondamentalismo capitalista è stato invariabilmente partorito dalle più brutali forme di coercizione, inflitte sul corpo politico collettivo come su innumerevoli corpi individuali.
La posta in gioco è alta. Il corporativismo sta per conquistare le sue ultime frontiere: le economie chiuse e basate sul petrolio del mondo arabo, e i settori delle economie occidentali che a lungo sono stati protetti dal profitto – incluse la risposta alle emergenze e la creazione di eserciti. Poiché non si finge neppure di cercare il consenso popolare prima di privatizzare funzioni economiche tanto vitali, sia in patria sia fuori, serve un’escalation di violenza e disastri sempre maggiori per far avanzare la causa. Eppure, poiché il vero significato degli shock e delle crisi è stato così efficacemente cancellato dalla storia ufficiale della crociata corporativista, le tattiche estreme usate in Iraq e a New Orleans sono spesso scambiate per semplici incompetenze o favoritismi della Casa Bianca di Bush. In realtà, gli exploit di Bush rappresentano il culmine, molto violento e molto creativo, di una campagna lunga cinquant’anni per la totale liberazione delle grandi imprese, che non sarà frenata da una singola elezione in un singolo Paese. Piuttosto, è la stessa ideologia che dev’essere identificata, isolata e sfidata.
Qualsiasi tentativo di incolpare le ideologie per i crimini commessi dai loro seguaci dev’essere intrapreso con grande cautela. È troppo facile dire che coloro dai quali dissentiamo non sono solo in errore ma sono tirannici, fascisti, genocidi. È anche vero però che certe ideologie sono un pericolo per la gente e necessitano di essere identificate per quello che sono. Sono quei sistemi chiusi, quelle dottrine ideologiche che non possono coesistere con altri sistemi di valori: i loro seguaci disprezzano la diversità e pretendono una tabula rasa su cui costruire. Il mondo com’è oggi va cancellato per edificarne uno nuovo e perfetto. È una logica che affonda le radici nelle fantasie bibliche di grandi inondazioni e grandi incendi, una logica che conduce ineluttabilmente alla violenza. Le ideologie che aspirano a quell’impossibile foglio bianco che si può raggiungere solo con un qualche cataclisma sono le ideologie pericolose.
Di solito sono i sistemi ideologici basati sull’estremismo religioso e sul concetto di razza che richiedono l’eliminazione di altri gruppi al fine di perseguire una visione purista del mondo. Ma in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, c’è stata una potente resa dei conti collettiva con i grandi crimini commessi nel nome del comunismo. Gli archivi sovietici sono stati aperti ai ricercatori, che hanno così potuto contare i morti per carestie forzate, campi di lavoro e omicidi politici. Il processo ha scatenato un acceso dibattito su quanto le uccisioni fossero ispirate dall’ideologia in sé, o invece dalla sua distorsione da parte di seguaci come Stalin, Ceausescu, Mao e Pol Pot.
«È stato il comunismo in carne e ossa a imporre la repressione all’ingrosso, culminata in un regno di terrore spalleggiato dallo Stato» scrive Stéphane Courtois, coautore del discusso Libro nero del comunismo. «L’ideologia è, dunque, innocente?» Certo che ne ha. Non ne consegue che tutte le forme di comunismo siano intrinsecamente genocide, come qualcuno ha affermato, ma è stata senza dubbio un’interpretazione della teoria comunista, un’interpretazione dottrinaria, autoritaria e contraria a ogni pluralismo, che ha condotto alle purghe staliniane e ai campi di rieducazione di Mao. Il comunismo autoritario è, ed è bene che sia, per sempre macchiato da quei laboratori.
Ma che ne è allora della crociata contemporanea per liberate i mercati mondiali? I colpi di Stato, le guerre e i massacri che servono a installare e mantenere i regimi a favore delle grandi società non sono mai stati trattati come crimini del capitalismo, ma sono stati liquidati come eccessi di dittatori troppo zelanti, come fronti caldi della Guerra fredda, e ora della Guerra al Terrore. Se i più decisi oppositori del modello economico corporativista sono sistematicamente sterminati – in Argentina negli anni Settanta, in Iraq oggi – quella soppressione è giustificata come parte della lotta sporca contro il comunismo o il terrorismo: quasi mai come la lotta per l’avanzamento del capitalismo puro.
Non sto affermando che tutte le forme di sistema di mercato sono per forza violente. È assolutamente possibile, certo, avere un’economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell’economia – come una compagnia petrolifera pubblica – saldamente in mano statale. È parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e redistribuiscano la ricchezza così che le aspre ineguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.
Keynes aveva proposto esattamente questo genere di economia mista, regolata, dopo la Grande depressione: una rivoluzione nell’approccio politico che creò il New Deal e trasformazioni analoghe in tutto il mondo. È stato proprio quel sistema di compromessi, controlli ed equilibri che la controrivoluzione di Friedman mirava a smantellare metodicamente Paese dopo Paese. Vista in questa luce, la variante fondamentalista del capitalismo propria della Scuola di Chicago ha, in effetti, qualcosa in comune con altre pericolose ideologie: quel tipico desiderio di irraggiungibile purezza, di imbiancare la tela e tirar su dal nulla la società ideale.
Questo desiderio di disporre del potere divino di creazione ex nihilo costituisce precisamente il motivo per cui gli ideologi del libero mercato sono così attratti dalle crisi e dai disastri. Una realtà non apocalittica è semplicemente incompatibile con le loro ambizioni. Da trentacinque anni, ciò che anima la controrivoluzione di Friedman è stata l’attrazione per un tipo di potere, libertà e senso di possibilità che è disponibile solo in tempi di mutamento cataclismatico – quando le persone, con le loro abitudini ostinate e le loro domande insistenti, vengono spazzate via – momenti in cui la democrazia sembra concretamente impossibile. Chi crede nella dottrina dello shock è convinto che solo una grande discontinuità – un’inondazione, una guerra, un attacco terroristico – possa generare quelle tele vaste e bianche tanto intensamente desiderate. In questi momenti malleabili, in cui siamo psicologicamente e fisicamente sradicati, gli artisti del reale tuffano le mani e iniziano il loro lavoro di ricreazione del mondo.
http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/rizzoli/_minisiti/klein/leggionline....
Il leader del Carroccio: mi fido di Silvio
La Repubblica, MERCOLEDÌ, 30 APRILE 2008
"I nostri fucili sono sempre caldi" Bossi attacca, Berlusconi lo frena
Napolitano irritato: disputa che non mi appassiona
Il leader del Carroccio: mi fido di Silvio, rispetterà i patti e troverà la soluzione
Due esponenti di Libera Milano contestano il Cavaliere su Mangano
GIANLUCA LUZI
--------------------------------------------------------------------------------
ROMA - «I fucili sono sempre caldi. Ho trecentomila uomini sempre a disposizione». Bossi torna in Parlamento e all´ingresso di Montecitorio si volta verso la selva di telecamere e macchine fotografiche, alza il pugno e, incurante degli inviti di Berlusconi a non usare quel frasario «fatto di iperboli e metafore», torna al vecchio repertorio che irrita Napolitano il quale dall´Austria commenta: «Ho visto che Berlusconi li ha definiti fucili di carta. Questa disputa se siano di carta, se siano caldi o se possano essere di carta e anche caldi non mi appassiona». E a Napolitano fa appello Rifondazione perché non nomini ministro il capo lumbàrd.
Comincia la legislatura, Berlusconi non riesce a chiudere il rompicapo del governo, tanto che a sera convoca un vertice della stato maggiore di Forza Italia, né ad evitare la contestazione di due aderenti all´associazione "Qui libera Milano" che gli gridano: «Mangano era mafioso». Bossi detta sempre le condizioni al Cavaliere. Anzi, gli intima di rispettare i patti: «Mi fido di Berlusconi, stavolta manterrà la parola. Del resto si è sposato con la Lega, quindi deve eseguire gli ordini». Poi negherà di averlo detto, ma intanto Berlusconi sa che la Lega rilancia, soprattutto dopo la vittoria di Alemanno a Roma che riporta più in alto le quotazioni di Alleanza nazionale, un po´ in sofferenza per lo strapotere della Lega al Nord. Quindi il prezzo lo alzerà sicuramente anche il partito di Fini.
Per questo, dopo un incontro a tre con Fini e Maroni, Berlusconi vuole spegnere sul nascere una possibile rincorsa tra Lega e An. E smentisce seccamente che la Lega possa pretendere un numero maggiore di ministri, tantomeno la casella che sarebbe andata ad Alemanno se fosse stato sconfitto. «Siete fuori di testa?», replica Berlusconi a chi gli prospetta questa ipotesi. La vittoria di Roma «è merito di Francesco Giro e di Silvio Berlusconi che ha fatto diciannove interviste. Cos´è questa storia di Rosi Mauro?...», cioè la sindacalista della Lega che alcune voci avrebbero voluto al Welfare. Ministero destinato ad An.
Bossi ostenta sicurezza che i patti verranno rispettati, «alla fine Berlusconi troverà la soluzione. Sono fiducioso, sennò avrei preteso i ministri prima del voto dei presidenti delle Camere, quando avevo il coltello dalla parte del manico». Il Senatur non vuole fare il vicepremier: «Non faccio il vice di nessuno». Vuole Maroni agli Interni «per cacciare i clandestini» e per sé le Riforme per realizzare il federalismo fiscale. Il linguaggio è minaccioso, a dispetto di una telefonata di Berlusconi che lo invita a «evitare fughe in avanti» perché «in questa fase non serve essere aggressivi ma stare tranquilli».
«Questa è l´ultima occasione: - lancia la sfida Bossi - o si fanno le riforme o scoppia il casino. Abbiamo 300 mila uomini, 300 mila martiri pronti a battersi. E non scherziamo, non siamo quattro gatti. Verrebbero giù anche dalle montagne». Bossi non fa molto affidamento sul contributo della sinistra alle riforme. «Non so cosa vuole. Noi siano pronti, se vuole fare gli scontri io ho 300 mila uomini sempre a disposizione, se vogliono accomodarsi... «. Comunque, conclude, «non credo che la sinistra faccia questa scelta, ma è meglio che non la faccia».
L'Europa "zigna" e Berlusconi minaccia.
"Zignare", in dialetto brianzolo, è ciò che fanno le zanzare sul sedere degli elefanti , come ha spiegato in una precedente occasione il neo eletto Presidente del consiglio.
Secondo Berlusconi l'Europa, con i suoi dubbi sul prestito ponte di 300 milioni di euro per Alitalia, "zigna", appunto.
La noiosa zanzara Europa infastidisce l'elefante Berlusconi! Che da buon pachiderma non se ne curerà più di tanto.
Quindi, secondo il capo del governo, se Bruxelles continuerà con i seccanti richiami alle regole comunitarie, farà comprare Alitalia alle Ferrovie. E poco importa che le Ferrovie non ne vogliano sapere perchè questo significherebbe una somma di debolezze. "Non è una decisione, è una minaccia" ha dichiarato per chiarire(?).
Rivolta a chi? A questa fastidiosa Europa comunitaria che impone regole? A tutti noi, cittadini italiani, che dovremo comunque pagare? Non avremmo diritto che chi governa ci proponga soluzioni e non invece ci investa con minacce che si aggiungono a quelle dei "fucili caldi" del socio leghista ?
Se non fosse una tragedia per milioni di donne e uomini di questo Paese sembrerebbe una farsa grottesca. Come infatti appare la vicenda del "bel paese agli occhi del mondo. Basta dare un'occhiata alla stampa straniera.
Mi viene in mente questa frase che ho sentito da qualche parte:
ANCHE I PEGGIORI POSSONO PARLARE, MA NON A NOME MIO".
bossi è legittimato a dire
bossi è legittimato a dire quello che vuole
nessuno può permettersi di deleggittimarlo
non esistono in parlamento persone oneste per poterlo fare
bisognerebbe comprendere che fintanto si continuano a votare simili figuri, saremmo costretti a "vedere" simili situazioni
BISOGNEREBBE
sor.riso
Bossi legittimato?
Fino a prova contraria, nessun cittadino è 'legittimato' a dire quel che dice Bossi, liquidare la questione col qualunquismo che ti contraddistingue, serve solo a te stesso.
x donna
evidentemente non sono riuscito a spiegarmi cara Donna
non sono certo io che leggittimo bossi, ne tantomeno "merita"
di essere legittimato
ma nei fatti lo è perchè TUTTE (che becero qualunquismo eh?) le persone elette non sono fior di galantuomini in grado di metterlo a tacere
sor.riso
per sor.riso
Hai qualche proposta da fare? O ti limiti a stare alla finestra assaporando la gioia del non aver votato nessuno? Se non hai alcuna idea, se non ti chiedi come fare per uscire dal pantano in cui tu come ciascun altro in Italia è finito -non dimenticare che ci sei dentro anche tu- perchè non ti godi da solo lo spettacolo nefando e insisti a comparire in un blog in cui si cerca di capire, di riflettere, di trovare una strada per ricostruire la democrazia?
x una donna
perchè mi vedi come un nemico?
capisco l'insofferenza verso una persona ignava, ma io non mi ritengo tale, quindi non capisco la tua negatività nei miei confronti
io non gioisco affatto di non aver potuto votare
e so benissimo di esserci invischiato fino al collo
anche io sto cercando di capire, non rifletto più perchè ho tratto gia alcune mie considerazioni, ma sto ancora cercando una strada per ricostruire
per questo seguo questo blog
ho una proposta da fare, e cioè non fare proposte, mi spiego:
tutto ciò che le persone cosiddette illuminate hanno tentato di fare, non ha prodotto risultati significativi
ora ritengo assolutamente inutile continuare a battere le stesse strade
sono contrario ad una rivoluzione, anche se creerebbe quello scossone necessario
sono favorevole invece ad una risoluzione definitiva che consiste nell'educare una nuova generazione di "politici" che andranno a sostituire TUTTI quelli attuali
ci vogliono anni lo so, ma non vedo altre vie percorribili
la stima che ho della sig.ra Rame mi permette di affermare che persone come Lei sarebbero fantastici maestri nell'educare questa nuova generazione di "politici"
ecco la proposta che faccio è realizzare una scuola per "politici" con docenti del calibro della sig.ra Rame
con la finalità di preparare la futura classe politica italiana
sor.riso
Cacciari: "Fini non è né un filosofo né un teologo"
La Repubblica, GIOVEDÌ, 01 MAGGIO 2008
Cacciari: "Non parli a vanvera di teologia"
CARLO BRAMBILLA
--------------------------------------------------------------------------------
MILANO - «Relativismo non vuol dire nulla! Non ne posso più di sentir parlare a vanvera di relativismo! Gli «ismi» in genere sono flatus vocis, parole vuote, che non significano nulla fintanto che non si spieghi specificatamente cosa si intenda dire. Fini non è né un filosofo né un teologo: lasciamo perdere le sue citazioni filosofiche o i suoi omaggi teologici al Pontefice».
Il filosofo Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, non nasconde la sua irritazione per il dibattito politico-culturale seguito al discorso di Gianfranco Fini da neo-presidente della Camera. Ammette però di apprezzare un passaggio: quello in cui si afferma che «la minaccia alla libertà non viene dalle ideologie antidemocratiche del secolo scorso, ormai sepolte nella quasi totalità delle coscienze».
Ma sul relativismo, lei boccia Fini?
«Se per relativismo si intende il fatto che la libertà viene declinata sempre più in termini individualistici ed egoistici sono perfettamente d´accordo con Fini. Ma questo è solo un aspetto del problema. Siamo in un´epoca molto difficile proprio perché tutti sono diventati democratici. Ed è difficilissimo capire cosa significhi democrazia. E allora bisogna ridefinire il termine. Questo è il punto».
Nessuno spettro mussoliniano o stalinista alle porte?
«Fini ha ragione: non viviamo più in anni nei quali ci si debba preoccupare di pericoli di carattere autoritario o totalitario».
Quali sono invece i veri pericoli per la democrazia oggi?
«È in atto una evidente crisi della democrazia. Si tratta di una crisi del principio di rappresentanza. Una crisi di sovranità. Che deriva in parte dall´autorevolezza o meno del ceto politico, ma anche da cause più strutturali. Penso alla potenza degli apparati tecnico-economici-finanziari, che non funzionano certo sulla base di principi democratici. Esiste un difficile problema di rapporti tra sfera politica e sfera economica, sfera politica e sfera finanziaria, sfera politica e sfera tecnico-scientifica. Questi sono i problemi del futuro. Che dovremo affrontare tutti insieme».
E' caduto il fondamento antifascista della Costituzione
Da IL Manifesto del 1 maggio 2008
Editoriale
Un'altra Repubblica
Ida Dominijanni
Trecentotrentacinque voti e diciannove applausi - tre dei quali bipartisan, altri trasversali a ranghi sparsi - segnano l'approdo del processo di legittimazione democratica della destra post-fascista in Italia. Gianfranco Fini siede nello scranno più alto della camera dei deputati, terza carica dello Stato, due giorni dopo la conquista del Campidoglio di Gianni Alemanno. Sono due prime volte nella storia della Repubblica. Dicono che cade un tabu, ma in verità a cadere è il fondamento antifascista della Costituzione, e poi chi l'ha detto che i tabu devono cadere tutti? Da ieri, non dal '92 quando non crollò nessun tabu ma solo un sistema politico corrotto, siamo in un'altra Repubblica e alla Camera si vede anche a occhio: Fini presiede, la sinistra non c'è. Ci sono voluti diciannove anni, la lunga autodissoluzione del Pci, l'avvento del profeta Berlusconi, lo scongelamento nelle acque di Fiuggi dell'Msi, un bipolarismo e poi un bipartitismo fatti dall'alto, un tentativo fallito di costituzionalizzare la destra una e trina del '94, un serial televisivo ininterrotto, dosi massicce di revisionismo storico sulle buone ragioni dei ragazzi di Salò e sulle colpe di comunisti, socialisti e socialdemocratici e alla fine ce l'abbiamo fatta. Un paese finalmente normale?
Fini non è Alemanno e in Parlamento non brinda come farà per radio Alemanno alla legittimazione conquistata: si limita a praticarla dall'alto scranno, con le dovute astuzie e cautele. Omaggia Napolitano e solo per il suo tramite la Costituzione (impegnando la legislatura a cambiarla, e senza steccati sulla prima parte), garantisce con algido disincanto che le ideologie antidemocratiche del Novecento sono morte e sepolte (insabbiando sotto la condanna dei totalitarismi europei quella dell'italico regime), incassa «il traguardo ormai raggiunto» della memoria condivisa e della pacificazione nazionale, e vola nel XXI secolo in compagnia di Benedetto XVI innalzando la bandiera della libertà. Quale? Non quella celebrata «doverosamente» dal 25 aprile, che ormai è al sicuro, ma quella minacciata dal male assoluto di oggi, che non è più il fascismo come aveva concesso in Israele bensì il relativismo culturale. «La libertà è minacciata nello stesso momento in cui nel suo nome si teorizza una presunta impossibilità di definire ciò che è giusto e ciò che non lo è». Presidente «di parte ma imparziale», come si autodefinisce, Fini sarà anche il testimone e l'arbitro del Vero e del Giusto? Dal secolo delle ideologie e dei totalitarismi si può sempre uscire con un po' di fondamentalismo, raccomandandosi che venga bene impartito in famiglia e a scuola.
Il resto è contorno, tanto post-ideologico quanto saldamente di destra. L'omaggio più deferente è al papa e alle radici cristiane non dell'Europa ma «della nostra patria», l'orizzonte è quello mediterraneo dei tre monoteismi ma non si va oltre, le parole più rotonde sono nazione e tricolore, il lavoro passa da fondamento della Repubblica a motore dell'economia alleato con l'impresa e i magistrati da garanti dei diritti a sentinelle dell'ordine alleate con la polizia, lo Stato ritroverà autorità e i cittadini sicurezza. A Roma, per tradurre, ci saranno meno stupri.
La seduta è finita, la transizione pure. Dalla fine, si sa, si vede meglio anche l'inizio. C'era un partito fascista extracostituzionale, oggi c'è una destra democratica. C'era una sinistra costituzionale, oggi c'è un partito democratico. Eppure, la democrazia non sembra scoppiare di salute.
Su quello che c'è accaduto
da Megachip
Su quello che c'è accaduto - 2/5/08
(94 letture)
"... Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri...
Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla.
Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere. Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo".
"De la démocratie en Amérique" di Alexis De Tocqueville, 1840
Assisi: l’uomo che morde l’uomo
http://www.voglioscendere.ilcannocchiale.it/
1 maggio 2008, Pino Corrias
Arrestate Francesco, il santo
Sotto al cielo devoto di Assisi, davanti alla pregevole basilica del povero Francesco, nessun povero potrà piu’ chiedere l’elemosina. Via i mendicanti dalla scalinata, dalla piazza, “dalle adiacenze del luogo di culto”, come recita l’editto del sindaco Claudio Ricci, Forza Italia, che se ne frega del corto circuito appena innescato. Anzi lo rivendica. Dice l’editto: “E’ fatto divieto mendicare nei luoghi pubblici a meno di 500 metri da chiese, luoghi di culto, monumenti, piazze, edifici pubblici”. E’ altresì vietato “sdraiarsi o sedersi a terra in prossimità dei luoghi di culto, monumenti, piazze, e edifici pubblici”.
In uno dei capitoli dei Karamazov, Gesù torna davvero sulla Terra e il capo della Santa Inquisizione si affretta a farlo arrestare per metterlo sotto processo. E’ il capitolo più bello e più profondo del grande romanzo di Dostoevskij. Ma evidentemente anche il meno letto, il meno istruttivo, di questi tempi.
Se Francesco tornasse nei prossimi giorni a Assisi - dove in nome dei poveri e persino della carità ha fondato non solo la sua congregazione, ma anche la sua santità - di sicuro verrebbe circondato e allontanato dai vigili urbani. In quanto nomade incorrerebbe in parecchie altre sanzioni comunali. E sarebbe il signor sindaco in persona a cacciarlo dalla città. Per non disturbare il decoro, si capisce. Il flusso dei fedeli. E il santo commercio di ogni rosario, candela, centrotavola, lumino, immaginetta, soprammobile, acquasantiera, sciarpa, maglietta, cappello dove il Santo parla con gli uccelli, accoglie i lupi. E persino i mendicanti.
Che proprio Assisi li voglia cacciare è qualcosa di più della classica notizia dell’uomo che morde il cane. E’ peggio. E’ l’uomo che morde l’uomo.
Che "travaglio"
Ho seguito Anno Zero" ieri sera, e gli attacchi di Sgarbi a Marco... Bè si è dimostrato "un inglese" a non cadere nelle provocazioni dello Sgarbi nazionale.
Quello che è successo in P.zza San Carlo a torino è stato qualcosa di incredibile, i Vaffa regalati a destra e manca sono tutti "meritati". Il giornalismo in Italia è morto, Biagi, Montanelli, dei grandi giornalisti, Biagi cacciato, Montanelli spesso "fermato" cos'è rimasto ora ??? Solo delle "persone" iscritte ad un ordine e SERVI di questo o quel partito (non) liberi di scrivere quello che davvero ci sarebbe da scrivere, ma solamente IMBRATTARE della carta, oltretutto preziosa... Evviva la controinformazione, evviva la vera libertà di stampa parola ed espressione.
In fondo mandare a fare in culo una persona non è poi cosi grave.
E il portatore nano di democrazia si merita un isola (tipo la Sardegna) di VAFFANCULO lui e tutti i suoi CONDANNATI...
Siamo un grande paese, qui è nata l'arte, noi siamo l'arte nel mondo, grandi pensatori, viaggiatori... ora cosa siamo ? Schiavi o meglio persone "poco" libere...
signori giornalisti, signori è un eufemismo, bello far finta che non succeda niente, che il popolo si muova, che ci sia gente che ride ma pensa, che si arrabbia e subito dopo ama, ama la sua storia (non tutta) la sua terra, il suo popolo...
Giornalisti, sveglia, questa è l'Italia questi siamo noi...
O voi siete stranieri in patria ???
Crilo
Ancora petrucioli e Annozero
Petruccioli umiliato da Anno zero - 3/5/08
(188 letture)
C'è un politico in Italia che fonda il suo successo sulla violenza dell' insulto - preferibilmente verso chi non può difendersi - e sull'urlo mediatico sguaiato che riesce a mandare in onda. Questo politico si chiama Vittorio Sgarbi. Ce n'è un altro – stavolta fondatore e segretario di un partito vincente e prossimo ministro - che si gloria di straparlare di fucili padani e pallottole per i magistrati. Si chiama Umberto Bossi. Entrambi da decenni hanno libero accesso su tutte le tv d'Italia e in parlamento. Il primo si trovava all'ultima puntata di Anno zero. C'è un manipolo (definizione dell'antica Roma) di politici di successo che ritengono l'improperio violento lo strumento privilegiato del loro “messaggio”. La vicenda Petruccioli-Santoro-Grillo viene ben ultima. L'insulto di Grillo a Veronesi e l'improprio accenno al presidente della repubblica sono stati del tutto inopportuni. Questi insulti, conosciuti da sette giorni dai lettori dei quotidiani, hanno urtato la suscettibilità del presidente della Rai. Il quale però è restato del tutto indifferente al putiferio di urla, insulti e irrisioni che Sgarbi ha scatenato durante tutta la trasmissione, a vivi e morti. Quelli non lo umiliano. E non lo umilia il livello offensivo raggiunto da gran parte dei programmi tv, specie del cosiddetto intrattenimento. Avremmo noi un rimprovero per Anno zero e per Santoro, perché mai invitare l'urlatore Sgarbi? Ma questo, chissà perché, sembra non abbia umiliato nessuno.
da Megachip
Anno Zero
Ho visto solo ieri sera la puntata di Anno Zero (registrata perchè non c'ero) beh..che dire? Sgarbi si dovrebbe vergognare! E mi chiedo come mai è stato invitato. Non sa discutere, si arrabbia e insulta. Povero Marco Travaglio! Per lui deve essere stato proprio un travaglio evitare di reagire agli attacchi di Sgarbi!
A mio parere, la televisione, i giornali devono informare su tutto poi sarà lo spettatore o il lettore a formarsi un'opinione su quella notizia. Invece in questi giorni ho assistito a molte critiche su Grillo, sulla sua persona, mentre quasi nessun giornale o tv, si è soffermato sulle questioni che porta avanti, che sono questioni vere, importanti, non campate per aria. Poi ognuno potrà essere d'accordo sul modo con le quali le porta avanti, potrà dissentire da Grillo, ma egli ha il merito di porre delle questioni.
Ma poi quel Petruccioli cade dal pero? Non sapeva cosa Grillo avesse detto su Veronesi e il Presidente della Repubblica ? non legge i giornali? Non sapeva che ad Anno zero sarebbe andata in onda una puntata su Grillo? Non ha dato una guardata veloce al suo blog prima di scandalizzarsi per le sue affermazioni? Beh francamente è assurdo. Mi sembra tutta una montatura, un pretesto per sbarazzarsi di Santoro e Travaglio e di una trasmissione, una delle pochissime, che vede le cose e le affronta con un altro punto di vista, che ci fa riflettere e discutere. Insomma sveglia le menti assopite da una stampa e tv tutte uguali(salvo qualche eccezione)
Non è scandaloso Anno Zero che fa informazione.
Non è scandaloso Grillo che in ogni caso è un comico che smuove l'acqua stagnante e torbida della politica e dell'informazione. E' scandaloso che Sgarbi abbia insultato più volte Travaglio.D'altronde non poteva essere che così. Sgarbi scrive sul giornale della famiglia Berlusconi, naturale che lo attacchi...sic. E' scandaloso che Sgarbi abbia detto che IL Giornale non riceve una lira dallo Stato quando invece non è così, lo stesso Santoro lo ha smentito.
E per finire e cosa per me fondamentale, invece di vergognarsi per le sparate di Grillo e per Santoro che l'ha mandato in onda, a sua insaputa naturalmente, Petruccioli si doveva indignare, scandalizzare e soprattutto vergognarsi quando, mentendo spudoratamente e offendendo la memoria di un libero pensatore e giornalista come Biagi, Sgarbi ha detto che Biagi non è stato cacciato dalla Rai ma gli avevano proposto una fascia diversa per il suo programma.
Questo è quello che è davvero scandaloso!
E perchè Petruccioli non si scandalizza per Berlusconi che ha attaccato la magistratura, che ha "sparato"alla giornalista russa, che ha considerato martire Mangano e per Bossi che inneggia alla guerra con i 300.000 martiri pronti a morire? Il tutto trasmesso dalla Rai.
Siamo messi male ma molto molto male.
Annozero, Beppe Grillo, Marco Travaglio... per quanto ancora??
Giovedì sera ho letteralmente tremato seguendo Annozero e lo show di Sgarbi che tempestava di insulti, urla e altre inciviltà il povero Travaglio, che ha comunque retto benissimo e non si è scomposto, consapevole, intelligente com'è, che non ne valeva decisamente la pena, idem Santoro. Aldilà dei nervi che naturalmente è in grado di tendere in me l'"eroe disperato della cultura dell'idiozia" (come lo ha definito Giorgio Bocca) col suo servilismo e le sue provocazioni, e aldilà della rabbia di fronte all'impotenza di entrare nello schermo per prenderlo a botte, tutta la scena mi ha dato da pensare, lugubri pensieri... Sgarbi è un noto provocatore, e il suo intento era esattamente di arrivare dove (non) è riuscito, insulti a Marco Travaglio e a Beppe Grillo (tra gli ultimi baluardi di un'informazione realmente corretta e libera) accuse a Santoro di "uso criminoso della tv pubblica" di triste memoria e che che troppo ricordano un tempo poco lontano... Ho tremato al pensiero "per quanto ancora ci sarà dato di vedere trasmissioni come Annozero o Report, e di vedere Travaglio e Grillo in tv quindi di sapere esattamente cosa ci sta succedendo davvero??". Non si è ancora insediato lo psiconano con il nuovo pseudogoverno che già qualche lacchè (uno a caso, tra i più affezionati) gli spiana la strada per arrivare a far rotolare qualche testa scomoda, con modi da regime fascista. Non c'è nulla da fare, è evidente che non c'è interesse a rendere visibili ed efficaci le loro battaglie anche se (o proprio perchè) c'è un outsider della politica come Grillo che raccoglie 500.000 firme in un sol giorno e senza che uno straccio di telegiornale ne informi le persone, o un giornalista eticamente e politicamente corretto come Travaglio che non ha bisogno di insultare per informare, ma semplicemente espone fatti, inchiodando i responsabili alle loro colpe. E subito ho pensato a Franca Rame da Fazio, a proposito di personaggio inviso ai media, alle sue battaglie in politica, al suo impegno per le vittime dell'uranio impoverito...Ma la gente deve continuare a credere che il reale problema di questo Paese sia l'immigrazione, il rumeno che stupra e che ruba, mentre il Potere gli mette mano al portafoglio e gli plasma intelligenza e coscienza a proprio piacimento. E tante volte, ripensando ai pochi eori rimasti, mi vien da pensare "ma chi glielo fa fare?" e invece poi realizzo "menomale che ci sono ancora persone come loro"... già, ma per quanto? Non sono bei tempi quelli che corrono. Troveranno il modo per metterli a tacere? Che ne sarà di noi? C'è qualcosa che possiamo fare che ancora non abbiamo fatto?
Annozero, Beppe Grillo, Marco Travaglio... per quanto ancora??
Temo ancora per poco ...
I grandi forgiatori e manipolatori di coscienze trovano senz'altro fastidioso il loro lavoro.
Le due immagini qui sotto rendono bene l'idea.
La prima è mia e la seconda appartiene a un diavolaccio dall'occhio lungo.
Un saluto
Tubal
La fabbrica del consenso
Sven il fotomanipolatore
Caro Tubal, le tue vignette :-)
estremamente puntuali e realistiche ma ironiche e pungenti al tempo stesso hanno un potere terapeutico, riescono sempre a sollevarmi un po' dall'amarezza che mi (ci) circonda, in merito mi sono registrata sul tuo sito proprio qualche giorno fa...
A proposito, complimenti per il lavoro!
Leggevo in un tuo intervento della tua idea di organizzare via internet una rete di persone collegate e coese nel perseguire attivamente un unico ideale e nel contrastare "i grandi manipolatori": anche io penso sia una buona idea, forse è persino l'unica soluzione che rimane intentata e che val la pena tentare, e non credo sia nemmeno tanto inattuabile... sogno troppo anch'io dici?? (Almeno questo ci è ancora concesso!)
Un saluto a te
Irene
PS: ti sei rimesso dall'incidente?
Ciao Irene,
Ciao Irene,
grazie per le tue parole :-)
Ho iniziato a far vignette per cercare uno sfogo alla rabbia che mi montava dentro.
Quindi sono una terapia anche per me.
Il discorso del collegamento in internet è una cosa a cui penso da tempo.
Io purtroppo sono un gran sognatore.
Inizio a pensare una piccola cosa e dopo mezz'ora e qualche sigaretta mi ritrovo ad aver radunato migliaia di persone.
Poi atterro coi piedi o qualcos'altro per terra ...
Però non credo che la cosa sia così impraticabile.
Pensa cosa potrebbero fare Franca Rame, Dario Fo, Beppe Grillo, Marco Travaglio, Giulietto Chiesa e altri se decidessero di aprire una mailing list come quella mia cui ti sei iscritta.
Potrebbero creare varie liste regionali e nel volgere di pochi minuti chiamare in piazza migliaia di persone incazzate.
Immagina se dovessero di nuovo chiudere Annozero, censurare Santoro o Travaglio.
Potrebbero organizzare con una sola mail decine di gruppi sotto le sedi RAI.
Armati di striscioni promettenti boicottaggi sulla pubblicità fino al ritorno dei censurati.
Dobbiamo prepararci da ora.
Creare una mailing list è facilissimo.
Bastano 10 minuti.
Poi la esponi in tutti i blog e siti che aderiscono all'iniziativa e si iniziano a raccogliere adesioni.
Ma io da solo non ci posso riuscire.
Posso metterci l'idea, un po' di spirito organizzativo che ho affinato negli anni sul lavoro e nel sindacato.
Ma servono le adesioni di nomi importanti.
Il mio orecchio è quasi guarito. Ne avrò ancora per un paio di settimane.
Grazie :-)
Un caro saluto a te e a tutti gli amici e amiche del blog.
Maurizio
Ti lascio l'ultima vignetta che ho fatto sui naziskin di Verona
Naziskin
Per Tubal (e per tutti, iniziativa...)
Buongiorno Maurizio,
ribadisco che la tua idea mi sembra molto valida e mi permetto di richiamare l'attenzione di tutti su questo nostro scambio di battute, in modo che siano informati di questa tua proposta che non credo debba rimanere senza riscontro. Qualunque esito sortirà, sarà valsa la pena provarci. E' la nostra unica salvezza del resto, e tu dimostri di averlo ben capito dai tuoi scritti e dai tuoi disegni.
Credo che si potrebbe iniziare sensibilizzando gli utenti di questo blog, gli iscritti alla tua mailinglist e proporre un passaparola tra i loro amici, parenti, conoscenti ecc... Personalmente ho alcuni amici (sempre troppo pochi, purtroppo) che sono sicura appoggerebbero l'iniziativa... Insomma, la tua idea potrebbe avere un gran richiamo in poco tempo.
Dopodichè si potrebbe creare una specie di "manifesto" ufficiale redatto da parte di un primo nucleo di persone che per prime hanno aderito, contattare tramite la redazione Franca e Dario e proporre a loro la cosa... da loro si giungerebbe facilmente ad altri contatti di rilievo di cui - concordo perfettamente con te- è strettamente necessario l'appoggio e la "sponsorizzazione" se così si può dire, affinchè l'iniziativa non rimanga relegata nel bel mondo delle idee e non produca un buco nell'acqua. In ogni caso, sarebbe un'ottima opportunità per noi per uscire dalla sensazione di impotenza che ci attanaglia e anche per coloro che in quanto personaggi pubblici scomodi rischiano di perdere la propria voce e che invece dobbiamo aiutare affinchè possano preservarla, offrendo loro una specie di proscenio da cui continuare a farsi sentire e a contrastare questo sistema marcio.
Considerami dunque a disposizione per una collaborazione, qualora decidessi di avviare questo progetto. Spero vivamente che questo messaggio attragga l'attenzione di tutti coloro che frequentano il blog, perchè c'è un gran bisogno di menti non ancora assopite, di cervelli preservati dalla lobotomizzazione della tv spazzatura (le vignette di ieri... emblematiche!)che nel migliore dei casi è vuota e incosistente, nel peggiore... panem et circenses per tener buona una massa ignorante che possa correre a votare B.
Io sono ancora giovane, troppo per arrendermi già a questa triste realtà, che oltretutto mi spaventa se solo provo a immaginarla nelle sue evoluzioni future.
C'è bisogno di ritrovare un senso per questa nostra vita, di riconoscerci in quanto Persone, esseri pensanti e non semplici individui senza cultura, senza sensibilità civica e sociale con solo uno spiccato interesse per il proprio portafoglio e il proprio posteriore.
Teniamoci in contatto, io intanto continuo a riflettere e vediamo se riesco a spremere qualche buona idea dalle meningi :-).
Auguro a te e a tutti una buona giornata.
Irene
Per Tubal : sono d'accordo
Anch'io ritengo che l'idea sia buona e do la mia disponibiltà nel caso volessi portare avanti il progetto.
Ok allora procedo (Tubal)
Ok, mi avete dato lo spunto per crederci un po' di più.
Adesso mi metto sotto e scrivo meglio il pensiero che mi gironzola in testa da molti mesi.
Stasera lo posto e poi se vi va ne discutiamo tra noi e con gli altri amici del blog.
A stasera
Tubal
caso Santoro Grillo di Pancho Pardi
CASO SANTORO GRILLO
di: Pancho Pardi
La comunicazione in Italia è malata all’origine. La malattia classica era la lottizzazione della Rai. Ma è stata surclassata dal monopolio della televisione commerciale nelle mani di un solo operatore dominante, per merito di Craxi e Amato.
Se le due malattie sono temporaneamente separate c’è il duopolio Rai-Mediaset. Quando inveceil massimo operatore privato governa c’è il monopolio MediaRai nelle sue mani: tutto ciò che ne sfugge è solo l’effetto della sua grazia. Infatti non manca di ricordarcelo, e secondo lui dovremmo addirittura essergli grati.
Ora siamo in un breve interregno. Per modo di dire: le testate giornalistiche Rai avevano già fiutato il vento (Riotta l’aveva già fiutato due anni fa e non aveva nemmeno cambiato i mezzibusti del Tg;senza offesa per i pochissimi indipendenti che non aveva potuto escludere...).
Il casino nei confronti di Santoro per via di Grillo ha un fondamento capzioso. Tutti avevamo già visto e sentito per intero Grillo su LA7 . Non dava scandalo perché LA7 la vedono in pochi.
Dà invece scandalo che Grillo compaia sulla TV pubblica che tutti vedono. E’ un tema a lungo sviscerato da Furio Colombo: puoi trasmettere ciò che vuoi purché nessuno ti veda, ma se ti vedono,soprattutto sulla Tv pubblica, allora si scatena la bagarre.
Petruccioli, che dovrebbe vergognarsi per come ha condotto (si fa per dire) la Commissione di vigilanza Rai durante il precedente governo di Berlusconi, riesce a vergognarsi, autentica mammoletta, per l’apparizione di Grillo ad Anno Zero. Vedremo se si vergognerà per i prossimi capolavori del monopolio. L’aspettiamo alla prova.
Se un rimprovero si può fare a Santoro è piuttosto il contrario: dà spazio solo a Grillo. Il suo acume di giornalista forse potrebbe applicarsi a far sentire le molteplici voci che la società produce e che nessuno fa sentire. Se si riducono i protagonisti pubblici a soggetti unici non è un cedimento allo schema dominante che vuole ormai la cancellazione del molteplice a vantaggio dell’uno che svetta su tutto?
E’ anche abbastanza curioso, ma non troppo, che quasi nessuno abbia trovato parole per la mirabile performance di Sgarbi. Forse è passato oramai il criterio che loro «possono».
Il monopolista televisivo può giocare spudoratamente con l’Alitalia prima ancora di averne l’autorità e può mitragliare la giornalista russa perché «lui è fatto così, che cosa volete farci?». Sgarbi può dare in escandescenze per lo stesso motivo.
La domanda è ingenua: chi non è stronzo non può?
Creato da mariaricciardig
Ultima modifica 2008-05-05 15:34
da http://www.carovanaperlacostituzione.it/menunew/informazione/pardi80505
Lettera a Biagi
Caro Enzo, in molti parlano ancora di te
di Loris Mazzetti
Caro Enzo neanche lì dove sei ti lasciano in pace. Sono in molti quelli che continuano a parlare di te, la maggior parte con affetto e rimpianto, qualcuno invece, per trovare un po’ di “sole”, usa il consueto ritornello: “Non è stato cacciato, è lui che se ne è andato dalla Rai”. Se nessuno ti voleva mandar via perché il tuo ultimo contratto, che si rinnovava tacitamente, fu disdetto con una raccomandata e per essere sicuro al cento per cento Saccà, allora direttore generale, allegò alla suddetta anche la ricevuta di ritorno?
Semplice Watson! Su quel contratto c’era scritto che dovevi realizzare un programma che Berlusconi aveva accusato di essere “criminoso”: Il Fatto. Il Cavaliere ha ripetuto spesso, durante l’ultima campagna elettorale, che l’editto bulgaro non è mai esistito e di aver cercato di convincerti di continuare a fare la tv. Evidentemente il suo amico Saccà non gli ha mai raccontato che tu la televisione la volevi fare ancora, eccome, e che eri disposto non solo ad andare in onda in un altro orario ma anche su un’altra rete, la Tre. Ad Anno Zero Sgarbi ha ripetuto la stessa tiritera, poi dopo che in tanti si sono schierati contro, ha chiesto aiuto a Del Noce che gli ha dato ragione e a sostegno di ciò, il direttore di RaiUno, si è definito non solo testimone ma protagonista della tua vicenda.
Sgarbi che parla di te, Del Noce che si dichiara teste oculare, ti rendi conto come siamo messi qui… I veri testimoni sono i milioni di telespettatori che per cinque lunghi anni non ti hanno visto in onda con un tuo programma. Sai Enzo, io sono convinto che, se uno dopo 41anni di onorata televisione, per non essere umiliato, non ha accettato certe condizioni e per questo ha smesso di fare tv, non è poi tanto diverso dall’essere stato cacciato via. Questo accadde quando Saccà, dopo che intervenne anche la Commissione parlamentare di vigilanza, ti propose di fare Il Fatto su RaiTre alle 18,50 prima del tg. A quella indecente proposta, visto che con Ruffini e Di Bella avevamo concordato di andare in onda alle 19,50, rispondesti che non si poteva fare l’approfondimento prima della notizia.
Di tutta questa vicenda mi dispiace soprattutto per le tue figlie Bice e Carla, per i tuoi quattro nipoti, che a distanza di sei mesi dalla tua scomparsa non riescono ancora a vivere intimamente il dolore, che è solo loro, devono continuamente condividerti con gli altri, c’è sempre un “coglione” che si intrufola che invade, che non è capace di tacere, ma soprattutto di dare rispetto. Quando ho letto l’agenzia dove il direttore di RaiUno ha parlato dell’incontro di Milano del 2 luglio 2002, che doveva essere di riappacificazione, e che invece fu un atto di ipocrisia e che fu convocato dopo che avevi dato per telefono del cretino a Del Noce. Era stato nominato da poco direttore e alla quinta volta che gli telefonasti per sapere che fine avrebbe fatto la nostra trasmissione, lui ti aveva risposto, per la quinta volta, che stava studiando. Chiudesti la telefonata giustamente alterato, perché tu facevi la tv da tanti anni e c’era poco da studiare per te parlavano i programmi che avevi realizzato. Era una scusa per prendere tempo per poter arrivare alla scadenza del tuo contratto, ma lo capimmo più tardi. Quel giorno in Rai a Milano quando gli chiedesti scusa, da galantuomo quale sei sempre stato, c’eravamo tu, io, lui e Saccà. L’ipocrisia fu quella di raccontarci che avevano bisogno dello spazio in cui andava in onda Il Fatto per fare un varietà della stessa durata di Striscia la notizia e per ragioni di ascolto, la fascia, non poteva più essere segmentata. Rimanemmo d’accordo che nel giro di pochi giorni sarebbe arrivato il tuo nuovo contratto per un programma di seconda serata con qualche prima, da concordare direttamente con Del Noce. Nel frattempo i mesi passarono e la bozza arrivò solo il 18 settembre, fuori tempo massimo, perché il 16 era andata in onda la trasmissione che aveva sostituito Il Fatto: Max & Tux. Guardandola capimmo che il 2 di luglio eravamo stati presi in giro. La trasmissione di Lopez e Solenghi era addirittura più corta della nostra. In quei due mesi e mezzo prendesti la giusta decisione, di non voler più avere nulla che fare con quella gente: o Il Fatto o niente. Ti ricordi la lettera strappa lacrime che ti mandò Saccà dove ti chiese di “continuare a intrattenere la tua conversazione con i telespettatori”, dove ti definì “un patrimonio che si intreccia con il cammino dell’Azienda”, e poi a proposito del contratto che non arrivava, da me più volte sollecitato, aggiunse: “i ritardi deplorevoli non possono alterare questa sintonia …”? Il 20 settembre mandasti a Saccà la tua risposta: “Riconosco al direttore di RaiUno il diritto di cambiare il palinsesto con l’intenzione di battere Striscia la notizia, ma in quell’incontro, mi fu prospettato il proposito aziendale di una trasmissione unica e omogenea che avrebbe riempito lo spazio tra Tg1 e la prima serata. Mi risulta che ieri sera sono andati in onda quattro spezzoni diversi. Ho letto che RaiTre è disponibile a programmare Il Fatto ma, viste le dichiarazioni del presidente Baldassarre, si opporrebbero problemi economici. Glieli risolvo subito: io sono pronto a rinunciare alla clausole finanziarie del mio contratto…”. Chissà se Saccà avvisò Del Noce quando nel 2003, concluse con il tuo avvocato una transazione economica dopo una tua ipotesi di portare la Rai in tribunale: danno biologico, d’immagine ecc.? Berlusconi ha più volte raccontato che hai ricevuto una lauta liquidazione e secondo lui questo è il motivo per cui hai smesso di fare tv, ma come il Cavaliere sa, essendo un esperto di televisioni, i contratti in esclusiva come il tuo contengono una clausola “nulla è più dovuto” e con la famosa disdetta con raccomandata con ricevuta di ritorno, la Rai era a posto e nulla ti doveva.
Sai cosa penso Enzo che quella transazione che hai firmato alla fine è stata pagata dai contribuenti, da chi paga il canone, invece doveva essere pagata da coloro che ti hanno impedito di continuare a fare il tuo lavoro. Se un domani qualche legislatore decidesse che anche in Rai chi sbaglia sapendo di sbagliare paga di propria tasca, forse tanti fatti come il tuo, come quello di Santoro, Beha, Iacona, Ruotolo, Bendicenti, Gigotti, Chiodi, Fini, Alfano, Conte, Pezzolla e tanti altri, che sono costati milioni di euro di risarcimento, non accadrebbero più.
dal sito:www.articolo21.info
05/05/2008 - Letto 331 volte